VIII POTERE OPERAIO: IL PARTITO DELL'INSURREZIONE |
1. La costellazione operaista
Già alla vigilia del Sessantotto sono chiari i termini del conflitto fra le varie anime che hanno convissuto e si sono scontrate nell'arcipelago operaista a partire dalla scissione tra «Quaderni rossi» e «Classe operaia». Con la fine della pubblicazione delle due riviste, rispettivamente nel '66 e nel '67, venuto meno ogni riferimento nazionale, non cessa tuttavia il lavoro organizzato nelle singole aree d'influenza. Anzi proprio il parziale radicamento nelle lotte di fabbrica ― significativo l'intervento al Petrolchimico di Porto Marghera ― estremizza il confronto e accentua le divisioni, fino a delineare scelte diametralmente opposte. Il ritorno al partito del gruppo che si raccoglie attorno a Mario Tronti è fortemente osteggiato dagli «interventisti», mentre a Pisa prendono il sopravvento i «sociologi». Nasce in questo mutamento di fase, concomitante col sorgere del movimento studentesco, quell'osmosi di sigle che crea non poche confusioni nel laboratorio ideologico dell operaismo e nei suoi distinti tronconi organizzativi. Si sviluppano in parallelo le due esperienze di Potere operaio: quella toscana di Adriano Sofri, a cui si aggiungerà il gruppo torinese (ex «Quaderni rossi») che fa capo a Guido Viale e a Luigi Bobbio, e quella veneto-emiliana di Toni Negri, a cui daranno un concorso decisivo i romani Franco Piperno e Oreste Scalzone. È una geografìa composita per provenienza e pratica politica, che sempre di più avverte l'esigenza di coordinarsi e, per uscire da ogni strettoia localistica, rivendica un livello omogeneo di dirczione politica. Tra la fine del '67 e l'estate del '69, passando per il nodo delle lotte universitarie, maturano le condizioni di una centralizzazione su scala nazionale. Ma mentre per i marxisti-leninisti questa ricerca ha come obiettivo la strutturazione in partito, per l'operaismo il punto d'arrivo non si presenta così nettamente definito e si verrà precisando solo per successive approssimazioni. La natura stessa del movimento studentesco accentua la contraddizione fra la sua autonomia e ogni presunzione avanguardista: nonostante il ruolo importante svolto dai suoi leader, la linea operaista risulta sovrapposta alla specificità del «Potere studentesco». Anche davanti alle fabbriche, è il caso delle lotte alla Fiat dell'inverno-primavera '68, la mediazione fra le due linee è difficile. Nei vari gruppi locali, ancora a uno stadio molto fluido, agisce una dialettica irrisolta fra il rifiuto del partito e la necessità di fondare una dirczione politica rispetto a uno spontaneismo che si avverte ricco di potenzialità rivoluzionarie. Entrando in risonanza con la complessità teorica e con la magmaticità organizzativa del Sessantotto, l'arcipelago operaista origina percorsi distinti. Il Potere operaio pisano, dopo il serrato dibattito sull'organizzazione, ampiamente ripreso dalla rivista «Giovane critica», dà vita con Adriano Sofri a Lotta continua; mentre Luciano Della Mea fonda la Lega dei comunisti da cui, con un ulteriore scissione, nasce il Centro Karl Marx di Gian-mario Cazzaniga. Il Potere operaio veneto e settori consistenti dei gruppi emiliani e romani si ritrovano insieme nel nuovo Potere operaio. In questo passaggio l'operaismo, nato dentro e ai bordi del dibattito della sinistra negli anni del primo centro sinistra, decreta la fine di ogni possibilità di agire come strumento di pressione nei confronti del «revisionismo» e acutizza i suoi caratteri antagonistici. La pratica condotta nell'università, con i suoi limiti e le sue novità, i rapporti ormai interrotti col Pci e con le forze di sinistra, il confronto-scontro con i gruppi marxisti-leninisti, sono tutte componenti che influiscono e concorrono a determinare questa scelta. Le dichiarazioni organizzative che ne derivano sono espressioni delle due opzioni che si misurano nella nuova sinistra: neomaoismo e neoleninismo. L'origine teorica della costituzione su scala nazionale di Potere operaio è la differenziazione manifestatasi all'interno del gruppo promotore di «Classe operaia». Fin dai primi numeri della rivista, infatti, si vanno sempre più divaricando le posizioni di Mario Trenti e Alberto Asor Rosa dalle tesi sostenute da Toni Negri. Lo scontro è sulla