X DAL MANIFESTO AL PDUP |
1. Il caso Manifesto
Attorno alla questione «Manifesto» si realizza un vasto interesse, non solo per gli argomenti teorici sviluppati dall omonimo gruppo quanto per la novità che rappresenta l'apertura di un dissenso all'interno del Pci, gestito, per la prima volta, da ] autorevoli dirigenti che in contrasto con la linea ufficiale del partito, spinti dal dichiarato proposito di mutarne gli indirizzi, decidono la pubblicazione di una loro autonoma rivista. Non vi è nessun paragone con la miniscissione del Pcd'I, un episodio del tutto marginale che aveva riguardato quadri periferici e senza alcuna notorietà, in questa occasione sono impegnati in prima fila militanti che ricoprono importanti incarichi a livello nazionale, hanno prestigio nella base del partito e il loro interrogarsi si situa nel solco del non sopito dibattito dell'XI congresso a cui si sono aggiunte le tensioni del turbinoso «anno degli studenti». La scelta di Aldo Natoli e degli altri sembra accreditare, in molti ambienti, l'ipotesi di una possibile spaccatura verticale del partito comunista; da ciò l'ampia discussione all'interno del minoritarismo, l'attenzione di incuriositi settori intellettuali nonché l'acceso dibattito interno fra i militanti comunisti in particolare fra i più giovani, ansiosi di dare risposta alla domanda di transizione al comunismo che un sommovimento sociale e culturale senza precedenti ha posto. Il Manifesto non si presenta come una realtà omogenea, si trascina dietro le contraddizioni che il partito ha vissuto e mediato dopo la morte di Togliatti: il giudizio sulla situazione italiana; la collocazione internazionale; l'analisi sulle forze politiche e la strategia delle alleanze sociali e politiche. Nella fase formativa la situazione è molto fluida, non esiste un corpo organico di riflessioni ne il gruppo si colloca in posizione chiaramente alternativa al Pci, piuttosto agisce come forza di pressione ai fini di una battaglia interna dall'esito ancora incerto. Proprio quest'apertura, questo non essere portatori di una linea precisa ma pronti a discuterla e a costruirla nei confronti col nuovo che è emerso nella sinistra, suscita attenzione e curiosità, anche se fra i gruppi e molti ex movimento studentesco, non mancano sostanziali diffidenze. Rapidamente il gruppo diventa un referente per chi non ha ancora definito la propria collocazione in questa o quell'altra formazione del gruppismo, per coloro che hanno scelto un generico antirevisionismo senza precisarne i contenuti ma solo con la volontà di partecipare a un dibattito che si presenta intellettualmente valido e ancora da approfondire. I protagonisti del caso sono personaggi noti, questo conta e influenza giovani alla ricerca di leader indiscussi e prestigiosi: Aldo Natoli, dirigente di rilievo nella vita politica della capitale; Rossana Rossanda responsabile del lavoro culturale; Lucio Magri conosciuto per le sue posizioni sull'economia, già al centro di una polemica sulla transizione al comunismo in occasione del convegno promosso dall'Istituto Gramsci sulle tendenze del capitalismo, rispettivamente autori di due testi fortunati in quel periodo Lanno degli studenti e II maggio francese; e inoltre Massimo Caprara, già segretario di Togliatti; Valentino Parlato; Luciana Castellina; Luigi Pintor, noto e vivace polemista politico de «!'Unità». L'idea della rivista come strumento di pressione e di ricerca autonoma matura prima della scandeza congressuale del XII congresso del Pci; nelle intenzioni nasce come «rivista teorica» per dibattere senza i lacci del centralismo democratico questioni interne e internazionali, cioè Fattualità della rivoluzione in Occidente sullo sfondo di un' acuta crisi nel campo socialista europeo 1. Il monito della dirczione del Pci non tarda, ancor prima della pubblicazione, in un suo comunicato giudica l'iniziati-va dannosa e inutile, solo nel novembre — però — dopo la riunione congiunta del comitato centrale e della commissione centrale di controllo dell ottobre 1969 si deciderà la radiazione dal partito dei suoi promotori2. Il primo numero de «II manifesto» esce, come rivista mensile, il 23 giugno 1969; raggiungerà con la ristampa 55.000 copie di tiratura. Prevale l'assemblaggio sui temi di più scottante attualità politica; temi su cui è aperto il confronto all'interno del Pci e che esercitano un forte richiamo nei confronti del gruppismo. Gli articoli trattano vari argomenti: la politica interna (Pintor); i contratti (Magri-Foa), l'internazionalismo proletario (Rossana Rossanda); la rivoluzione culturale (Collctti Pischel, Snow, Karol) e inoltre vengono pubblicate le tesi del XIV congresso clandestino del Partito comunista cecoslovacco. Per avere una piattaforma unitaria di discussione e di lavoro per l'«unità della sinistra rivoluzionaria e la costruzione di una nuova forza politica alternativa al revisionismo», bisognerà arrivare al settembre '70, con la pubblicazione delle Tesi per il comunismo. Fino a quella fase, con una progressiva accelerazione dopo la radiazione dal partito, i vari contributi (conversazione con Sartre; note su Gramsci di Debray; considerazioni sull'e-sperienza cecoslovacca; scritti di Chomsky; inediti di Che Gue-vara; materiali di commento alla situazione politica) sono una platea indifferenziata di interventi che scorrazzano con molta disinvoltura, da ciò la forza del loro fascino, nel grande zibaldone della critica al revisionismo come si era affermata nella pratica delle riviste degli anni sessanta. In una concezione allargata della sinistra, concepita come area espansa in cui confluiscono i tratti dell'operaismo di origine «Quaderni rossi», una lettura spontaneista e antiburocratica della rivoluzione culturale, i motivi del dissenso cattolico, le novità del nuovo estremismo ses-santottesco, l'enfatizzazione dei caratteri rivoluzionari del movimento studentesco, la crisi del socialismo reale. Il confronto che si vuole stimolare dentro e fuori il Partito comunista si snoda attorno a tré questioni centrali: la natura dello sviluppo capitalistico e quindi Fattualità della transizione, l'interpretazione della situazione internazionale, la vita interna del partito. Nei primi mesi di vita della rivista e in particolare a ridosso della radiazione si assiste a un'accentuata crisi dell'estremi-smo uscito sconfitto dallo sviluppo delle lotte contrattuali, e proprio di questo clima il gruppo cercherà di avvalersi portando avanti un tentativo, che si dimostrerà erroneo, di egemonizzare i vari spezzoni del gruppismo concedendo sul piano dell'apertu-ra e dell'ecclettismo teorico. L'auspicata «rivoluzione culturale» dentro il partito si dimostra impraticabile, gli ambiziosi progetti di far leva sulle contraddizioni del gruppo dirigente, per rompere la precarietà di un' unità mediata e compromissoria si infrangono contro la disciplina e le regole del centralismo democratico. Ambiguamente le stesse critiche mosse al partito si traducono in altrettanti ostacoli per la stessa operazione avviata dal Manifesto suscitando diffidenza e sospetto di facili trasformismi.
2. La radiazione
Dall' originaria funzione di area di pressione, dopo la mar-ginalizzazione subita nel XII congresso, le contrapposizioni si fanno sempre più nette e la resa dei conti si renderà inevitabile. Così Natta, cui spetta il compito di grande accusatore nella riunione congiunta del comitato centrale e della commissione centrale di controllo, commenta lo sviluppo delle posizioni del gruppo: «accade così che dall'affermazione di tré mesi fa secondo cui i compagni del Manifesto non si riconoscevano nella cosiddetta linea di maggioranza e chiedevano lo spazio e il tempo per poter trasformare "una posizione negativa, necessariamente affrettata e schematica" in una piattaforma, in un'alternativa ideologico-politica, da offrire al partito, si giunge, nell'ultimo numero, a contestare più rudemente la consistenza, l'adeguatezza di questa linea, perché essa non avrebbe risolto "le ambivalenze" della nostra politica e si sarebbe fondata anche aU'ultimo congresso su "una mediazione provvisoria" e si giunge a contestarne anche la legittimità democratica, perché essa, più che la scelta del partito o del suo congresso, sarebbe in effetti "il frutto di un accordo politico già realizzato all'interno del gruppo dirigente"» 3. La requisitoria contesta il catastrofico giudizio del Manifesto sulla linea del partito, sul suo stato organizzativo e sul gruppo dirigente: respinge la tesi di una presunta crisi storica dell'in-tero movimento operaio occidentale, delle piattaforme politiche e delle forme organizzate che esso ha assunto. Natta le definisce «cupe affermazioni» da cui si fanno derivare: il crescente divario fra strategia politica e la nuova soggettività rivoluzionaria prodotta dalla crisi delle società a capitalismo avanzato, la paralisi dell'iniziativa, la rottura della precaria unità interna; a cui si aggiungono le divisioni del movimento internazionale e l'in-voluzione in atto nei paesi socialisti. Un complesso di fattori rispetto ai quali il Pci rimarrebbe inerte, prigioniero del «vuoto derivante dalla crisi crescente del campo socialista europeo» e ormai adagiato in una sorta di «internazionalizzazione della rinuncia». Se nell'intervento del leader comunista la rassegna dei punti di contrasto emerge con chiarezza, non con altrettanta lucidità si indaga sulle suggestioni da cui traggono origine le posizioni del Manifesto, in questo modo non si coglie la fluidità ancora presente nell'elaborazione della rivista, ne si comprende fino in fondo l'ampiezza di una problematica che travalica la vicenda specifica. In questo senso vi è un limite culturale e politico del Pci, non separabile dal permanere di una forte ragione di partito che non consente avventurose spegiudicatezze. Il Manifesto senza il '68 non si spiega, ne si comprendono a fondo le ambizioni, non prive di velleitarismo intellettuale, del suo progetto. La risposta del Pci al sommovimento del '68 è stata oscillante, il generoso sforzo di Luigi Longo per individuare nella spinta alla partecipazione una chiave interpretativa si è dimostrato insufficiente a ridefìnire una strategia unificante della rivoluzione socialista in occidente. Nel ragionamento di Natta vi è quasi un aristocratico rifiuto delle matrici e delle suggestioni ideali e politiche che animano gli interrogativi posti, per concentrare, invece, la sua attenzione sui contrasti. Sottolinea come dalla riserva critica, dai dubbi suU'orientamento e sull'iniziativa del partito e del movimento comunista e rivoluzionario internazionale, il Manifesto sia passato a chiedere un radicale rovesciamento della collocazione internazionale del partito. Proponendo così la creazione di un'alternativa di sinistra rivoluzionaria al-l'interno del campo socialista, puntando alla «sconfitta e alla sostituzione dei gruppi dirigenti dell'Urss e degli altri paesi socialisti per iniziativa e da parte di un blocco di forze sociali diretto dalla classe operaia [...] e — quindi — al di là degli argomenti che sostengono queste tesi, riproponendo vecchie modellistiche del tutto antagoniste alle teorizzazioni dell'unità nella diversità. Ormai — secondo Natta — non si tratta più di un' ipotesi di rinnovamento, ma di «rottura», di «riforma generale», di «rifondazione», necessità imposta di fronte a un partito anchilosa-to rispetto alla realtà e «drammaticamente alle corde, non coerente, non adeguato ne alla realtà in cui deve operare, ne alla stessa sua linea politica, una istituzione». Si è quindi a un contrasto non conciliabile con la collocazione e la politica internazionale del partito e del tutto contrapposta agli orientamenti della sinistra e dello schieramento democratico italiano. Sono divergenze che coinvolgono l'insieme della storia del Partito comunista e la sua concreta esperienza: «Sulla questione centrale dell'avanzata del socialismo in Italia i compagni del Manifesto ripropongono una linea che, nella sostanza, nega il nesso tra lotta per la democrazia e lotta per il socialismo, e quindi tutta la strategia e la politica elaborata dal nostro partito in mezzo secolo di lotta antifascista, democratica, socialista» 4. Per Natta questa «sostanziale incomprensione e negazione» del rapporto tra lotta democratica e lotta socialista discende da «un' astratta contrapposizione tra forze sociali e forze politiche e da un'altrettanto schematica e arretrata valutazione dell'attuale momento politico caratterizzato, secondo il Manifesto, da uno stato di «massima tensione sociale» e da un «vuoto di alternativa politica», per cui la via d'uscita dovrebbe essere cercata nell'«accentuazione del solco tra forze sociali e forze politiche e l'alternativa dovrebbe essere fondata su un mutamento "non di governo" ma di "regime", "non di maggioranza ma di classe dominante" ». Terreno decisivo di scontro è, dunque, il giudizio sul livello raggiunto dalle forze produttive e quindi la natura del conflitto sociale. Abbandonato il terreno fondamentale della lotta politica per il rinnovamento e la trasformazione dello Stato per fermarsi in modo prevalente ed esclusivo al livello sociale, al livello delle forze produttive si finirebbe — prosegue Natta — quali che siano le intenzioni, o l'ampiezza dei fenomeni di ribellismo, a un sostanziale riformismo socialdemocratico e il partito sarebbe condannato ad una funzione subalterna nella società. Da ciò l'incapacità di comprendere, accusa mossa a Natoli e agli altri, le dinamiche in atto e il ruolo delle diverse forze politiche de-mocratiche, cattoliche e laiche, accomunate in un indifferenziato giudizio di crisi e di deperimento; e il «sostanziale disprezzo» per le istituzioni democratiche, considerate come elementi marginali della «vita pubblica istituzionalizzata». Mantenendo aperto uno spazio alla sinistra interna al partito, Natta riconosce un ruolo fondamentale ai movimenti sociali che si sono espressi nel '68 e nel '69, movimenti che impegnano sempre di più «la classe operaia, anche quella di recente formazione, il mondo contadino, le masse studentesche e con una tendenza che si accentua — le popolazioni dei grandi centri urbani». Per la loro eccezionaiità hanno posto problemi nuovi e complessi ed evidenziato i limiti delle organizzazioni operaie e del partito. Ma questi necessari adeguamenti non possono determinare — insiste Natta, ricollegandosi idealmente ali'elaborazione togliattiana — un solco tra movimenti di lotta e forze politiche, ciò significherebbe la rinuncia a indicare «obiettivi politici al movimento e a determinare quegli spostamenti politici e dei rapporti di forza oggi possibili, con una ampia lotta unitaria e democratica». Al contrario la vera questione politica consiste nel trovare una saldatura fra l'espansione delle lotte sociali, che si muovono su concreti e specifici obiettivi da raggiungere, e l'iniziativa per imporre un radicale mutamento negli indirizzi economici e politici, sviluppando ulteriormente la democrazia come crescita del movimento e della organizzazione popolare, come conquista di nuovi poteri sindacali e democratici dal basso, come sviluppo e rinnovamento delle istituzioni democratiche. Sono queste le imprescindibili condizioni di una battaglia democratica che, come hanno confermato la recente scissione socialdemocratica e la crisi dell'interclassismo cattolico, può produrre una modifica profonda dei rapporti di forza e degli schieramenti politici. Una battaglia democratica che trae le sue ragioni di fondo dalle peculiarità del paese, dal fatto che «le classi capitalistiche ed agrarie, il blocco di potere della borghesia, comunque si sia venuto modificando o configurando in Italia, non ha mai rinunciato, per difendere o conservare il proprio privilegio e il proprio potere, a limitare, reprimere le libertà democratiche» 5. In sostanza si è ancora alla seconda tappa della rivoluzione antifascista, un tema ricorrente nella cultura politica del Pci comunista fino ai grandi terremoti elettorali del '75-'76, e che animerà sia pure con elementi di novità la stessa teoria del compromesso storico. Anche il leader della sinistra interna, Pietro Ingrao, lo sconfitto dell'XI congresso, l'attento osservatore dei nuovi antagonismi sociali, concorda con Natta. Non condivide l'orizzonte politico proposto dai dissidenti, ne la rottura delle regole interne. Nel suo intervento si ancora alle conclusioni del XII congresso prospettando un'ormai impossibile ricerca comune6. Il dibattito nel comitato centrale non si limita agli aspetti metodologici dell'iniziativa del gruppo del Manifesto, ma compie un'articolata rassegna delle questioni aperte e in tutti gli interventi traspare la necessità di un ulteriore approfondimento. Dopo tré giorni di discussione, i massimi organi di dirczione del Pci, approvano la relazione di Natta, i risultati della V commissione e l'intervento conclusivo di Enrico Berlinguer, allora vice-segretario del partito, si astengono: Chiarante, Lombardo Radice e Luporini, mentre Garavini, assente al momento del voto, spedirà una lettera dichiarando che se fosse stato presente si sarebbe astenuto; votano contro i rappresentanti del Manifesto mèmbri del comitato centrale: Natoli, Pintor, Rossana Rossanda. Le conclusioni, pur riconfermando le critiche, sembrano voler mantenere aperto il confronto. L editoriale della rivista Dopo il cc comunista, la discussione sul Manifesto lascia intravedere la disponibilità a proseguire la discussione: «può meglio compiersi, questo approfondimento, all'interno dei canali del partito, piuttosto che attraverso una "rivista esterna?". Se è così, "II manifesto" può anche modificarsi, l'abbiamo detto, o anche esaurirsi. Ma il problema, allora, è di verificare, se così è, ed è poi quello accennato a conclusione del suo intervento dal compagno Berlinguer come regolare la esplicitazione del dissenso» 7. Stronca ogni speranza la risposta della dirczione del partito, la richiesta è perentoria: sospendere la pubblicazione della rivista. Lordine non viene rispettato: il 12 novembre la dirczione del partito con un suo comunicato, invita il comitato centrale ad adottare entro il mese i necessari provvedimenti disciplinari. Nella seconda edizione de «II manifesto» dell'ot-tobre-novembre una nota critica commenta il comunicato della dirczione del Pci: interrompe ogni possibilità di dibattito e contraddice l'orientamento del comitato centrale dell'ottobre. Nella seduta del 25 dicembre, dopo che Aldo Natoli ha dichiarato le ragioni per cui il gruppo del Manifesto, contravvenendo alle regole del centralismo democratico, ha scelto di non «desistere» dal pubblicare la rivista, il comitato centrale, a maggioranza, con tré astensioni e sei voti contrari, approva la radiazione, seguiranno le misure disciplinari nelle federazioni.
3. Il rifiuto del revisionismo
Secondo il giudizio del Manifesto, all'indomani della radiazione la situazione si presenta in modo articolato. Ad eccezione di Napoli e Cagliari la discussione all'interno del Pci è considerata scarsa, nel Mezzogiorno, in Sicilia e in Puglia si è formalmente deciso di non affrontare la questione, in Calabria, invece si è registrata una certa attenzione così come in Campania. Il dissenso alla linea ufficiale e alla scelta della dirczione oltre a Napoli è emerso a Salerno e ad Avelline. Nel centro-Italia la situazione è stata più favorevole: nel Lazio, oltre alle numerose sezioni romane, del Manifesto si è discusso a Civitavecchia; ampio il dibattito a Firenze, Livorno, Pisa. Il confronto ha lasciato quasi totalmente indenne la federazione di Bologna, mentre più articolata si è presentata la situazione a Reggio Emilia dove non sono mancati momenti di tensione nel comitato federale. Realtà in sviluppo sono considerate le federazioni di Genova, Savona, Torino, Novara, Verbania, Padova, Gorizia, Trieste, Venezia, dove il dibattito ha coinvolto il 15% delle sezioni,^ interessante la discussione di Milano e Bergamo. Complessivamente il Manifesto afferma: «può dirsi che diffusione e intensità del dibattito, non manifestano un rapporto di proporzionalità con la forza del partito; una più elevata correlazione che si riscontra invece con i dati più diffusi del Manifesto. Sempre dal punto di vista politico si può dire che maggiore intensità di dibattito, vi è stata nelle federazioni, che si caratterizzano per una dirczione di destra (non è casuale, per esempio, che in Piemonte si è registrata più tensione a Novara che a Torino). Le federazioni di orientamento centrista o con passato di sinistra, si sono mosse invece sulla linea della sdram-matizzazione, mettendo la sordina al dibattito; non va dimenticato che in alcune di queste federazioni l'intervento conclusivo di Berlinguer al comitato centrale di ottobre aveva diffuso l'opinione che il "caso" del Manifesto non avrebbe avuto una soluzione disciplinare, o, almeno, non l'avrebbe avuta così rapidamente» 8. Dopo la radiazione, per il Manifesto, si è realizzato un netto spostamento a destra dell'asse politico del Pci, sempre più stretto fra «potenzialità rivoluzionaria e componenti riformisti-che»; si rende quindi necessario e possibile avanzare una «proposta politica e di lavoro» alternativa. Attribuendo una tendenziale unità all'area del dissenso si sostiene la praticabilità di un' organizzazione processo che, riecheggiando alcune tematiche del luxemburghismo, punti a una riunifìcazione delle cosiddette sinistre anticapitalistiche. Con un limite di analisi che si prolungherà nella storia del gruppo, ci si riferisce ad un generico fronte antirevisionista assunto acriticamente e prescindendo dalle sue varie specificità, in questo senso sfugge al Manifesto ogni tentativo di bilancio critico, semplicisticamente e non senza ombre di opportunismo questo «nuovo blocco storico» viene indicato come «un arco di forze che si riconoscono in un comune rifiuto del riformismo» 9. Non e'è dubbio che i protagonisti del Manifesto all'indo-mani della radiazione sembrano sopravalutare l'ampiezza della rottura operatasi nel Pci e le sue possibilità di espansione, e nu-trono un'eccessiva fiducia su un ipotetico processo aggregativo. La stessa leadership del gruppo è attraversata da vecchie e nuove divergenze, in particolare le idee non sono chiare sulla questione del partito, numerosi gli interrogativi: è ancora valido lavorare per la costruzione di un «partito» alternativo alla vigilia della transizione? Costruire subito un partito antirevisionista o trascinare nel tempo una fase di agglutinamento? Questo possibile partito, non più «terzinternazionalista», quali regole deve avere? La piattaforma delle Tesi non risolverà questi interrogativi, la dialettica partito-movimento rimarrà una costante del-l'esperienza del Manifesto e caratterizzerà il suo oscillante rapporto con le altre formazioni della sinistra extraparlamentare, nonché all'indomani delle elezioni del '72 il laborioso e difficile incontro con l'area ex-psiuppina di Foa-Miniati. Nella nuova fase che si apre il gruppo deve lavorare per colmare il divario fra la sua originaria esperienza, un' esperienza vissuta dentro il Pci, e una gruppettistica che dopo la stagione sessantottesca è passata a una più organica centralizzazione. Le differenze sono molte, per ampi settori del minoritarismo il gruppo è ancora attratto dall'orbita del Pci; strumentalmente ma anche con veemenza ci si chiede: «ma dov'era il Manifesto nel '68?», non è forse vero che le critiche che ora muovono al loro ex-partito arrivano tardive, emulative, per qualche verso già invecchiate. Non è da escludere che questi attacchi palesi o più sottilmente raffinati influenzino alcuni dei passaggi immediati del Manifesto, sin dall'inizio tuttavia il gruppo tende a situarsi come una sorta di ponte fra la tradizione del movimento operaio, rappresentata schematicamente dal Pci, e lextraparlamen-tarismo oltranzista che ha tagliato ogni rapporto col revisionismo del Pci e del sindacato. Il Manifesto non rinuncia ad agire sulle contraddizioni del Pci, e per questa via cerca di riorganizzare attorno a sé dissensi già diversamente maturati, riproponendoli con un' autorevolezza vissuta dall'interno, tutto ciò mentre il minoritarismo ha già subito un duro colpo. Lucio Magri, nel suo articolo Ancora un lavoro collettivo che appare sul «Manifesto» del dicembre '69, compie una radiografìa delle ragioni della sostanziale disunità del Pci. Fattori diversi interagiscono fra loro: l'enorme stratificazione del partito con la sua complessa composizione sociale; la scarsa partecipazione alle scelte di fondo rispetto al numero degli iscritti; la convivenza di concezioni ideologiche antagoniste fra loro, risultato questo della non profonda assimilazione del significato della destalinizzazione. Dal bisogno di mantenere salda un'unità precariamente costruita nasce la ragione della reticenza e della impossibilità, una consapevole autodifesa, a sottoporre tutto il partito a livello nazionale a un processo nuovo, mentre sul piano internazionale queste ragioni vanno ricercate nel faticoso procedere di una reale autonomia del Pci dal Pcus, per le difficoltà che si aprirebbero con alcuni settori del partito. In sintesi, scrive Lucio Magri: «La realtà è che non ci troviamo di fronte ad un divorzio tra un partito socialdemocratico e un movimento rivoluzionario, ma ad un movimento complesso e contradditto-rio, mescolato di potenzialità rivoluzionaria e di componenti ri-formiste.» e ancora «Fattuale scelta del Pci, dunque, registra una incapacità ad esprimere le potenzialità rivoluzionarie, ad assolvere un compito di avanguardia, ad esprimere anche le contraddizioni e i limiti del movimento» 10. Da questa situazione di stallo deriva il fallimento di ogni coerente strategia rivoluzionaria, del tutto irrisolta e sfocata la problematicità, resa attuale dai recenti movimenti di lotta, della transizione rivoluzionaria in occidente, cioè nei punti alti del capitalismo. Era stato questo il nodo centrale dell'intervento di Rossana Rossanda nella riunione del comitato centrale dell'ottobre, quando riprendendo la polemica già sostenuta con Bufalini sulle pagine di «Rinascita» (luglio '68) rivendicava la necessità di aprire un profondo dibattito all'interno del partito con la finalità di collegarsi alle nuove tensioni sociali e al prospettarsi, nella realtà occidentale, di un'urgenza rivoluzionaria inedita rispetto alla tradizione del socialismo. Non era una richiesta soggettiva limitata ad alcuni militanti, ma una necessità imposta dallo spessore delle novità politiche e dal loro grado di incidenza su tutto il corpo del partito; con le lotte del sessantotto, infatti, secondo la Rossanda, si entra in una fase eccezionale dello scontro di classe in Italia e nell'intero occidente, questo mentre sul piano internazionale il movimento comunista è a una stretta «drammatica». Lo sconvolgimento in atto impone nuovi moduli interpretativi, in assenza dei quali cresce un disagio diffuso che si tramuta in quel dissenso implicito o esplicito di cui è permeato l'insieme del partito; si incrina il suo monolitismo e il suo rapporto fiduciario con il movimento di classe; si produce una frattura storica che non è frutto di intellettualismi o false costruzioni ideologiche, bensì la risultante di processi reali che vanno indagati e ricompresi alla luce di un più generale adeguamento di strategia rivoluzionaria. Ma questo sondaggio in profondità, secondo il gruppo del Manifesto, non poteva realizzarsi nelle forme tradizionali del centralismo democratico, un rigido strumento per l'organizza-zione del consenso, piuttosto sollecitava la legittimazione del dissenso, la promozione di un dibattito senza schemi pregiudiali e fuori dalle logiche di partito, la violazione delle antiche regole della disciplina di partito per andare alla radice del nuovo che scuote la società. La scelta della radiazione ha confermato questa impossibilità. Riprendendo i fili del dibattito sulla natura dello sviluppo capitalistico, assumendo nel binomio lotte studentesche e novità delle lotte contrattuali dell'autunno caldo la conferma dell'eccezionale sommovimento rivoluzionario, rivolgendosi all'etereogeneità di forze «antirevisionistiche», si propone come comune terreno di lavoro l'immediatezza della transizione al socialismo. Sul!' onda delle imponenti mobilitazioni operaie, mentre è in corso una profonda trasformazione del sindacato e dei suoi modelli partecipativi, la scelta fra «vie parlamentari» e «vie consiliari», è presentata in termini radicali u. Mentre per il Pci la democrazia consiliare è un'esperienza improponibile per la complessità della società occidentale, superata teoricamente dal-l'elaborazione di Gramsci posteriore alla fase ordinovista, e dal pensiero di Togliatti; per il Manifesto la tematica consiliare è «un elemento permanente della teoria marxista della rivoluzione» che supera l'invecchiato schema delle alleanze sociali riportando lo scontro alla sostanza della lotta «classe contro classe». Il suo mancato sviluppo è conseguente alle scelte compiute dai partiti comunisti occidentali, che non solo non si sono impadroniti di questa tematica ma l'hanno completamente rimossa; al contrario solo la sua ripresa può garantire al processo per la conquista del potere le caratteristiche di «uno stato in via di estinzione». Da cui si conclude: «che la rivoluzione in occidente, non si può e non si potrà fare se non prende progressivamente forma nella società un'alternativa reale al modo capitalistico di produzione come modo di produrre, di consumare e di pensare, cioè come programma di trasformazione sociale, come blocco di forze capace di attuarlo, come nuovi soggetti di gestione sociale» ". In questa visione i «consigli» sono lo strumento per la conquista del potere nell'epoca del capitalismo maturo, Fanello decisivo di un modo diverso di realizzare il socialismo forzando il quadro democratico, rovesciando lo stesso rapporto fra democrazia e socialismo. Partendo dalle novità dei processi sociali, dalla «ricca realtà politica» che essi esprimono, nascono le premesse teorico-organizzative delle Tesi sul comunismo che appaiono sulla rivista nel settembre 1970. Pur riconoscendo i limiti della gruppettistica e la disarticolazione della cosiddetta nuova sinistra non si va a fondo dell'in-dagine critica, e si cade in un generico appello al movimentismo. Solo dopo l'appuntamento di Rimini nel 1971, si dovrà ammettere l'approssimazione di questo giudizio e la carenza nel-l'individuazione di precise discriminanti: «Si è formata alla sinistra del Pci una ricca realtà politica con idee, volontà, quadri (e anche spazio elettorale); è una realtà ancora disarticolata e fluttuante, priva di una linea strategica e di coordinamenti organizzativi; un aspetto della crisi più che l'inizio del suo superamento. Le formazioni minoritarie che hanno cercato di dare unità e linea a questa realtà hanno fallito l'obiettivo, senza riuscire nel corso delle lotte ad estendere la loro influenza sulle masse controllate dalle organizzazioni tradizionali, e anche senza riuscire a unificare le avanguardie già in rotta con la politica opportunistica. Dominante è la progressiva frammentazione dei gruppi, il loro ripiegamento attivistico e dogmatico, per ragioni oggettive che riproducono in tutto l'occi-dente lo stesso fenomeno, ma anche per insufficienze soggettive che questa nuova sinistra patisce da sempre e non sa superare...» 