nozione dell'autonomia. Trenti è venuto progressivamente approdando ali' «autonomia del politico», premessa del suo rientro nel partito, Negri, sostenuto dal gruppo veneto di «Classe operaia», teorizza la radicale rottura col movimento operaio organizzato e il passaggio a una nuova fase del conflitto sociale attraverso lo sviluppo dell'autonomia operaia. Banco di prova: la lotta contrattuale del '66 a Porto Marghera, che rimarrà un punto di forza del gruppo 1. Quando «Classe operaia» chiude le pubblicazioni, il lavoro a Porto Marghera continua e, nel marzo del '67, dopo alcuni contatti con i gruppi operaisti veneti e quelli sorti a Modena, Bologna e Ferrara, nasce «Potere operaio», «giornale politico degli operai di Porto Marghera» 2. Gli editoriali dei primi tré numeri, redatti nella primavera del 1967 dai veneti, (in seguito i testi saranno eleborati alternativamente dalla redazione veneta e da quella emiliana), delineano l'area di interesse teorico-politico e le direttrici di intervento del gruppo: «Autonomia operaia contro il piano; una classe operaia forte, autonoma e unita, contro il piano. Autonomia operaia nella società vuoi dire ovunque sabotare il piano». La riflessione muove dall'esasperazione della conflittualità già presente nella tarda elaborazione dei «Quaderni rossi», accentuata ora da un più marcato antirevisionismo. E netto il rifiuto di ogni continuità con la tradizione culturale del movimento sindacale e della sinistra organizzata, in particolare del patto democratico dentro cui questi ultimi hanno accettato di muoversi e di lottare. Emerge subito la spiccata vocazione salarista del gruppo che vede negli aumenti retributivi lo strumento principale per accelerare la crisi del sistema capitalistico, impedire il riassorbimento delle lotte e ogni loro prevedibile compatibilita. Il primo numero (20 marzo 1967) del «giornale politico degli operai di Porto Marghera» apre con un duro attacco al revisionismo. L'editoriale, Autonomia operaia contro il piano, contesta la scelta astensionistica dei parlamentari della Cgil di fronte al piano presentato dal governo di centro-sinistra. In fabbrica la parola d'ordine è: autonomia operaia contro il padrone, contro la politica «collaborazionista» del sindacato. All'interno del Pci bisogna far esplodere l'autonomia, una forza dirompente per rovesciare la sua linea: «La forza rivoluzionaria dei mille e mille comunisti onesti va rovesciata contro una linea politica che avvia alla sconfitta, che permette ai sindacalisti comunisti di astenersi sul Piano in Parlamento che non interpreta la necessità della lotta operaia in Italia. Una parola d'ordine sola "no al Piano" deve sconvolgere le strutture del partito. "No al Piano" ovunque nel sindacato e nelle fabbriche». Insistendo su questi temi, nel numero successivo si afferma: «E ora di muoversi nel partito» e si prospetta l'embrione di una strategia che abbia come sbocco il partito rivoluzionario: «II risultato finale che ci proponiamo con questa azione è la formazione del partito rivoluzionario della classe operaia, del partito capace di organizzare le lotte decisive contro il piano del padrone capace di pianificare un attacco generale al sistema capitalistico». La polemica coi marxisti-leninisti non è, dunque, sul «partito», ma sui tempi e sui modi della sua realizzazione. Il gruppo veneto-emiliano continua la sua esperienza davanti alle fabbriche senza prestare molta attenzione al movimento studentesco, e da questo punto di vista si differenzia sostanzialmente dal Potere operaio pisano e dai torinesi provenienti dai «Quaderni rossi». Tuttavia, fra la confusione derivante dall'omonimia delle sigle, la parola d'ordine del «Potere operaio» suggestiona numerosi militanti. La presenza dei gruppi locali nelle varie mobilitazioni suscita interesse e, d'altra parte, lo sviluppo del movimento studentesco è un fertile laboratorio di ripensamento per tutto il panorama operaista. Rilevante per lo sviluppo nazionale del Potere operaio veneto-emiliano sarà la confluenza sulle sue posizioni dell'area romana di Piperno, Scal-zone e Pace 3. Non marginale, tra l'altro, la popolarità che, i primi due conquistano nelle turbinose giornate romane da Valle Giulia a piazza Cavour, dalla risposta all'attacco squadristico di Caradonna all'episodio