13. Nell'impostazione del Manifesto occorre uscire da una sorta di «circolo vizioso», una stretta tra un partito comunista che non sa esprimere dal suo interno una nuova forza, e una realtà di nuovi militanti incapaci di unificarsi e porsi come «punto di riferimento esterno». Senza spezzare questa morsa, si finisce col dissipare la «straordinaria potenzialità presente nello schieramento di sinistra oltre che nella società». Per questo è indispensabile costruire: «Un movimento capace di unificare, intorno a una linea precisa forze in grado di operare politicamente e incidere nella società; in grado di far precipitare, per la capacità egemonica del proprio discorso e della propria pratica, un più generale processo di ristrutturazione della sinistra italiana; e quindi in grado di offrire al movimento di lotta, per questa via, una espressione politica adeguata, e di prospettare al paese nel più lungo periodo una vera alternativa» M. Una prospettiva di «rigenerazione sociale» che chiama tutti a misurarsi col nuovo: militanti e quadri comunisti, socialisti, cattolici, militanti espressi dalle lotte; Finterò arco delle forze anticapitalistiche che hanno preso coscienza della crisi della società. Da questa ispirazione nasce la proposta di «aprire, con la ricerca comune un comune lavoro politico una fase costituente per l'unifìcazione di tutte le forze della sinistra rivoluzionaria» 15. Ma l'appello alla «linea precisa» rimarrà un'esortazione senza molta efficacia, mentre la scelta della sperimentazione teorico-politica prevarrà sui contenuti e sulla chiarezza del programma politico. Dopo la radiazione dal Pci si tratta di «rilanciare» l'attività del Manifesto, i «centri di iniziativa» diventano il luogo pratico della sperimentazione collettiva e l'occasione per verificare le condizioni politiche di una linea comune: «Non si tratta di inventare strutture che anticipino un lavoro. Si tratta di creare non solo gruppi di studio e circoli politico-culturali, ma collettivi studenteschi, comitati operai di base, collettivi di intellettuali e di tecnici, quindi un raccordo fra diverse esperienze tra pratica sociale e azione politica locale e nazionale [...]. Non è una proliferazione di gruppi del Manifesto che pensiamo, ma alla promozione anche col Manifesto e con ciò che esso può rappresentare di iniziative unitarie di base che accumunino forze della sinistra anticapitalistica» 16. E una proposta metodologica «che apre all'esterno» e consente al Manifesto di incontrarsi con altre realtà: lavora ai fianchi del dissenso del Pci; cerca rincontro con gruppi studenteschi ormai al limite del collasso; raccoglie frange dell'estremi-smo in crisi. Molta l'attenzione dedicata alle fabbriche, alla problematica dei consigli dei delegati, alle vicende del sindacato. Riassemblando spunti culturali e suggestioni politiche, collezionando incertezze e dubbi, la rivista cerca di rivitalizzare il dibattito della «nuova sinistra». Ma: «parlare di un processo di aggregazione della sinistra non basta, occorre definire il modo e gli strumenti con i quali avviarlo», insomma «un inizio, ma subito». Nelle principali città si susseguono le manifestazioni per illustrare le ragioni del dissenso con il Pci e le ipotesi di lavoro, per ricercare contatti; si delinea la mappa delle presenze del gruppo: Napoli, Cagliari, Palermo, Torino, Milano, Savona, Verona, Padova, Perugia, Ascoli Piceno, Novara, Bologna, Firenze, Roma. Di particolare rilievo la manifestazione romana al teatro Eliseo, vi partecipano circa 2.000 persone; sulla rivista appaiono i primi resoconti delle «esperienze di lavoro» 17. Nella forma del collettivo aperto vi è molto dello Psiup presessan-totto, riletto attraverso la pratica dei gruppi d'intervento del movimento. Permangono le asprezze nel rapporto con i gruppi: durissimi i marxisti-leninisti, critica Avanguardia operaia 18, perplessa e oscillante Lotta continua. Ambiguamente, sotto l'influsso di ormai lontani richiami ai «Quaderni rossi» e alla loro analisi della fabbrica moderna e del neocapitalismo, nell'inverno '70 si stabilisce l'unità d'azio-ne con un Potere operaio che rovescia repentinamente e strumentalmente i primi sprezzanti giudizi sul Manifesto. Accentuare l'equivocità dell'incontro la fase che attraversa il gruppo operaista che è, alla ricerca di una sua identità, rimette in discussione le sue matrici d origine, e tende ad un assetto organizzativo che guarda sempre di più al «partito» dell'insurrezione. Si precisano i terreni d'intervento: le fabbriche, la scuola, la casa; nelle fabbriche si lanciano segnali verso il sindacalismo cislino e le cosiddette «avanguardie interne»; mentre nella scuola si ripropongono i temi del «contro la professione», della «scuola contro la scuola», verso un ipotetico «oltre il movimento» diffìcilmente praticabile dopo la stasi; sul fronte sociale la battaglia per la casa vuole recuperare esperienze, maturate al-l'interno del Pci, come le occupazioni, saldandole con le teorizzazioni della marginalità urbana, concentrando l'attenzione sulle aree di disgregazione delle cinture metropolitane 19. Il gruppo parlamentare composto da cinque deputati Nato-li, Pintor, Rossanda, Caprara, Bronzuto, funziona da cassa di risonanza di una strategia ancora tutta da definire; l'occasione per un congiungimento al lavoro esterno verrà solo con-'l'ostru-zionismo al «decretone» del luglio '70. Equivocamente astensionistica è la parola d'ordine lanciata per le elezioni regionali del 7 giugno '70: «scheda bianca, scheda rossa, contro-potere»; la domanda «per chi votare, quando il divario fra le forze politihe e il movimento di classe è tale che nessuna di essa lo rappresenta?» rimane senza risposta. Un tentativo di colmare questo divario sembra offrirsi con la condotta parlamentare del gruppo contro l'offensiva economica lanciata dal governo, per il Manifesto si tratta di evidenziare clamorosamente i limiti della scelta compiuta dal Pci che, proprio in quella occasione, prospetta una linea economica in cui cerca di saldare lotta per lo sviluppo e lotta anticapitalistica. L'ostruzionismo non argina il «decretone» che passa dopo una dura opposizione condotta insieme al Psiup, attorno a questa effimera bandiera sembrano attenuarsi le polemiche con le altre formazioni dellestremismo, unica eccezione i marxisti-leninisti.
4. Le tesi per il comunismo
A settembre del '70, dopo quasi un anno di attività, appaiono le Tesi per il comunismo, «Una piattaforma di discussione e di lavoro politico per l'unità della sinistra rivoluzionaria e la costruzione di una nuova forza politica» 20. Il documento è articolato in 200 punti, organizzati in due parti: la prima «II vuoto strategico, un nuovo internazionalismo, maturità, del comunismo, una nuova linea generale»; la seconda «La crisi italiana, la piattaforma alternativa, una nuova forza politica». Il documento ricapitola spunti e materiali assemblati nell'esperienza della rivista, nel lavoro dei «centri d'iniziativa» e collettivi, nei vari convegni. La proposta conclusiva di una «fase costituente per l'unificazione di tutte le forze della sinistra rivoluzionaria», non avrà successo e si scontrerà con le posizioni delle altre organizzazioni. In realtà il Manifesto non ha colto per tempo le contraddizioni del post-sessantotto, ne è in grado di fare i conti con le insidie presenti nei primi anni '70, non è errato supporre che la stessa matrice e storia del gruppo impedisca la comprensione di quella che Magri autocriticamente definirà «la nebulosa dellestremismo», illusoriamente mitizzata alla luce dell ormai compiuta «maturità del comunismo». Le suggestioni operaiste, l'attenzione alle lotte e alla democrazia in fabbrica 21 porterà il gruppo all'incontro con Potere operaio. Il convegno unitario del febbraio '71 non sarà, quindi, la tappa di un primo anche se parziale processo di unificazione ma, ali' opposto, evidenzierà le ambiguità di un' ipotesi che evocando una generica «sinistra di classe», è incapace di tracciare chiare discriminanti nei confronti di un Potere operaio attratto dal sovversivismo eversivo o di una Lotta continua soggiogata dall'antistatalismo. Al convegno operaio partecipa anche il gruppo di Negri, Piperno, Scalzone; nella sua relazione Massimo Serafini generalizza la proposta dei «comitati politici», definiti «strumenti politici di organizzazione» a livello delle avanguardie anticapitalistiche 22. La temporanea convergenza con Potere operaio appare ver-ticistica e pur di ottenere qualche risultato evita ogni approfondimento critico e non manca di concessioni. Il progetto aggregativo non andrà avanti, l'esperienza dei collettivi politici sarà rapidamente messa in discussione, logorandosi in contraddizioni interne e nell'impossibilità di mediare tesi contrapposte fra loro. Segna una svolta nella presenza politica del Manifesto la scelta di pubblicare Ibmonimo quotidiano, ambiziosamente definito «quotidiano della sinistra di classe». A questo obiettivo si lavora dalla fine del '70; l'ipotesi è quella di fornire alla «sinistra di classe» uno strumento «d'intervento permanente» per rispondere alla: «necessità di esercitare se non una dirczione, un' influenza diretta sul movimento, favorendone l'autorganizza-zione, la capacità di analisi, la valorizzazione e generalizzazione degli obiettivi». Si raccolgono i fondi per il nuovo quotidiano e contro la rozza polemica de «!' Unità» sul «chi li paga», si lan-
cia una sottoscrizione straordinaria con l'obiettivo di raggiungere i 50 milioni23. Il primo numero del quotidiano appare solo nell'aprile '71, ben presto si vanifica l'illusione di un giornale tribuna di tutta la «sinistra di classe», si dimostra velleitaria l'intenzione di superare la sua frammentazione e il suo settarismo dogmatico; progressivamente esso acquisterà la più ridutti-va funzione di organo di una specifica formazione con una propria identità. Con la Piattaforma per un movimento politico organico della primavera del 1971 w si tenta il bilancio dei primi due anni di esperienza; confermate le analisi si giudica deludente il grado d'avanzamento della proposta politica che «ha camminato lentamente e ha prodotto risultati largamente inferiori al necessario». La riflessione autocritica del documento e del dibattito che ne scaturisce orbita attorno a questo nodo, le troppe prudenze, però non consentono di comprendere quelle insanabili contraddizioni che i mesi successivi chiariranno. La provenienza del gruppo influenza in modo decisivo il suo dialettizzarsi col post-sessantottismo, determinando un campo teorico-pratico in cui la ricerca verso una traduzione politica della nuova soggettività rivoluzionaria rischia di essere progressivamente smentita da una costante paura di staccarsi da un intorno estremistico assunto come ragione stessa del proprio essere e di cui si subisce un continuo soggiogamento. In questa chiave di alterni avvicinamenti e allontanamenti si comprendono le ragioni del suo precario percorso organizzativo: rincontro con Potere operaio, la polemica con Lotta continua e Avanguardia operaia, le elezioni del '72, rincontro con l'area psiuppina di Foa-Miniati, il difficile approdo al Pdup (Partito di unità proletaria), l'esperienza elettorale con Avanguardia operaia che prenderà la sigla di Democrazia proletaria nelle elezioni del 1975, il contrad-dittorio rapporto con le organizzazioni sindacali, la trappola del «listone», il cartello elettorale con Avanguardia operaia e Lotta continua, e infine la separazione del gruppo parlamen-are di Democrazia proletaria dopo le elezioni del 20 giugno 1976. Avvertendo i rischi cui si è sottoposti, nella piattaforma preparatoria del convegno di Rimini si scrive: «II primo errore è stato di tempi: il ritardo nell'aver aperto chiaramente la lotta all'interno del Pci, l'aver soprattutto interrotto quella lotta dopo l'XI congresso. Se l'impresa del Manifesto, se la nostra proposta politica fossero intervenute nella fase ascendente del movimento, come frutto di una lotta più di base, e dunque anche con maggiore incisività politica, avrebbero potuto produrre effetti ben maggiori». Ma la domanda è più di fondo: è esistita o no nella società italiana una separazione-rottura con l'insieme della tradizione politica della sinistra? Ali'insorgere dei primi scivolamenti verso la lotta armata e il terrorismo i rapporti con la nuova sinistra organizzata si fanno più difficili, le differenze diventano polemiche, il Manifesto ammette di avere avuto «errori di codismo e incertezza nel condurre una lotta politica chiara». L'aggressione subita dallo storico comunista Ernesto Ragionieri all'Università di Firenze, da motivo al Manifesto di attaccare i gruppi definendoli «avventuristi»; di contro è accusato, come già all'indomani dell'uscita del quotidiano, di volere egemonizzare il movimento extraparlamentare, e i tentativi di Pintor di far esprimere alla Camera un voto sul «fucilatore Almirante» sono liquidati come una riduzione parlamentaristica della lotta antifascista «militante», un' espediente che rischia di far scadere a semplice campagna di opinione la battaglia sul «fan-fascismo» di Lotta continua. Durissimo il giudizio sulla proposta di avviare più positivi rapporti fra i partiti della sinistra. «Pinelli non è morto per De Martino presidente» scrive con asprezza «Lotta continua». Apice dello scontro la condotta da assumere dopo il divieto della Questura milanese alla manifestazione dell' 11 marzo 1972, il Manifesto si dissocia dal corteo e non entrerà nel Comitato nazionale contro la strage di Stato. Isolato dal gruppismo, il Manifesto non sembra capace di reagire e di interpretare i caotici impazzimenti dei primi mesi del '72: la guerriglia urbana, la morte di Feltrinelli e l'assassinio di Calabresi, macabre scansioni dell'eversione su cui scarse sono le prese di posizione, sostituite troppo spesso dagli equivoci silenzi del gruppo che sta preparandosi alla sua minoritaria scelta elettorale.