dell'incedio alla Boston Chemical. Sorprende la posizione assunta rispetto alle elezioni del maggio 1968. Contro ogni suggestione astensionistica, enfatizzando il rifiuto operaio della scheda bianca Potere operaio invita al voto per «i candidati del Pci e dello Psiup che si battono contro il piano del capitale ed organizzano la lotta operaia rifiutandone ogni ingabbiamento». Ma aggiunge un minaccioso monito: «Di ogni voto ricevuto occorre essere coscienti che è una lama levata sulla testa di chi tradisce la classe operaia, di chi ne frena le lotte. Il voto lo diamo senza illusioni, ma illusioni non se ne facciano Pci e Psiup perché li aspettiamo in fabbrica, lì noi vediamo chi è contro i padroni e chi sta al loro gioco. La classe operaia vincerà: i burocrati no!» 4. Le lotte alla Montedison fanno clamore, investono l'intera Marghera: scioperi generali, blocchi ferroviari, forme di lotta dura5. Intanto al convegno delle avanguardie studentesche, che si svolge nel settembre a Venezia, si registrano le prime difr ferenziazioni fra Potere operaio veneto e Potere operaio pisano. Nell'inverno 1968-69 si conclude l'esperienza del «giornale politico degli operai di Porto Marghera», ma continua il lavorio nelle fabbriche: al comitato operaio del Petrolchimico si affiancano i nuclei delle grandi fabbriche di Milano e Torino. Confluisce in questa attività anche il gruppo che si raccoglie intorno al settimanale «La Classe», «giornale delle lotte operaia e studentesche», il cui primo numero esce il 1° maggio del 1969. Vari nuclei regionali convergono sulle stesse posizioni e si forma lo stato maggiore del nuovo gruppo: l'area veneta, con Toni Negri ed Emilio Vesce; Guido Bianchini, che rappresenta Mode-na, Bologna e Ferrara; Scalzone, Piperno e Pace, provenienti dal movimento romano; Sergio Bologna, Ferruccio Gambino e Giairo Daghini, che esprimono la realtà lombarda; Alberto Magnaghi dell'area piemontese. Nell'agosto '69, dopo i fatti di corso Traiano a Torino, «La Classe» finisce le pubblicazioni. Nel settembre esce il primo numero del nuovo «Potere operaio» 6. Più interna al travaglio sessantottesco si presenta la vicenda di Potere operaio pisano, che, superando le precedenti elaborazioni, attraverso una complessa mediazione con l'esperienza trentina di Marco Boato e con quella torinese di Guido Viale, approda a quel peculiare spontaneismo che caratterizzerà Lotta continua 7. Il primo numero del suo «Potere operaio» esce in tremila copie, nel febbraio 1967, come supplemento a «Lotta di classe», un giornale di fabbrica dell' Olivetti di Ivrea. Dopo altri due numeri, il 10 maggio di quell'anno, il giornale diventa autonomo sotto la dirczione di Luciano Della Mea 8. I nuclei fondamentali del gruppo si attestano a Pisa e a Massa, concentrano il lavoro politico all'università, all'Olivetti di Massa, alla Nuova Pignone e alla Saint-Gobain di Pisa, stabiliscono collegamenti con le esperienze in corso a Porto Marghera e alla Fatme di Roma. Molti militanti sono iscritti alla cellula universitaria del Pci di Pisa: alcuni saranno espulsi di lì a poco, altri usciranno spontaneamente. Una forte accentuazione economicista caratterizza l'impo-stazione del gruppo: nella sua elaborazione ogni lotta di tipo economico assume una valenza politica e una tendenzialità rivoluzionaria. Nel corso del '67, inoltre, sull'originaria impostazione operaista si innestano motivi guevaristi9. Sono di questo periodo parole d'ordine del tipo «guerriglia internazionale, subito» e «costruire uno, due, tre, molti Vietnam», alle quali si aggiungono citazioni e riferimenti all'esperienza cinese. Non si tratta però di precisi richiami a modelli rivoluzionari, ma piuttosto di un insieme di suggestioni assemblate fra loro, un passaggio in cui i riferimenti ai «Quaderni rossi» e a «Classe operaia» subiscono un duplice appiattimento, verso l'economicismo e verso l'illegalismo diffuso. Davanti alle fabbriche la propaganda dei temi internazionalisti e la critica al revisionismo si unisce all'analisi della condizione operaia, ma la situazione reale sul posto di lavoro è assunta come pretesto da cui far nascere occasioni di agitazione. Se gli obiettivi sono rivoluzionari, le forme di lotta devono essere dirompenti: «Le lotte possono crescere fabbrica per fabbrica solo sulla base del rifiuto