5. Il voto rosso
Dopo lo scarno dibattito apertosi sulle colonne del giornale, la decisione arriva frettolosa e imprevista: alla Camera, il Manifesto presenterà una propria lista, al Senato invita a votare per il Pci. Solo dopo il 7 maggio, motivando il silenzio con ragioni di opportunità politica, si saprà che il gruppo dirigente non si era trovato unito e che a testimonianza della loro contrarietà Aldo Natoli e Massimo Caprara si erano dimessi dal direttivo nazionale. Attorno alla lista del Manifesto i pareri sono contrastanti. I marxisti-leninisti dell'Unione, ormai Partito comunista (mi) italiano, si presentano anche essi alla prova elettorale; Potere operaio è nettamente contrario; Lotta continua mostra qualche attenzione; molte le polemiche sulla strumentalità della candidatura di Pietra Valpreda. Il risultato è un fallimento. Il «voto rosso», come «pronunciamento contro questa società e questo stato borghese», come «impegno a costruire uno schieramento di lotta» 25 produce solo dispersione di voti a sinistra, la lista del Manifesto, con i suoi 224.000 voti (0,7%), non raggiunge il quorum elettorale. Segue una discussione molto serrata. Secondo il direttivo nazionale si è avuto un «chiaro spostamento a destra del quadro politico», «un'inversione di tendenza» che a soli cinque anni dal '68 è un «tema di riflessione autocritica che anche i partiti riformisti non possono evitare. Prima e più della sconfitta elettorale devono rendere conto alle masse della loro sconfitta politica»26. I partiti di sinistra portano la responsabilità di non avere interpretato lo straordinario movimento di lotte di massa, la nuova coscienza democratica e socialista che esprimeva, lasciandolo a se stesso non hanno saputo offrirgli una «dirczione politica efficace» e una «prospettiva credibile». In questo contesto il Manifesto spiega il proprio insuccesso, su cui grava, ammette autocriticamente, l'incapacità di «costruire un' alternativa politico-organizzativa tale da dare fiducia a coloro stessi che condividono le nostre idee, nel momento in cui lo scontro si fa pesante». Responsabilità che grava anche sugli altri gruppi della nuova sinistra che, nel corso della campagna elettorale hanno dimostrato, col loro settarismo, lo stato di confusione e di «prostrazione profonda» in cui si trovano i residui politici dell'esperienza del Sessantotto. Ancora una volta ci si chiede: «che fare per uscire dal dilemma riformismo o estremismo», un interrogativo su cui si vuole aprire una discussione al di fuori dai patriottismi di gruppo, e nella consapevolezza metodologica di «utilizzare vittorie e insuccessi nostri, come elemento di stimolo per un lavoro più generale di rifondazione della sinistra» 27. Il documento che appare sul quotidiano del 18 giugno offre le linee fondamentali della riflessione post-elettorale, la parola d'ordine conclusiva «meglio meno ma meglio» da il senso del bisogno di un maggior rigore di analisi e di aprire alla sinistra tradizionale uno spazio per «rifiutare l'alternativa disperata fra avventurismo e rassegnazione». Ammettendo il non raggiungimento dell obiettivo elettorale si conclude che non è «possibile ne giusto contestare l'egemonia riformista sulle grandi masse, sul terreno elettorale», perché «senza aver prima sufficientemente costruito, sperimentato e reso credibile un'alternativa nel vivo del movimento di lotta» essa assume oggettivamente un «segno scissionista». Non basta limitarsi agli errori soggettivi per spiegare l'insuccesso, l'approfondimento deve essere radicale. Il voto, con il conseguente spostamento a destra, esprime «una difficoltà di crescita e di unificazione politica del movimento di massa e una diminuita radicalità della sua rivolta, una situazione in cui si vive "una crisi soggettiva del movimento, sia sul piano internazionale che sul piano interno", come contraddizione sociale ancora aperta per antagonismo della lotta e antagonismo dello sbocco politico». Cercando di proporsi come riferimento politico per una possibile saldatura strategica fra i due aspetti della contraddizione, pur riconfermando nelle sue linee essenziali l'obiettivo di superare lo scarto tra ipotesi politica e forze che debbono tra-durla nella pratica, la proposta politica avanzata al convegno di Rimini ripiega sul!' organizzazione. Anche se non si arriva alla prospettazione di un'ipotesi partitica, contro le insidie di equivoci fagocitamenti, si vuole superare lo stato «semiorganizzato e informale» del proprio corpo politico, un' esigenza ancora posta in modo generico e compromessa dall' incapacità di disancorarsi dalle fluttuazioni del movimentismo, di cui pure si segnalano ormai i forti limiti di unificazione strategica. Lo scioglimento del Psiup e la conseguente decisione del gruppo Miniati-Foa che, rifiutando di confluire nel Pci, costruisce il Partito di unità proletaria apre una nuova fase nella vita del Manifesto. I rapporti tra le due organizzazioni diventano un banco di prova ineludibile.
6. Il Pdup
Con il voto del giugno 1972 sparisce dalla scena politica il Partito socialista italiano di unità proletaria, non servono a nulla i suoi 700 mila voti. Finisce così una esperienza interessante quanto contraddittoria, nato come reazione al riformismo del Psi ha cercato nel Panzieri dei «Quaderni rossi», nella storia della sinistra socialista, nei nuovi movimenti, di trovare la sua identità. Una ricerca che ha finito per penalizzarlo anche se la sua breve storia è parte non secondaria della contestazione al revisionismo comunista, del movimento studentesco, dell'autun-no operaio. Nelle sue file si sono formati dirigenti del movimento come Mauro Rostagno e Luigi Bobbio, protagonisti del lavoro operaio alla Fiat come Pino Ferraris. Decisivo il ruolo della sinistra psiuppina nella Cgil: Foa, Giovannini, Ultieri, Sciavi, Serafino, Miniati, Biondi (segretario della camera del lavoro di Firenze), Battisti (segretario della Fiom di Sesto San Giovanni), Ceri (segretario nazionale della Federmezzadri), Marcerario della Firn nazionale. Ma il contrasto fra il «gruppo dirigente che puntava alla liquidazione politica dell'opzione an-tiriformista in base alla quale il Psiup era nato»28 e le molte tensioni interne manifestate già al convegno del dicembre '68 non si supereranno e divisioni e sfibramento organizzativo precedono gli anni difficili che preparano la sconfitta del '72. La federazione di Firenze diventa la roccaforte dei «resistenti» che si oppongono alla confluenza nel Pci a cui si accinge la maggioranza della dirczione: Vecchietti, Valori e anche i loro tradizionali oppositori Libertini, Andriani, Asor Rosa, Militel-lo, Alasia. Per Miniati, operaio, sindacalista segretario della Fiom e membro della dirczione nazionale, la scelta non è scontata. Introducendo l'attivo della federazione fiorentina che si svolge due giorni dopo il voto afferma: «Per quanto ci riguarda le ipotesi sono queste: o fare le nostre scelte personali — e si può anche decidere di andare a casa, mica ce lo ordina il dottore di confluire nel Pci o nel Psi — oppure fare i matti. Decidere cioè di non mollare, di rifiutare la svendita di quel patrimonio di lotte, di valori, di forze che in questi anni bene o male abbiamo accumulato» 29. Tré settimane dopo si svolge a Firenze il convegno nazionale dei «resistenti», vi partecipano mille ex psiuppini, Antonio Lettieri, Elio Giovannini e Castone Sciavi, convergono sulla proposta di proseguire un' autonoma esperienza politica lanciata dal gruppo toscano guidato da Miniati e da Biondi, Ceri, Rosei, Biancolini, Biagioni. Aderiscono inoltre Pino Ferraris, dirigenti della Calabria come Mario Brunetti e della Sardegna. Da autorevolezza e fiducia ali'ipotesi la carismatica figura di Vittorio Foa. Con molta fiducia e pochi dubbi nasce il Pdup quando «sembrava che le porte fossero ancora tutte aperte, o quanto meno socchiuse, e che il progressivo spostamento a destra della sinistra storica non indicasse comunque un potenziale di lotta e di alternativa costruito e fatto proprio da migliala di studenti e di lavoratori negli anni precedenti»30. Non e'è tempo per riflettere molto. Daniele Pretti, ricostruendo dàll'interno quella fase, scrive: «In un clima così euforico era diffìcile avere dubbi, e ancora più difficile era comunicarli. Esponendoli sembrava di fare del disfattismo gratuito, e l'autocensura in molti compagni, scattava automaticamente. Esisteva realmente lo spazio politico per un'azione "rivoluzionaria"? Gli strumenti concettuali e operativi per un'impresa di tanto respiro erano tutti da inventare o già esistevano? E se erano ancora da inventare, era poi possibile stringere i tempi, evitando quelli della riflessione e dell'accumu-lo di energie, idee, elaborazioni strategiche, e puntare soprattutto sulla militanza, sul volontarismo, sulle necessità di non cedere mai e in nessun momento?» 31. Le forze su cui conta il nuovo partito non sono poca cosa nel panorama dei gruppi, nel giugno del '72 possono stimarsi attorno ai tre-quattromila militanti. Molti i loro «vizi d'origine»: un insieme di nodi irrisolti, una concezione del partito in cui la tradizione morandiana mal si concilia con lo spontaneismo dei più recenti movimenti. Al tempo stesso li anima la tensione e la speranza di dar vita a una «nuova sinistra». La prima occasione che si presenta è l'unificazione con la sinistra del Movimento popolare dei lavoratori che contesta la scelta di Livio Labor e Luigi Covatta di confluire nel Psi: Migone, Bellavita, Puleo, Calari, Russo Spena, De Vita, Jervolino. Intanto convergono sul progetto altre forze, un processo che proseguirà fino al '73; militanti in crisi che abbandonano Lotta continua (soprattutto da Torino e dalla Toscana), mentre nel Meridione si registra qualche distacco dal Pci. Fra gli altri aderiscono alla nuova formazione politica Luciano e Ivan della Mea. Il primo con la sua lunga esperienza giornalistica (redattore dell'«Avanti!», dei «Quaderni rossi» e di «Lotta continua») ha un ruolo di primo piano nel gruppo redazionale di «Unità proletaria». Il primo numero esce il 21 ottobre 1972 raggiunge in breve 20 mila copie di vendita con 5000 abbonati. Presentando la rivista e le sue finalità Luciano della Mea, che firma i suoi corsivi con lo pseudonimo di «Luna storta», scrive: «Nel nostro impegno siamo unitari perché lo spazio politico che presumiamo di avere e di conquistarci è tutto dentro l'unità del movimento operaio e proletario. È la qualità dell'unità e delle alleanze che può cambiare, tutte le società dominate e plasmate dal capitalismo hanno bisogno di una rivoluzione comunista» 32. Rapide le tappe della costruzione del partito, prima il convegno operaio di Bologna, nel novembre '72, a cui partecipano oltre 800 delegati, e subito dopo, il 2-3 dicembre, l'assemblea costituente di Livorno. La fondazione del partito è rinviata, per lo più il dibattito si concentra sul nome del nuovo partito: lasciare la parola socialista? sostituirla con comunista? Molti ex Mpl propendono per «Democrazia proletaria». Si conclude con una mediazione: Unità proletaria. E nominato un comitato di coordinamento composto da 60 mèmbri e un centro operativo: Bellavita, Brunetti, Calari, Ferraris, Foa, Migone, Miniati, Pretti, Ragozzino, Russo Spena, Rossi. La piattaforma politica approvata all'assemblea costituente di Livorno assume integralmente il documento sulla situazione economico-sociale elaborato, nell'ottobre '72, da Vittorio Foa. L impianto teorico del documento non si discosta dalle elaborazioni correnti nella sinistra sindacale sia per quanto riguarda le tendenze del capitalismo sia per la natura del conflitto di classe. Lo scontro non è più risolvibile sul terreno economico rivendi-cazionista ma solo sul terreno politico: «le vicende del '70 e del '71, quando la classe operaia rifiutò di pagare con l'aumento del-l'intensità del suo lavoro gli aumenti contrattuali, sono un luminoso esempio di crescita di coscienza di classe e al tempo stesso di crescente insolubilità delle contraddizioni capitalistiche. Se questa analisi risponde a verità, se non vi è soluzione economica interna al sistema per risolvere la lunga crisi che si è iniziata, dovrebbe essere chiaro che le soluzioni vanno cercate sul territorio politico. Necessità impellente per la classe capitalistica di fronte alla rilevanza dei tradizionali strumenti di politica economica, creditizia e monetaria, diventa l'azione politica per piegare la classe operaia e le sue organizzazioni. Non basta più oggi tentare di limitare il potere delle organizzazioni sindacali occorre piegare la classe» ". Derivano da ciò le indicazioni politiche e in primo luogo la funzione del lavoro in dirczione della classe operaia e delle fabbriche: «... la risposta operaia non può essere quella di attenuare il contrasto (per esempio negando che la questione dell'inflazione abbia radici di classe, negando che le sue radici siano nella sacrosanta spinta salariale in una economia di monopoli che non si rassegnano a ridurre i loro profitti) ma deve essere quella di portare lo scontro al massimo livello di coscienza» 34. Non sfugge leggendo i documenti e le mozioni conclusive di Livorno la polemica con la linea maggioritaria della Cgil: «Non è affidandosi solamente alla logica della singola vertenza o contratto sindacale che si spezzano i pericoli di stratificazione e di divisione corporativa della classe. Così come non è con una politica sempre più fragile di schieramento di vertice, che si risponde alla qualità di un attacco padronale, al quale occorre invece far fronte con la ricomposizione unitaria del fronte di classe nella lotta contro la riorganizzazione del lavoro, contro l'inflazione e la disoccupazione, basato su un articolato e unitario movimento politico di massa radicato negli organismi di autonomia e di democrazia operaia» 3S. Dopo Livorno un frenetico attivismo, si moltipllcano le iniziative. Si discute molto della prospettiva unitaria, ipotesi che viene assunta organicamente da Pino Ferraris in un articolo che appare su «Unità proletaria» dopo lo sciopero generale del 12 gennaio '73, contro il governo Andreotti-Malagodi: «Esistono oggi le possibilità per l'unificazione e per il rilancio del fronte delle lotte e per la costruzione di una "nuova opposizione" capace di costruire una alternativa politica e programmatica radicata nelle lotte, nei bisogni popolari, nell'esigenza di una scelta radicale per il Mezzogiorno [...]. E solo l'urto della lotta e attraverso la costruzione di una nuova opposizione capace di conquistare un crescente consenso tra le masse per la concretezza e la chiarezza di un disegno alternativo che è possibile avviare una svolta, che non sia un semplice cambio di cavallo per il grande capitale e una nuova sconfitta del movimento operaio.
Di fronte alle battute di arresto del proprio progetto politico, un' ipotesi che si è scontrata con le differenziazioni esistenti fra i gruppi, espressioni, come si riconosce, non di «pure manifestazioni casuali del loro settarismo» ma riconducibili alle profonde divergenze di analisi e di prospettiva; dopo il fallimento elettorale del '72 per il Manifesto la possibilità di un terreno comune d'iniziativa col Pdup è vissuta come una condizione indispensabile per la riaffermazione e il successo di una volontà aggregatrice. Ma l'unità si dimostrerà molto problematica, alla fine impossibile. Scriverà Vittorio Foa nel '77: «Ma più ancora che la mancanza di un serio confronto operò il fatto che ciascuno di noi non aveva ripensato criticamente la propria esperienza. Perciò risultava diffìcile mediare le due storie politiche. Cercavamo di mettere insieme dei cocci senza domandarci perché questi cocci erano tali, perché eravamo falliti prima» 37. Tuttavia, sia per il Manifesto che per il nascente Pdup ipotizzare e cercare l'unificazione significa rimettere in moto un processo, rompere l'isolamento, tentare una saldatura tra una storia vissuta all'interno della tradizione del movimento operaio e quello che è esploso ma anche frantumatesi dopo il Sessantot-to. Come conseguenza ed effetto della propria origine e della lunga infermità alla sinistra ufficiale, fondamentale per le due formazioni sarà il rapporto col Pci. Un dilemma irrisolto e la loro sconfitta maturerà proprio nell'incapacità di superare la schizofrenia fra continuità e discontinuità condannandosi, in questo modo, alla condizione minoritaria del gruppo di pressione. Il Manifesto, alla fine del '72, lancia la proposta di un lavoro comune col Pdup per il superamento della frammentazione a sinistra, inizia così l'altalena delle reciproche polemiche. Nel gennaio '73, il quotidiano critica «la risposta negativa dei dirigenti del Pdup» alle proprie proposte unitarie. Il gruppo di Miniati non accetta alcuna forzatura organizzativa, preferisce una posizione di attesa, preoccupato di essere risucchiato in una logica di schieramento precostituito piuttosto che lavorare a una aggregazione fondata su processi reali ed espressione della «ricchezza» del movimento. In questo senso rifiuta ogni rapporto privilegiato con una o più forze della «nuova sinistra». Pur riconoscendo la necessità di criticare ogni schematica contrapposizione al partito comunista, Miniati non condivide la tendenza che si fa strada nel Manifesto di attribuire al Pci «sulla base dei singoli episodi» una sorta di «ripensamento della linea generale» 38. La fusione immediata, a cui pure qualcuno lavora, è ancora improponibile, tuttavia, contro il rischio di reciproci isolamenti iniziano le tappe di un progressivo avvicinamento contrassegnato da diffidenze e da diversità che non saranno superate dai congressi di scioglimento del '74 39. Le divisioni, che peraltro attraversano osmoticamente i due gruppi, si concentrano: sulla tattica da seguire nei confronti del Pci, sul ruolo del sindacato, sul movimento degli studenti e sulle sue caratteristiche, sul rapporto con i gruppi, sulle tipicità di «una nuova forza e di alternativa e di opposizione». Secondo Vittorio Foa, leader del Pdup, riecheggiando il suo itinerario politico a partire dalla vicinanza ai «Quaderni rossi», il centro della divaricazione consiste nell'acquisizione della necessità strategica di una «rifondazione teorica» della sinistra imperniata sulla «spontaneità operaia», ma proprio tale prospettiva, e da ciò l'origine delle resistenze, comporterebbe la negazione del Manifesto e della sua esperienza. Al contrario quest'ultimo insiste nel rinvenire nella sperimentazione prodotta le linee forza di un rinnovamento teorico, e quindi le premesse di un' adeguata forma organizzativa, corrispondente alla fase di un'irreversibile «crisi strutturale del capitalismo». Tuttavia sui dissensi, almeno temporaneamente, prevale un generico bisogno di unità, si fa leva sulle comuni convinzioni per candidarsi come punto di riferimento nei confronti della polverizzazione di frange o di interi gruppi, del dissenso cattolico e della stessa base comunista e socialista. Le parziali convergenze contro il compromesso storico, lanciato da Enrico Berlinguer dopo i fatti cileni, e l'esasperazione del momento salariale nelle lotte sindacali consolidano l'ipotesi della fusione. Dalle reciproche accuse si passa ai «buoni rapporti»; distende ulteriormente il clima il dibattito apertosi sul Manifesto (30 marzo '73) su «lotte operaie e prospettive politiche». Quasi compiendo una provocazione, Rossana Rossanda — alla fine di giugno — al seminario nazionale del Manifesto, all'Hotel Parco dei Principi, a Roma, propone drasticamente l'unificazione col Pdup 40. Dopo un'intensificazione delle iniziative unitarie, si arriva al convegno di Firenze del 23-24 novembre '73. L'occasione è salutata come una tappa storica: è la prima assemblea nazionale dei quadri dirigenti delle due organizzazioni, vi partecipano circa 800 delegati e 1.000 invitati, sono presenti delegazioni dei vari gruppi, della Fgci e del Pci. Il clima politico attenua le differenze, sconfìtto il governo di centro-destra Andreotti-Malagodi, si assiste a una consunta riedizione del centro-sinistra, il tutto mentre Pantani punta al referendum sulla legge del divorzio. Tra l'assemblea di Firenze e i congressi di scioglimento è un alternarsi di volontà unitarie e di polemiche aperte o sotterranee. Il lungo documento di Lucio Magri, pubblicato su «II manifesto» del 13 gennaio '74, riapre la discussione sul significato del processo di aggregazione; l'unificazione non può essere vista come un successivo comporsi di divergenze ma occorre da subito concordare alcuni punti discriminanti: la natura della nuova organizzazione; i rapporti col revisionismo, la qualità del-l'intervento nelle situazioni operaie. Al di là dell'esortazione alla chiarezza, l'articolo-documento, ancora troppo impregnato delle lontane tesi del '70, non supera l'impaccio fra una concezione del partito come avanguardia esterna, residuo terzinternaziona-lista, e i richiami movimentisti. Non è da escludere che la scelta di Magri tenda a evitare lo scivolamento del Manifesto verso le suggestioni del Pdup e in tal senso voglia agire come elemento di battaglia politica interna al gruppo contro i rischi di un offuscamento di identità in un processo di fusione governato Il documento è violentemente attaccato da tutto l'arco della sinistra extraparlamentare, compreso il Pdup; la critica è di nuovo revisionismo, si accusa il Manifesto di interpretare la crisi capitalistica secondo gli stereotipi del Pci e del sindacato. Parti-colarmente aspra Lotta continua che lo accusa di voler bloccare la lotta operaia sul salario rimandando a un generico quanto il-lusorio «modello alternativo di sviluppo». Sempre più consapevole dell' impossibilità di una meccanica traduzione politica dei conflitti sociali il Manifesto cerca una compiuta sistematizzazione teorica, premessa obbligata di un processo politico che aspiri al comunismo come alternativa globale. In questa ottica il partito è considerato lo strumento indispensabile di quel mutamento dello stato seminformale auspicato all'indomani della sconfìtta elettorale del '72; il partito, dunque, come intellettuale collettivo, secondo l'ispirazione gramsciana, l'avanguardia che si confronta dialetticamente col movimento organizzandolo e finalizzandolo. Al contrario, il Pdup, simbioticamente al travaglio che attraversa Lotta continua, sembra respingere un sistema teorico compiuto dentro cui imbrigliare i comportamenti sociali e quelle trasgressioni antistatuali che considera, senza operare le necessarie distinzioni, espressione diretta del crescere delle lotte. Da questo atteggiamento nasce la peculiarità della sua presenza nel sindacato, l'accentuata sensibilità per il sociale e insieme il diffuso pragmatismo, peraltro molti dei suoi dirigenti più significativi provengono dall'esperienza sindacale. Senza negare le rispettive storie è difficile mediare le due anime e il Manifesto, col documento di gennaio, non concorre a questo obiettivo, anzi, al di là delle affermazioni rituali, sembra volersi presentare come principale motore del processo aggregativo. Nello spaccato della crisi, vista come crisi di sistema e impossibilità di rilanciare i vecchi meccanismi di sviluppo, si avvertono nuove ragioni di polemica col gruppismo e in particolare con la tentazione di un autonomismo indifferente verso il ciclo produttivo, incapace di tradurre le lotte in un progetto rivoluzionario.
8. Le assemblee di scioglimento
Una parziale composizione dei contrasti si realizza nel febbraio '74 quando, accelerando l'unificazione, si decide la convocazione delle rispettive assemblee di «scioglimento» 41. Si raggiunge quello che Miniati, alcuni mesi dopo, riprendendo la polemica, chiamerà «un quadro di sufficiente unità» sulla natura della crisi e sul modo di affrontarla, una condizione minima che consente temporaneamente di superare i dissensi che nel Pdup aveva provocato il documento Magri. Le due formazioni nel promuovere le assemblee di scioglimento richiamano sinteticamente le ragioni dell'unificazione, ma al complesso del disegno manca il necessario respiro strategico, piuttosto esso sembra una tappa obbligata per «raccogliere le spinte sociali antagoniste» e contrapporle alla politica del compromesso storico lanciata dal Pci. Il programma di breve e medio periodo si articola in cinque punti: «La difesa rigida del salario operaio, del controllo operaio sullorganizzazione del lavoro, dei livelli di occupazione in modo non frantumato e corporativo. Una linea di attacco sul terreno dell'occupazione e dei consumi sociali che, sviluppando i caratteri assunti della lotta operaia nella fabbrica e fuori, impegni il movimento di classe in un orizzonte più vasto, capace di influire sulle scelte di politica economica. Una linea di lotta sulla scuola che contesti il carattere separato e classista dell'istituzio-ne per le rivendicazioni in cui si articola e, per la sua ispirazione generale, faccia del rapporto operai-studenti l'asse di un organico sistema di alleanze; si fondi una ritrovata autonomia ed unità del movimento politico degli studenti e della sua organizzazione di base. La capacità di politicizzare lo scontro sociale in una linea di potere che [...] imponga nel sistema i primi elementi di collettivismo e di eguaglianza, di critica di pro-duttivismo e di controllo operaio o sociale. Una mobilitazione larga sul "referendum" grossa occasione di scontro dal cui esito dipendono in larga parte i prossimi sviluppi della situazione italiana»42. La condotta da tenere sui «decreti delegati» per la scuola è motivo di una nuova divisione tra le due organizzazioni; al congresso nazionale della Cgil scuola (23 maggio), l'area del Manifesto si schiera con la posizione astensionistica dei gruppi; il Pdup, non senza sorprese, si schiera con la componente comunista del sindacato. Partendo da questo episodio e dai dissensi registrati nelle elezioni regionali sarde, Miniati, con un articolo apparso su «Unità proletaria» e ripreso da «II manifesto» sollecita un profondo chiarimento sulle linee politiche e sulla dislocazione di quello che dovrà essere il futuro partito. Ancora una volta un'occasione mancata. Il chiarimento non ci sarà e si andrà in modo confuso ai congressi di scioglimento, quello del Manifesto (Roma 12-14 luglio), quello del Pdup (Firenze 19-21 luglio '74)43. Nel clima propagandistico dell'unificazione, le divergenze anche se richiamate nelle relazioni e riprese negli interventi si ovattano, il diffuso disagio si ricompone nella metodologia e nel mito del «lavoro comune», come condizione per un chiarimento rimandato al futuro. Al congresso di scioglimento del Manifesto, presenti 620 delegati, il tentativo di operare una ricognizione sulla crisi politica ed economica del paese è quasi totalmente offuscato dalla scelta di «fare un nuovo partito». La relazione di Lucio Magri, nonostante gli accenni critici, evita un bilancio rigoroso dell'e-sperienza di cinque anni e, senza interrogarsi fino in fondo sui risultati conseguiti nella costruzione di un'«alternativa» organizzativa e politica al revisionismo, ripropone un'indistinta e generica ristrutturazione della sinistra, «una lunga marcia attraverso la crisi». Appare debole la sottolineatura delle involuzioni in atto nei gruppi, scarse le analisi sul terrorismo e sull'autono-mia. Strumentalmente insiste sul concetto di «avanguardia di classe» e apre a possibili avvicinamenti: «Positivi processi sono in atto, contemporaneamente, nella sinistra extraparlamentare e rivoluzionaria. Ormai è scorretto parlarne in termini di nebulosa» 44. Privilegia così solo un aspetto della contraddittoria vicenda dell'estremismo: i tentativi di Lotta continua e Avanguardia operaia di superare le loro rigidità ideologiche manifestando una maggiore duttilità «politica»; mentre, pur registrandoli, non coglie il significato che stanno assumendo le emorragie del gruppismo e gli interramenti nella clandestinità terroristica. La preoccupazione di non rimanere tagliati fuori, l'insi-stenza nel «saper fare, in modo corretto, una politica verso questo arco di forze», non aiuta nella definizione di una propria identità. Guido Viale, della segreteria nazionale di Lotta continua, intervenendo al congresso, torna su una polemica non sanata e che ha assunto caratteri antagonistici: «II Manifesto non si è mai posto il problema della rivoluzione in Occidente come