dei contratti e della permanente capacità di opposizione della base operaia. Lo sciopero non ne è che uno strumento; la non collaborazione, il rifiuto degli spostamenti, il rifiuto degli straordinari, la limitazione produttiva, il rifiuto del cumulo delle mansioni, l'insubordinazione collettiva ai capi, la richiesta degli aumenti salariali uguali per tutti e della riduzione d'orario a parità di salario, il rifiuto delle mansioni pericolose, il sabotaggio stesso nelle molteplici forme in cui può attuarsi (e già si attua) ne sono gli aspetti principali. È quella che si definisce la guerriglia in fabbrica, la permanente mobilitazione dell'assemblea operaia, squadra per squadra, reparto per reparto, e una conseguente organizzazione articolata "clandestina" e no, della lotta politica in fabbrica» 10. La nascita del movimento degli studenti, tra il finire del 1967 e l'inizio del 1968, comporta una revisione del lavoro e una sua nuova impostazione. Al nuovo «referente» sociale il gruppo guarda con diffidenza ed estende meccanicamente alla figura dello studente categorie concettuali e obiettivi mutuati dalla nozione di classe operaia. Con l'uscita di Della Mea e Cazzaniga dal Psiup si risolve definitivamente il problema del rapporto con i partiti tradizionali della classe operaia: pur non ponendosi in termini di rifondazione del partito, la questione dell'organizzazione diviene centrale. In questa chiave la presenza all'interno dell'università è tutta tesa alla formazione di militanti rivoluzionari e a determinare obiettivi corrispondenti alle «esigenze delle masse» nella prospettiva deU'unifìcazione politica dei vari settori di lotta 11. Nell'inverno 1968-1969 si radicalizza il confronto sul tema dell'organizzazione, la polemica si svolge sulle relazioni contrapposte di Luciano Della Mea e di Adriano Sofri " .Gli sviluppi del dibattito determineranno le dimissioni di Della Mea, una serie di scissioni a catena e uno scontro che preciserà la fisionomia del gruppo. Della Mea tende alla fondazione di un'«avanguardia politica rivoluzionaria» che «attraverso un sistematico intervento nelle lotte» si confronti, senza perdere la sua identità, con il movimento qualificandosi come «avanguardia esterna». A suo avviso nella pratica del gruppo si sono manifestate forti spinte ad un crescente coordinamento: ne sono esempi la stabilità dei gruppi di intervento politico, il lavoro per la formazione dei quadri, la tessitura di rapporti con le altre esperienze del gruppismo e, infine, la proposta del convegno nazionale di collegamento. Dopo il maggio francese, caduta ogni illusione ed equivoco sul possibile coinvolgimento dei partiti «revisionisti», si pone come indilazionabile per Potere operaio la necessità di consolidare il proprio ruolo di avanguardia. Da ciò Della Mea fa scaturire il bisogno, di un solido rapporto fra tutti quei gruppi e quelle esperienze che hanno lavorato in modo analogo e sono riconducibili a una comune impostazione teorica. Si tratta quindi di ricomporre a unità il mosaico teorico e organizzativo che, originatesi attorno alla redazione dei «Quaderni rossi» e passando per «Classe operaia» ha dato vita al dissenso nel Pci e nel Psiup e al proliferare delle varie redazioni e dei nuclei d'inter-vento. Questa unità potrà essere possibile attraverso un'organiz-zazione nazionale ― quasi una federazione ― che, pur non identificandosi con un partito, consideri la costruzione di que-st'ultimo l'obiettivo a cui tendere. Il processo di centralizzazione, il passaggio «dal provvisorio al regolato, dalla improvvisazione alla disciplina» deve attuarsi con la costituzione di un ufficio politico a livello nazionale. NelTipotesi di Luciano della Mea, come per l'Unione dei marxisti-leninisti, il processo di costruzione del partito è visto con una forte componente soggettiva e in entrambi i casi l'impostazione è guidata dal maoismo (o meglio da una certa lettura del maoismo). In un' ottica opposta si muove la relazione di Adriano Sotti, un documento che è da considerarsi la premessa ideologica e organizzativa di Lotta continua. Sofri giudica le esperienze realizzate ancora del tutto insufficienti per approdare a una svolta organizzativa e respinge due argomentazioni molto diffuse nelle file dell'estremismo: quella che vede nel momento della