momento di rottura e come processo di lotta armata e perciò ha elaborato una concezione tecnicamente gradualistica ed eclettica e politicamente opportunistica come dimostra senza equivoci il documento del gennaio del 1974 di Lucio Magri» 45. È evidente che si confrontano e si scontrano fra loro diversi approcci all'analisi della crisi. Per il Manifesto la crisi internazionale del capitalismo ha prodotto quel? oscillazione del sistema fra «repressione» e «nuovi compromessi», emblematiz-zata dai due casi estremi del Cile e del Portogallo. Giudicata come ineluttabile la crisi italiana, per il gruppo, non ci sono che due strade obbligate: la transizione al socialismo o la reazione; la fuoriuscita dal capitalismo o la restaurazione. La relazione introduttiva e il dibattito dedicano molta attenzione alla «questione cattolica» e alla «questione comunista», considerate nevralgiche di ogni ipotesi di rifondazione della sinistra. La battaglia sul referendum e la vittoria che il movimento democratico e socialista ha conseguito, hanno rappresentato, una svolta radicale nella società italiana, un momento decisivo della caduta di egemonia della De, un risultato da cui partire per accellerare la rottura dell'interclassismo cattolico e far schierare su un terreno di rinnovamento socialista il maggior numero di cattolici. Al tempo stesso è impensabile «riqualificare tutta la sinistra» senza il coinvolgimento del Pci, si tratta perciò di agire sulla contraddizione apertasi fra uno sbocco governativo, che comporta il privilegio dei rapporti politici a scapito delle lotte, e le caratteristiche di un movimento che non può perdere le sue basi di massa e i suoi collegamenti sociali. Nell'atteggia-mento del Manifesto verso il Pci permane un complesso d'origi-ne non cancellato, da cui deriva la coscienza dell'impraticabilità di una rottura definitiva con la tradizione dell'insieme del movimento operaio italiano, un tratto essenziale per comprendere la sua anomalia nel panorama dell'estremismo. A Roma, non manca la polemica col Pdup, essa ruota attorno a due questioni di rilevante attualità politica: la presentazione di autonome liste alle elezioni, un dibattito che, passando per l'esperienza di Democrazia proletaria alle elezioni regionali del '75, si trascinerà fino alla travagliata scelta del «listone» alle elezioni del giugno 1976; il giudizio sulla proposta del governo delle sinistre. Sulle elezioni Magri lascia aperto il dibattito, anche se, memore della sconfitta del '72, mette in guardia contro i danni di una dispersione di voti e di una inutile e dannosa acutizzazione del rapporto col Pci; più decisa è la polemica sul governo delle sinistre, ipotesi già avanzata da Vittorio Foa che la riprenderà di lì a una settimana nel congresso di scioglimento del Pdup. Per il leader del Manifesto, anche se è necessario uscire da ogni mitica esaltazione del «movimento» contrapposto al quadro politico, l'unica strada percorribile è l'unità delle sinistre all'opposizione. Una prospettiva di governo, trattandosi solo di una cooptazione della sinistra operata dalla borghesia a fini repressivi e stabilizzanti otterrebbe risultati paragonabili alla sconfitta dei Fronti popolari con la conseguenza di produrre una sostanziale ingovernabilità dei movimenti di massa e quindi una vera e propria anticamera per la reazione borghese. Una settimana dopo il congresso del Manifesto, a Firenze il 21 luglio 1974, si svolge il primo congresso del Pdup, vi partecipano 742 delegati. Anche se non scioglie tutte le riserve decide di continuare il processo di unificazione con il gruppo del Manifesto. Le due anime non riusciranno mai a fondersi in una realtà omogenea e il successivo appuntamento di Bologna più che un congresso di fondazione sarà l'epilogo di un' unificazione mancata, fra contrasti e puntigliosi dissensi, aprirà la liquidazione di un difficile tentativo di fusione. Significativa del clima di diffidenze e di contrasti è la polemica sulla sigla della futura organizzazione. Il problema si era già posto al congresso di Roma. Nell'espressione «per il comunismo» i militanti del Pdup vedono il permanere di una memoria staliniana. Per Miniati, riprendendo quanto affermato a Roma da Vittorio Foa, «la linea del comunismo non va intesa come astratta fedeltà ma come affermazione di valori nuovi di un modo diverso di produrre, di lavorare, di esistere» e, insistendo molto sull'idea di uguaglianza sociale contenuta nella formulazione, sottolinea che non si tratta di assunzione acritica ma «costituisce un impegno a far nostra 1 esigenza di unità e di liberazione totale del proletariato». Ripercorrendo l'esperienza dell'u-nifìcazione, Luigi Pintor scriverà: «La matrice del Pdup era socialista, la nostra comunista, non è una diversità da poco. Io pensavo che ci fosse una comune ispirazione libertaria, una comune autocritica rispetto alle nostre reciproche esperienze originarie, una affinità nella ricerca di nuove vie del processo rivoluzionario in Occidente, una sensibilità analoga (ma non acritica) alle novità del '68, ma mi sbagliavo. Non per etichettare ma per spiegarmi, credo di poter dire che nel Pdup pesava un forte residuo del massimalismo e del praticismo socialista, più che il movimentismo sessantottesco. Il Manifesto, semmai, di un limite opposto, un'ansia sistematica, un eccesso di ideologismo» 46. Al congresso di Firenze ampio spazio è dedicato al tema del sindacato: numerosi dirigenti di primo piano della Cgil e della Cisi intervengono nel dibattito. Per molti osservatori se il congresso del Manifesto era nelle intenzioni dei promotori il congresso della «rifondazione della sinistra», Firenze è quello della «rifondazione del sindacato». La denuncia di Miniati della «crisi del patto federativo», strumento di minoranze antiunitarie per esercitare sul movimento un diritto di veto, è ripresa da quasi tutti gli interventi. Se diverse sono le ipotesi che si confrontano: la fluidificazione dei gruppi dirigenti, il «sindacato dei consigli», la costruzione di un sindacato di sole «avanguardie», comune è la proposta di mettere in crisi la formula della Federazione unitaria, denunciando i patti federativi e spingendo per la convocazione nell'autunno di «una conferenza nazionale dei delegati» per avviare il superamento del modello sindacale esistente. Trascinati dalla critica, si arriva ad affermare che ciò sarebbe un «contributo alla linea unitaria», un elemento di chiarezza di fronte alla crisi politica e sociale del paese. Al di là delle fumose ipotesi sui nuovi rapporti fra politica e momento economico, il sindacato è considerato dal gruppo come il terreno più favorevole per la crescita dell'iniziativa di massa e quindi per la modifica degli equilibri politici esistenti. Miniati, nella sua relazione, dall'esame dei problemi che sono di fronte alle classi lavoratrici passa meccanicamente alle cosiddette soluzioni «più avanzate», che dovrebbero determinare un' auspicata «alternativa di classe», generica nella sua formulazione e nei significati che le si attribuiscono. Pur considerando i caratteri oggettivi, sia nazionali che internazionali, che intervengono nella crisi, privilegia gli aspetti soggettivi: alla determinata e consapevole scelta capitalista di un' «aggressiva politica antioperaia» si deve rispondere con una lotta irriducibile, blocco contro blocco, fronte contro fronte. L'obiettivo immediato è la caduta del governo, nessun gradualismo in una sterile battaglia per la modifica dei decreti economici del governo; alla proposta comunista di un' ampia collaborazione di tutte le forze democratiche contrappone l'alternativa del «governo delle sinistre» all'insegna dell'«unità delle sinistre». Il giudizio sulla De rimane schematico: «Si può vivere anche senza la De» afferma, nel suo intervento, Giovannini. Anche nel congresso del Pdup si discute molto della «questione cattolica»; nelle sfaccettature che assume si avvertono le tracce di tutte quelle esperienze che, passando dall'impegno nelle Acli, nella Cisi e nella stessa Cgil, hanno portato il cattolicesimo sociale e il «dissenso» ad avvicinarsi alla milizia sindacale, con quel? originale commistione di radicalismo egualitario e di moralismo intransigente. Al termine dei lavori, è approvato fra molti dubbi, il progetto di unificazione con il Manifesto. Nel breve corso che porterà alla fusione e al suo rapido decomporsi, incertezze e reciproci sospetti aumenteranno le conflittualità fra concezioni diverse che vogliono coabitare insieme senza aver definito con rigore le coordinate unitarie della loro scelta. Dopo le due assisi di scioglimento, forzando la situazione, si prospetta la costituzione del Pdup per il comunismo per l'anno successivo (1975). Il gruppo che si raccoglie attorno a Miniati resta molto incerto sugli aspetti teorico-politici e sulla concezione organizzativa, in sostanza sulla stessa prospettiva del partito.
9. L'unificazione impossibile
Dopo Firenze e Roma la prima questione che si pone è la composizione degli organismi dirigenti. Il criterio della pari-teticità (il direttivo nazionale viene composto da 42 mèmbri del Manifesto e 42 mèmbri dellex-Pdup) è mal tollerato, inoltre il persistere della pratica delle componenti non aiuta a dare unitarietà di indirizzi e collegialità alla dirczione politica. Le elezioni per gli organi collegiali della scuola e il dibattito sul giornale sono ancora motivo di polemica. La commissione scuola, nella stragrande maggioranza formata da quadri ex Manifesto, decide di non presentare proprie liste, contro questa posizione si schierano i quadri dell ex Pdup; il direttivo nazionale, con molto travaglio, ratifica la scelta e propone di far confluire i propri voti sulle liste di sinistra. Non aiuta il processo unitario la decisione del Movimento autonomo degli studenti di Milano, il gruppo guidato da Mario Capanna e Beppe Liverani, di confluire nel nuovo partito. Una scelta mal sopportata dagli ex del Manifesto che vi vedono uno strumentale rafforzamento dell'ex Pdup milanese. Lo sforzo di mediazione compiuto da Magri con la sua relazione La fase attuale e i nostri compiti, presentata al direttivo nazionale del dicembre '74, non riesce a sanare i contrasti, anche se, dopo il vaglio delle federazioni, sarà definitivamente approvata nel direttivo del 4 gennaio '75. Il documento si pronuncia esplicitamente per la «linea del governo delle sinistre»; esclude la partecipazione a eventuali elezioni anticipate mentre propone di presentare proprie liste alle amministrative del giugno, infine stabilisce per l'aprile il congresso di fondazione. Ma ancora una battuta d'arresto. Il Pdup conosciuta la data definitiva delle elezioni amministrative, chiede lo spostamento del congresso di fondazione ripiegando per l'immediato su una meno impegnativa conferenza d'organizzazione nazionale. Per il gruppo ex Manifesto è gioco forza accettare questa soluzione intermedia. Poco prima del suo svolgimento si accende la polemica sulla gestione del giornale: in una riunione dell'esecutivo nazionale Vittorio Foa attacca duramente la dirczione di Luigi Pintor e la redazione de «II Manifesto», che nel frattempo ha sostituito la scritta «quotidiano comunista» con «unità proletaria per il comunismo», di non corrispondere al «processo di aggregazione». Magri concorda con la critica. In risposta, Pintor apre il confronto sulle pagine del quotidiano. All'ombra della disputa sul giornale, autonomo o organo di partito, molte altre tematiche irrisolte: i conti con l'eredità del Manifesto, il confronto con l'insieme del gruppismo, la conflittualità fra le due esperienze, i nuovi e vecchi contrasti del gruppo storico del Manifesto 47. Il dibattito si snoda fra petizioni di principio ed elencazioni dei problemi, non trovando una sua conclusione rende inevitabili le dimissioni di Pintor, a cui seguono quelle di altri 6 redattori. La conferenza nazionale d'organizzazione, che simbolicamente si svolge il 18 aprile '75, registra un totale fallimento; la discussione non prende quota e l'assemblea si chiude con un giorno d'anticipo senza prendere nessuna decisione. Le manifestazioni antifasciste programmate nel paese offrono un utile alibi alla sua rapida conclusione. Sono giornate drammatiche: a Milano sono uccisi Claudio Varali! e Gianni Zibecchi, il primo colpito dai fascisti, il secondo dai carabinieri; a Torino muore Tonino Micciché, militante di Lotta continua, colpito da una guardia giurata; a Firenze è ucciso, forse dall'antiterrorismo, Rodolfo Boschi un militante del Pci. Il Parlamento approva, nel mese di maggio con il voto favorevole dei partiti di centro-sinistra e delle destre — contrario il Pci — la legge Reale. Il 15 giugno le elezioni amministrative. Il Pdup, come già sancito nel documento del direttivo nazionale del gennaio, partecipa alla prova elettorale. Si presenta in 10 regioni, in 6 con Avanguardia operaia sotto il simbolo di Democrazia proletaria. Il risultato, anche se non entusiasmante, circa il 2% dei voti, rappresenta un possibile spazio elettorale. Lo sconvolgente risultato del Pci, preludio del terremoto elettorale del 20 giugno, apre una situazione totalmente nuova; la De medita su se stessa, parla di chiarificazione, liquida il segretario Pantani che sostituisce con Zaccagnini, personificazione di un possibile rinnovamento. L'ipotesi di un crollo democristiano non è più un miraggio, il «governo delle sinistre» può diventare una realtà; a rendere credibile quest'ipotesi anche nel Psi, dopo l'amarezza elettorale, si fanno strada ripensamenti che muovono in questa dirczione. Virtualmente esistono tutte