scelta soggettiva una garanzia sufficiente per la costruzione del partito e quella che sostiene la logica della «continuità lineare di una tradizione rivoluzionaria (il marxismo, il marxismo-leninismo, il marxismo-leninismo-maoismo)». A suo parere la «dirczione rivoluzionaria» non è legittimata dal legame con un'ininterrotta continuità storica (che è altra cosa dal rapporto vivo con tutta l'esperienza rivoluzionaria passata e presente) e l'esigenza del partito non può essere tradotta in atto notarile, bensì può originarsi solo dal rapporto con le masse, dal suo essere espressione cosciente e generale dei bisogni rivoluzionari delle masse oppresse. Esaltando i movimenti di lotta in corso, Sofri attribuisce alle masse una coscienza rivoluzionaria innata e da questa soggettività fa derivare la loro disponibilità alla politicizzazione, condizione-necessaria per arrivare alla crescita e al collegamento delle avanguardie, in una dialettica permanente fra dirczione e spontaneità. Accettato formalmente, il principio leninista secondo cui «senza teoria rivoluzionaria non può esserci movimento rivoluzionario» viene travolto dall'accentuato sperimentalismo politico: «Non e e una teoria che si incontra e penetra nel movimento delle masse, ma una teoria come conoscenza sistematica dei bisogni delle masse e una loro generalizzazione, in un incessante processo dialettico che cresce nella lotta delle masse». Partendo dal ruolo di avanguardia espresso dal movimento degli studenti, Sofri giunge a conclusioni nettamente antitetiche sia alla relazione di Luciano Della Mea, sia all'impostazione dei gruppi marxisti-leninisti per cui ormai si tratta di determinare rapidamente le condizioni per la costruzione del nuovo partito rivoluzionario. Per Sofri la nuova leva di militanti non può disancorarsi dalle lotte, bensì deve rimanere legata al movimento e puntare a una sua crescita complessiva, così da porsi rispetto alla classe operaia non come «avanguardia esterna» di memoria leninista, ma come settore di lotta. Le divergenze sui fatti della Bussola del Capodanno 1968 accelerano la rottura del gruppo di Potere operaio ". Cazzani-ga condanna come «avventuristica» l'iniziativa presa davanti al locale di Viareggio; al contrario Adriano Sofri la considera un'a-zione esemplare da cui si può e si deve trame un «vantaggio politico». A gennaio del 1969 si hanno le dimissioni di Della Mea, che tuttavia rimane legato parzialmente al gruppo fino alla fondazione insieme a Romano Luperini della Lega dei comunisti. Seguono quelle di Cazzaniga che, fonda il Centro Karl Marx. La rivista «Nuovo impegno», che nella fase del movimento studentesco aveva sorretto il gruppo di Potere operaio e in parte si era identificata con esso, aderisce alla Lega dei comunisti. Nella vicenda del gruppo pisano vanno maturando le condizioni che nel settembre 1969 porteranno alla fondazione di Lotta continua.
2. Si alla violenza operaia
II primo numero di «Potere operaio» settimanale esce, alla vigilia dei rinnovi contrattuali, il 18 settembre 1969. Direttore responsabile è Francesco Tolin, collaborano alla redazione fra gli altri: Nanni Balestrini, Lapo Berti, Guido Bianchini, Michelangelo Caponetto, Pino Adriano, Bruno Brezzo, «Biffo», Sergio Bologna, Giairo Daghini, Alisa Dal Rè, Luciano Ferrari Bravo, Alberto Forni, Mario Galzigna, Ferruccio Gambino, Roberto Giuliani, Claudio Greppi, Stefano Lepri, Alberto Magnaghi, Libero Maesano, Bruno Massa, Toni Negri, Lanfranco Pace, Calogero Palermo, Paolo Patrizi, Franco Piperno, Paolo Pomperi. Luigi Rosati, Oreste Scalzone, Alessandro Serafini, Toni Verità, Emilio Vesce, Lauso Zagato. Nei primi 11 numeri, fino alle condanne di Tolin, la rivista indica i nomi dei redattori. Dopo l'arresto di Tolin, per un paio di numeri, viene indicata come direttore responsabile Letizia Paolozzi sostituita poi da Emilio Vesce. L'editoriale, Da «La classe» a «Potere operaio», ricostruisce le ragioni della scelta compiuta. Affermata una continuità con le passate esperienze, sottolinea la volontà di aprire una nuova fase rispetto al discorso portato avanti da «La classe», una necessità non astratta ma provocata «dal livello delle lotte e in primo luogo dalle urgenze d'organizzazione». Dopo la battaglia di corso Traiano e con il convegno delle avanguardie operaie