le condizioni per accelerare il congresso di fondazione. Eppure la commissione nominata per redigere le tesi congressuali non riesce a trovare una sintesi, non supplisce a questa difficoltà l'elaborazione del direttivo nazionale. Il documento presentato da Magri a commento delle elezioni, pubblicato il 10 luglio su «II Manifesto», non viene ne approvato ne respinto. Particolarmente sofferto il punto dedicato alla «ristrutturazione della sinistra». Magri, non rinuncia alla mediazione, lascia indefinita la natura del futuro partito, ma consapevole delle dinamiche in atto, mette in guardia da due possibili rischi: limitarsi a essere un gruppo di pressione nei confronti del Pci o scivolare verso l'incerta fisionomia della gruppettistica. Nell' estate, in assenza di Vittorio Foa, la commissione tesi trova un provvisorio accordo e liquida il materiale preparatorio del congresso. Tuttavia le cose non procedono e, in seno al direttivo nazionale, sarà lo stesso Vittorio Foa, al suo ritorno, ad attaccare il documento definendolo «troppo filocomunista per essere approvato da un partito dotato di un minimo di indipendenza politica» 48. Vani i tentativi di ricomposizione. A Palermo — iceberg delle manifestazioni di dissenso — esplode il caso Mineo, un episodio rivelatore di uno stato d'animo. L'occasione è una lettera di Mario Mineo alla rivista «Praxis», redatta da militanti del Manifesto legati alla federazione di Palermo. Nella lettera si propone di costruire una «corrente leninista» nel Pdup per aprire un dibattito nella sinistra rivoluzionaria. Mineo considera la prospettiva del Pdup fallimentare in quanto le «due componenti fondamentali» del processo aggregativo sono entrambe subalterne al Pci e «andranno ancora una volta a un compromesso nel documento politico riconducendo il Pdup a un nuovo Psiup: «noi non riteniamo — prosegue Mineo — che sia opportuno uscire dal Pdup fino a quando questo partito non si sputtani totalmente di fronte alle masse. Nel frattempo dobbiamo marginalizzarli completamente per quanto riguarda la gestione di questo partito...». Seguirà l'espulsione di Mineo, ma continua il dissenso interno w. Alla fine dell'anno riesplode la questione del giornale. Luigi Pintor aggiunge ai «motivi personali», addotti al momento delle dimissioni le reali spiegazioni politiche. Senza aver unificato nulla, anzi in un clima aggravato dai contrasti, il 29 gennaio 1976, a Bologna si aprono i lavori del congresso di fondazione del Pdup per il comunismo. Numerose le delegazioni: per il Pci partecipano Tortorella, Mussi e D'Ale-ma; per il Psi, Landolfi e Petrazzoli; per Lotta continua, Viale; per Avanguardia operaia, Campi, Gorla, Rieser e Vinci; per il Movimento lavoratori per il socialismo, Guzzini; a cui si aggiungono rappresentanti dell'Udi, delle Acli, dei Cristiani per il socialismo e molte delegazioni straniere. I congressisti sono accolti dal benvenuto di Renato Zangheri, sindaco di Bologna50. Le attese saranno deluse, i lavori congressuali non sono aperti da una relazione politica ma da una scarna comunicazione di Eliseo Milani sullo stato del partito, un bilancio del «comune tessuto politico e culturale sul quale, sia pure in travagliata ricerca è stato possibile costruire un progetto di tesi profondamente unitario, perché frutto del confronto e non del compromesso». La breve introduzione, pur richiamando la crisi del gruppo dirigente e del giornale, il permanere delle logiche da componente, evita accuratamente di pronunciarsi sui punti di divergenza. Miniati, riprendendo i motivi della crisi di sistema che caratterizza la fase politica, a cui fa da positivo contrappunto l'au-mentata consapevolezza delle masse, rilancia 1 obiettivo del governo delle sinistre. Cercando di trarre il massimo vantaggio politico dalla prova elettorale di Democrazia proletaria, insiste sulla possibilità di consolidare il rapporto con Avanguardia operaia: «II livello di unità può essere salvato e sviluppato soltanto assumendo come obiettivo preciso quell'unità anche organizzativa». Diversa l'opinione di Rossana Rossanda: il confronto con Avanguardia operaia deve andare ancora avanti, respinge la proposta di un comune cartello elettorale avanzato da Lotta continua, ed esprime molte diffidenze sul governo delle sinistre: «più debole di un governo borghese per la duplice contraddizione che si apre fra lui e gli interessi direttamente capitalistici, lui e gli interessi e la somma dei bisogni proletari». Pintor cerca una posizione unitaria, qualcuno lo definirà 1' «ago della bilancia». Nel suo intervento si preoccupa di precisare che non si tratta di una «relazione ombra», espressione di una corrente centrista o mediatrice, bensì di un «contributo unitario» a un «congresso che sappiamo diviso». Come aveva già avuto modo di dire al congresso della federazione di Roma, l'ex direttore de «II manifesto» si pronuncia contro la rincorsa al minoritarismo e contro ogni subalternità al Pci; ma il suo ragionamento, scarsamente suffragato da concrete esperienze, non supera le buone intenzioni. Su un altro versante, Vittorio Foa insiste sulla necessità di non essere «termometri» di situazioni, ne «suggeritori» consiglieri o critici, ma un partito vero, capace di dare uno sbocco politico al movimento operaio, di «fare a pezzi» i ceti intermedi, conquistandoli o suggestionandoli, capace di guidare la rivoluzione culturale.
Durissima la replica di Magri: accusa Pintor di aver «bombardato il quartier generale» dopo esserne uscito, definisce irreale e moralistica la tesi di un partito «come un'isola abitabile in un mare putrido»; allo stesso tempo, in polemica con Foa, riprende i temi esposti nelle tesi, tenta di dare concretezza ali' obiettivo di un governo delle sinistre, pone la questione del rapporto col Pci come competizione aperta fra «rivoluzionari e riformisti», fra chi riesce a dare «soluzioni migliori agli stessi problemi». Al termine del dibattito sono presentate due mozioni contrapposte: quella di Magri e quella di Foa. Pintor dichiara di astenersi e aggiunge: «la verità è che siamo arrivati al congresso con la volontà precostituita, in molti compagni, di giungere comunque a contarsi e a far prevalere anche estremizzando le rispettive posizioni». La votazione, palese e per appello nominale, registra la spaccatura: 194 voti vanno alla mozione Magri, 181 a quella Miniati, 38 agli astenuti. All'unanimità, invece, è approvata la mozione presentata da Giuseppina Giuffreda sull'au-tonomia del coordinamento femminista all'interno del partito. Gli opposti schieramenti si riflettono nella composizione del comitato centrale: 31 mèmbri appartengono alla maggioranza, 28 alla minoranza, 6 sono gli astensionisti. Lo slogan di chiusura «Unità proletaria per il comunismo» ha il sapore di un'illusoria rimozione delle ambiguità del congresso, la divisione è profonda e diffìcilmente ricomponibile, le ambizioni e le speranze unitarie hanno subito una dura prova. In realtà: «II congresso di Bologna sancisce politicamente la spaccatura del Pdup per il comunismo a soli sedici mesi dall'an-nuncio dell'unificazione ta Manifesto e Pdup». La segreteria è formata da 6 mèmbri: Lucio Magri, Eliseo Milani, Massimo Serafini (ex-Manifesto), Silvano Miniati e Giovanni Russo Spena (ex Pdup) e Luigi Pintor. La regola del «tré, due, uno» vale anche per la dirczione del giornale: collabo-rano con Pintor: Rossana Rossanda, Valentino Parlato e Luciana Castellina (ex Manifesto), Vittorio Foa e Pino Ferraris (ex Pdup). Dopo 40 giorni di crisi (31 dicembre-10 febbraio) nasce il monocolore Moro, sarà un espediente incapace di fronteggiare la situazione politica, rapidamente matureranno le condizioni per lo scioglimento delle Camere e il ricorso alle elezioni anticipate. L' 11 febbraio, Valentino Parlato scrive su «II manifesto» «L'esito di questa crisi è clamoroso, riempire un vuoto di potere con un vuoto di governo». A ridosso della preparazione dello sciopero generale del 25 marzo, la risoluzione congiunta delle segreterie del Pdup e di Avanguardia operaia lancia la proposta di una manifestazione nazionale da tenersi a Roma contro il governo Moro, per «l'abrogazione dei provvedimenti antipopolari del governo». Mentre su «II manifesto» proseguono le polemiche sul ruolo del giornale, il comitato centrale del Pdup, sottolinea che il confronto fra i due gruppi avanza positivamente verso l'unifìcazione. Il comitato centrale con un ordine del giorno sulle elezioni, approvato con 10 astensioni, decide la presentazione di liste comuni con Avanguardia operaia. La scelta è ancora oggetto di valutazioni differenziate ma unitario è il rifiuto al cartello elettorale con Lotta continua: «II comitato centrale ritiene di non poter aderire alla formazione di uno schieramento elettorale con forze che non abbiano un comune denominatore strategico e quindi afferma l'impossibilità, in questa fase, di liste con Lotta continua» 51.
10. Il listone
I fatti successivi smentiranno clamorosamente questa perentoria affermazione, si arriverà al pasticcio del «listone», un eterogeneo quanto opportunistico cartello elettorale, l'unifìcazione con Avanguardia operaia non andrà avanti e la contraddittoria esperienza del Pdup per il comunismo si concluderà, nel febbraio '77, con la nascita di due distinte formazioni Pdup-Manifesto e Democrazia proletaria. Abilmente Lotta continua si scaglia contro quella che definisce la «discriminazione» del gruppo Manifesto-Pdup. Risponde alle accuse Pino Ferraris: «Lotta continua nella sua polemica con il comitato centrale del Pdup parla di tutto, di manifestazioni e di elezioni e, naturalmente di un Pdup che aborra le manifestazioni operaie alle Prefetture e, che, probabilmente, quando parla di azione diretta intende le marce della pace. Si dimentica soltanto di parlare dei rapporti tra Pdup e Avanguardia operaia. Che questo processo di confronto e di unificazione sia ingombrante per Lotta continua è spiegabile. Questa organizzazione ha sempre giocato l'unica diversione tattica e la divisione come strategia, per affermare la propria "boria di partito". A Lotta continua riesce diffìcile comprendere che, anche nelle forme dell'unità, la polemica è al primo posto e viene prima dei cartelli elettorali all'interno dei quali ciascuno vuoi fare l'indipenden-te o delle manifestazioni unitarie all'interno delle quali si rivendica la libertà dei comportamenti e si pratica la rissa degli obiettivi e delle regole d'ordine» 52. Rossana Rossanda insiste sul valore e sulla coerenza della proposta avanzata ad Avanguardia operaia, collocandola nella prospettiva della creazione di un' aggregazione unitaria a smista del Pci: «Ci muove, semmai, l'urgenza che forse per primi, e con fastidio di molti, venimmo indicando e riconfermammo al congresso: che, con l'approssimarsi del governo delle sinistre, la costruzione di una ipotesi rivoluzionaria e quindi ne riformista ne estremista, prenda corpo prima che sia troppo tardi [...]. Ci sembra che Avanguardia operaia maturi, non sappiamo in quali limiti, un'analoga consapevolezza che il cammino da prendere non è ne cavalcare la protesta marginale ne lo stare alle compatibilita dei riformisti, ma operare sul terreno che si apre nello scarto fra crisi, proposta e riformistica e movimento che essa stessa ha, in gran parte, alimentato e prodotto» 53. Intanto si accelerano i tempi dello scioglimento anticipato della sesta legislatura. All'interno di Avanguardia operaia la situazione si presenta più articolata: il comitato centrale del 10 aprile discute due documenti uno sui rapporti col Pdup, l'altro sulle elezioni. Valutata positivamente lesperienza di Democrazia proletaria e il confronto avviato fra le due organizzazioni, pur sottolineando gli «interessanti segni di evoluzione» di Lotta continua si ritiene che ancora non esistano le condizioni per un incontro, tuttavia partendo dal patrimonio di Democrazia proletaria, non si esclude a priori, un'ulteriore verifica con Lotta continua sulle elezioni. Un'ambiguità che apre il varco alla manovra di Lotta continua: Sofri lancia ufficialmente la proposta di un unico cartello elettorale. Dopo una burrascosa riunione che si prolunga per due giorni, le segreterie congiunte del Pdup e di Avanguardia operaia, respingono l'ipotesi del cartello unitario ma, facendo una concessione, non escludono la possibilità di accordi locali con «altre organizzazioni o espressioni politiche di base». Il richiamo alla «pratica unitaria e a una presenza comune del movimento» offusca le differenze politiche sarà un comodo grimaldello per il gruppo di Sofri. Sulle pagine de «II manifesto» si susseguono articoli di puntualizzazione e di distinguo nei confronti di Lotta continua. Pintor insiste sulla coerenza, respinge «ogni dilettantistico cartello elettorale», sottolinea che non c'è nulla di presuntuoso o di settario nell'atteggiamento di Democrazia proletaria ma solo «il rispetto della nostra e altrui coerenza, e soprattutto il rispetto della serietà che gli elettori e le masse esigono a chi domanda la loro fiducia e il loro voto». Entrando nel merito delle differenze prosegue: «Essi esprimono un'altra linea generale, non di antagonismo critico e di preoccupazione unitaria nei confronti della sinistra storica, ma di contrapposizione o di strumentale affiancamento. Essi hanno ancora un'altra visione del processo di formazione del partito rivoluzionario, che identificano con sé e come prodotto di un fallimento di tutto il resto. Essi vedono il futuro governo delle sinistre come un bersaglio, così come l'insieme del sindacato. Essi hanno un programma intessuto di forzature estreme, perché mettono l'agitazione al primo posto» 54. E ancora: «Un anno fa i dirigenti di Lotta continua erano contro le elezioni, contro Punita a sinistra, contro di noi. Oggi sono animati sotto altre apparenze dallo stesso spirito "separatista", perché con le loro martellate unitarie vogliono erigere altrettanti steccati, uno tra nuova sinistra e sinistra storica, un altro dentro Democrazia proletaria, un terzo dentro il Pdup. Questi steccati noi vogliamo invece abbatterli tutti. Anche per abbattere possibilmente domani, col successo della grande battaglia politica nazionale in cui siamo impegnati, l'ul-timo steccato in cui Le continua a confinare se stessa rispetto al grande corpo del movimento operaio e alla sua prospettiva di vittoria in questa fase» ". Dello stesso tono le considerazioni di Pino Ferraris: «l'ana-lisi della fase, l'ottica e gli obiettivi con cui Lotta continua guarda alle elezioni evidenziano che con questo gruppo sarebbe possibile [...] solo una unità senza principi e senza programma, unità dell'ultima ora» frutto di «trasformazione» e «confusione». Secondo Lotta continua, aggiunge Ferraris, dopo il 15 giugno si è di fronte a un progressivo intensificarsi della lotta autonoma della classe, con la conseguenza di una resa dei conti finale fra proletariato e «forze riformiste (sindacati e partiti)», strumentalmente le elezioni vorrebbero essere usate solo per «verificare i rapporti di forza generali tra area rivoluzionaria e area riformista, portando l'attacco frontale ai partiti di sinistra e ai sindacati avviati a scendere inevitabilmente lungo la deriva opportunistica». In questa prospettiva, dando per acquisita l'egemonia revisionista su un futuro governo delle sinistre, non è casuale il rovesciamento di posizioni di Lotta continua, che addensa sul programma di un governo del potere popolare: «una somma di obiettivi immediati dilatati all'estremo del massimalismo quantitativo». Un programma che rappresenta un assurdo combinarsi di esasperato statalismo (nazionalizzazione quasi totale dell'in-dustria, del commercio e delle banche, fondi nazionali, leggi coercitive) e di minimalismo rispetto alle strutture del movimento di massa. Inoltre l'ossessiva identificazione operata da Le della struttura del movimento con la sua istituzionalizzazione la porta a rifiutare i delegati e i consigli, a ridurre il potere operaio ai cortei interni, alle assemblee di tutti gli operai, al gruppo omogeneo, e per paura della cogestione il controllo operaio si riduce al diritto di veto. Da queste opzioni politiche generali, conclude Ferraris, Le fa scaturire un rapporto con l'a-rea riformista schematico e infantile che vede nei partiti riformisti e nei sindacati un unico blocco moderato, senza scorgere le contraddizioni positive e le dinamiche che in esso si possono aprire 56 . AU'interno del Pdup per il comunismo, l'area dell'ex-Manifesto, è nettamente schierata contro quella che Pintor paragona a un'ipotetica «Pralognan» rivoluzionaria e Ferraris a un'«adunata dei refrattari» 57. Lotta continua non desiste, intensifica la campagna propagandistica contro il «settarismo» de «II manifesto» e spiazzando il dibattito decide, nell'Assemblea nazionale di organizzazione del 21 aprile, di presentarsi autonomamente alla consultazione elettorale. Con questa mossa Lotta continua vuole drammatizzare la rottura e far scattare «emotivamente» il mito dell'«unità delle sinistre rivoluzionarie» volgendolo a proprio favore. L'operazione avrà successo per il permanere della paura di nuove dispersioni di voti, nonché per l'estre-mo grado di incertezza che caratterizza l'avvicinamento Pdup e Avanguardia operaia. La decisione dell'assemblea nazionale di Lotta continua, tronca ogni possibilità di procedere ad accordi locali, proposta che Adriano Sofri aveva liquidato come «provocatoria». La polemica incalza. «Il manifesto» in un articolo non firmato dal titolo II nemico principale scrive: «II quotidiano "Lotta continua", con grandi titoli di prima, continua con "ritmo travolgente" la sua campagna "contro il settarismo di Ao e del Pdup". Nel numero di ieri ribadisce la presentazione "alle elezioni politiche in tutta Italia" di Lotta continua. Essa secondo una sua nota consuetudine si colloca al centro dell'universo politico, e invita "gli operai, i disoccupati, le donne, i militanti e le organizzazioni della sinistra rivoluzionaria" a sostenere le liste di Lotta continua». È una dura requisitoria contro l'iniziativa di Lotta continua, giudicata scissionista e animata dalla volontà di ostacolare il processo di aggregazione fra Pdup e Avanguardia operaia: «In realtà l'attacco portato da Le ai compagni di Avanguardia operaia, secondo la vecchia tattica del "fronte unito dal basso", si rivela come uso scissionistico dell'invocazione unitaria così come la strumentalizzazione dello spirito unitario di compagni e militanti punta ad inserire un cuneo dentro l'unico processo vero e organico di unità a sinistra, quello portato avanti dal Pdup e da Avanguardia operaia [...]. Quali sono le prospettive unitarie che propone Le oltre il momento cartello elettorale? Le dice di volere una unità "che va oltre la scadenza elettorale" sui temi "del rifiuto della svendita dei contratti, della mobilitazione contro il caro-vita, della lotta antifascista e contro la repressione". Ma l'unità su questi temi e e stata anche prima delle elezioni, addirittura c'era anche quando nelle elezioni Le faceva i comizi contro Democrazia proletaria e per far votare Pci. Il problema reale è quello dell"'aggregazione" reale della sinistra rivoluzionaria. E in proposito l'impressione che abbiamo è che Lotta continua non abbia alcuna proposta che la confluenza di tutti gli altri in essa» 58. Dentro il Pdup le cose si vanno complicando, mentre Pin-tor e Magri rifiutano il cartello elettorale la componente Foa si dichiara per l'accordo. Analogamente ampi varchi si aprono in Avanguardia operaia. Già prima delTAssemblea nazionale di Lotta continua, Vittorio Rieser su «II Quotidiano dei lavoratori» aveva sottolineato che dentro Democrazia proletaria e dentro il Pdup esistevano differenti valutazioni circa la presentazione unitaria. Il comitato centrale di Avanguardia operaia, riunito in seduta straordinaria il 25 aprile, invita Lotta continua a non presentare proprie liste e accettare la proposta di accordi locali con Democrazia proletaria. L'intervista di Adriano Sofri su «Lotta continua» del 27 aprile è un altro colpo assestato al progetto del Pdup. Respinta la proposta degli accordi locali, Sofri lancia' due ipotesi: Lotta continua non presenterà nessun dirigente nazionale, oppure propone la presentazione alternata nelle diverse circoscrizioni elettorali. Si fanno sempre più numerose le prese di posizioni a favore del cartello unitario. «Il manifesto» è tempestato di lettere e di ordini del giorno favorevoli all'accordo. Il commento de «Il manifesto» del 27 aprile trincerandosi dietro una linea difensiva, svela l'imbarazzo e le titubanze. La richiesta di liste unitarie è argomentata con la memoria della «lotta del '72», con la paura della dispersione di voti, con la polemica nei confronti dei vertici; non si fa mistero dell'ampiezza della campagna che si sta costruendo per premere sul Pdup. Trapela ormai un' arrendevolezza e una disponibilità che si accentua con lo spostamento di Avanguardia operaia. Il governo Moro cade ingloriosamente il 30 aprile, le elezioni sono stabilite per il 20 giugno. La pressione esercitata da una base, suggestionata dalla speranza di eccezionali trionfi, le polemiche interne, sono altrettante condizioni che, in contrasto con la nettezza dei giudizi espressi, portano alla svolta del comitato centrale del 7 maggio, preceduto dalle assemblee del 3 e 5 maggio. Al Pdup non resta che subire il listone.
NOTE 1 db. Sul caso del Manifesto, «II manifesto», n. 7, dicembre 1969. 2 La riunione congiunta dei due organismi si svolge dal 15 al 17 ottobre 1969, per il testo integrale del dibattito cfr. «La questione del "Manifesto": democrazia e unità nel Pci», Editori Riuniti, 1969. 3 ibidem, p. 15. 4 ibidem, p. 23. 5 ibidem, pp. 25-26. 6 ibidem, pp. 97-100. 7 Dopo il Cc continua la discussione sul Manifesto, «II manifesto», n. 5/6, ottobre-novembre 1969. 8 II dibattito alla base, «II manifesto», n. 7, dicembre 1969. 9 L. Magri, Ancora un lavoro collettivo, «II manifesto», n. 7, dicembre 1969. 10 ibidem. 11 «II manifesto», n. 1, gennaio 1970. 12 ibidem. 13 «II manifesto», n. 3/4, primavera-estate 1971. 14 ibidem. 15 ibidem. 16 L. Magri, Ancora un lavoro collettivo, «II manifesto», cit. 17 «II manifesto», n. 2, febbraio 1970. 18 Cfr. Le proposte politiche del Manifesto (Alcuni problemi di strategia) «Avanguardia operaia», nn. 6, 13, 18, 19, 21. 19 «II manifesto», n. 9, settembre 1970. 20 ibidem. 21 Cfr.: Il manifesto, centro d'iniziativa di Bologna, Delegati e lotte operaie. Atti del convegno operaio, Bologna, 21-22 marzo 1970. 22 Cfr. M. Serafini, Relazione al convegno operaio, Milano 30-31 gennaio, «II manifesto», n. 1/2, gennaio-febbraio 1971. 23 Cfr. Un quotidiano per la sinistra di classe, «II manifesto», n. 12, dicembre 1970. 24 «II manifesto», n. 3/4, primavera-estate 1971. 25 «II manifesto», 6 maggio 1972. 26 «II manifesto», quotidiano 13 maggio 1972. Un dibattito sul Manifesto aperto alla sinistra su elezioni, crisi di questi anni e «che fare» per uscire dal dilemma riformismo e estremismo. 27 ibidem. 28 D. Protti, «Cronache di "nuova sinistra". Dal Psiup a Democrazia proletaria», Gammalibri, 1979, p. 14. 29 ibidem, pp. 11-12. 30 ibidem, p. 14. 31 ibidem. 32 «Unità proletaria», n. 1, 21 ottobre 1972. 33 D. Protti, «Cronache di "nuova sinistra"», cit., p. 21. 34 ibidem, p. 22. 35 ibidem, pp. 22-23. 36 «Unità proletaria», 29 gennaio 1973. 37 R. Pellegrini - G. Pepe, «Unire è difficile, breve storia del Pdup per il comunismo», Colloqui con V. Foa, V. Parlato e L. Pintor, Savelli, 1977, p. 127. 38 Cfr. «Il manifesto», 19 gennaio 1973. 39 Cfr. Non si fondono il Pdup e il Manifesto, «Rinascita» n. 47, 1973. 40 Cfr. «Il manifesto» , 30 marzo 1973; R. Pellegrini - G. Pepe, «Unire è difficile», cit., p. 21. 41II Manifesto e il Pdup per l'unificazione, «II manifesto», 27 febbraio 1974. 42 R. Pellegrini - G. Pepe, «Unire è difficile», cit., p. 26. 43 Gli atti dei congressi di scioglimento sono pubblicati in: «II manifesto» documento n. 1, Congresso Nazionale del Manifesto», Edizioni Alfani, Roma 1974; «1° Congresso nazionale di Unità proletaria», edizioni Unità proletaria, 1974. 44 R. Pellegrini - G. Pepe, «Unire è difficile», cit., p. 30. 45 ibidem, p. 32. 46 ibidem, p. 173. 47 Cfr. «Il manifesto», Quaderno 3, «Dibattito sul Manifesto quotidiano», Alfani Editore. 48 R. Pellegrini, G. Pepe, «Unire è difficile», cit., p. 40. 49 ibidem. 50 ibidem, p. 42 e sgg. 51 ibidem, p. 58. 52 «II manifesto», 1° aprile 1976. 53 «II manifesto», 2 aprile 1976. 54 «II manifesto», 18 aprile 1976. 55 ibidem. 56 ibidem. 57 ibidem. 58 Il nemico principale, «II manifesto», 22 aprile 1976.
|
dellaRepubblica
per la storia dell'Italia repubblicana
Cronologie
- Transizione costituzionale
- Ordinamento provvisorio
- 1943 - 1945
- Consulta nazionale 1945 - 1946
- Proporzionale
- Assemblea Costituente 1946 - 1948
- Legislature
- I 1948 - 1953
- II 1953 - 1958
- III 1958 - 1963
- IV 1963 - 1968
- V 1968 - 1972
- VI 1972 - 1976
- VII 1976 - 1979
- VIII 1979 - 1983
- IX 1983 - 1987
- X 1987 - 1992
- XI 1992 - 1994
- Maggioritario
- XII 1994 - 1996
- XIII 1996 - 2001
- XIV 2001 - 2006
- Proporzionale con premio di maggioranza
- XV 2006 - 2008
- XVI 2008 - 2013
- XVII 2013 - 2018
- Home
- Mappa
- La Costituzione
- La Costituzione - 22 dicembre 1947
- Assemblea costituente
- DISCUSSIONE GENERALE - Sedute dal 4 al 12 marzo
- DISPOSIZIONI GENERALI
- PARTE I – DIRITTI E DOVERI DEI CITTADINI
- TITOLO I – RAPPORTI CIVILI
- TITOLO II – RAPPORTI ETICO-SOCIALI
- TITOLO III – RAPPORTI ECONOMICI
- TITOLO IV - RAPPORTI POLITICI
- TITOLO V - LE REGIONI E I COMUNI
- PARTE II - ORDINAMENTO DELLA REPUBBLICA
- TITOLO I – IL PARLAMENTO
- TITOLO II - IL CAPO DELLO STATO
- TITOLO III - IL GOVERNO
- TITOLO IV - LA MAGISTRATURA
- TITOLO VI – GARANZIE COSTITUZIONALI
- TITOLO V - LE REGIONI E I COMUNI Si riprende l’esame degli articoli rinviati
- DISPOSIZIONI FINALI E TRANSITORIE
- Coordinamento degli articoli
- FIRMA DELLA COSTITUZIONE
- Assemblea costituente
- Modifiche alla Costituzione
- Commissioni bicamerali
- Riforme istituzionali
- La Costituzione - 22 dicembre 1947
- Elezioni
- Governi
- Partiti
- Democrazia Cristiana (DC)
- Movimento Sociale Italiano (MSI)
- Partito Comunista Italiano (PCI)
- Partito di Unità Proletaria per il Comunismo (PDUP)
- Partito Repubblicano Italiano (PRI)
- Partito Socialista Italiano (PSI)
- Partito Socialista di Unità Proletaria (PSIUP)
- Sindacati
- Cerca
- Franco Ottaviano - La Rivoluzione nel Labirinto (1956 - 1980)
- Introduzione
- Volume Primo
- Capitolo I - Critica la revisionismo e riformismo
- Capitolo II - Dal controllo al potere operaio
- Capitolo III - I marxisti-leninisti
- Capitolo IV - La cultura militante
- Capitolo V - Il Sessantotto: la rivolta degli studenti
- Capitolo VI - Le strategie della tensione
- Capitolo VII - Il Maoismo e il Neostalinismo dell'Unione dei comunisti
- Capitolo VIII - Potere operaio: il partito dell'insurrezione
- Volume Secondo
- Capitolo IX - Lotta Continua: spontaneità e organizzazione
- Capitolo X - Dal Manifesto al PDUP
- Capitolo XI - Avanguardia operaia
- Capitolo XII - La lotta armata
- Capitolo XIII - Sulle ceneri dei gruppi: l'autonomia