del luglio a Torino, si è chiuso un ciclo: ormai la scadenza contrattuale impone iniziative «organizzative più incisive», pena il soffocamento dell'autonomia operaia. Polemizzando con ogni residuo di economicismo, «Potere operaio» scrive: «Diciamo chiaramente: Agnelli ha scoperto i limiti della lotta continua, del blocco della produzione, benché questa prospettiva lo terrorizzi al punto di fargli perdere la testa». Ormai tra operai, sindacati e padrone lo «scontro è politico» e chiama in causa direttamente l'assetto del potere. «L'organizzazione della lotta continua» è un dato irreversibile dell'iniziativa della classe operaia, la questione è «andare oltre la gestione operaia della lotta di fabbrica, oltre l'organizzazione dell'autonomia per impostare una dirczione operaia» 14. Il dibattito a Torino ha decretato la fine di ogni pretesa autonomia del movimento studentesco come specifica organizzazione articolata in varie tendenze (operaista, marxista-leninista, anarchica). Rimane il problema di «assicurare nei fatti l'e-gemonia della lotta operaia sulla lotta studentesca e proletaria». Di ciò Potere operaio intende farsi carico non come parte delle assemblee operai-studenti o come espressione dei comitati di base ma come autonomo soggetto di direzione. Il giornale, dunque, non può essere un semplice bollettino di informazioni, attraverso cui coordinare le varie realtà d'intervento e unificare gli obiettivi delle singole lotte, bensì lo strumento che imposta strategicamente la «dirczione operaia», si pone al servizio di una precisa linea, orienta i militanti del gruppo e la loro condotta, un vero e proprio organo di partito. Le strategie del «rifiuto» unificano le lotte dell 'università e le lotte di fabbrica. Negazione della scuola e rifiuto del lavoro sono aspetti complementari di un medesimo attacco al sistema capitalistico e al suo ordine. Nella fabbrica i lavoratori sono totalmente indifferenti ai processi produttivi e alla trasformazione sociale. Solo l'organizzazione soggettiva del «rifiuto» corrisponde alla coscienza operaia: il rifiuto del lavoro è la condizione fondamentale per unificare le lotte nel paese, nel Nord come nel Sud, e in tutta l'Europa capitalistica. Dall'organizzazione del rifiuto del lavoro ali'organizzazione politica operaia, in ciò consiste il salto di qualità che si vuole compiere: «Non abbiamo mai proceduto per alternative: ieri il problema era quello della lotta continua oggi il problema è quello della lotta continua organizzata; ieri il problema era quello dell organizzazione della singola lotta, oggi il problema è quello dell'organizzazione permanente, comunicata, coordinata della lotta. Dalla lotta operaia alla programmazione della continuità della lotta sul terreno sociale sotto l'egemonia e la guida delle avanguardie operaie: questo è il nostro obiettivo, questa è la nostra urgenza» ". Produttività ed efficienza sono regole che vanno fatte saltare, sono questioni che interessano i padroni, i capitalisti e lo Stato, non la classe operaia che, nella sua lotta contro il capitale, al contrario, vuole e deve distruggere le regole del lavoro. È in questa prospettiva che occorre realizzare una «generale dirczione operaia nella lotta anticapitalista e antimperialistica», capace di comporre tutte le lotte contro il capitalismo e affermare il comunismo non come progetto finale, da guardarsi nella logica del futuro, ma addirittura come «programma minimo». Quello che si vuole far emergere è una nuova soggettività critica, quella dell'operaio-massa che con il suo rifiuto all'intero sistema, si fa soggetto del non più rinviabile scontro con lo Stato: «II rifiuto del lavoro è la scoperta della possibilità della costruzione di una società in cui la libera collettività operaia saprà produrre quanto serve alla vita, quanto serve a soddisfare i bisogni fondamentali, fuori dalle regole della produttività. Il rifiuto del lavoro è rifiuto, insieme, del capitalismo e del socialismo, come forme di produzione che si fondano sulla estrazione sociale del profitto. Rifiuto del lavoro è insieme lotta contro lo Stato e contro il lavoro. La conquista del potere non può semplicemente significare per i comunisti, oggi, dittatura per l'estinzione dello Stato: se lo Stato è organizzatore del lavoro, la conquista del potere sarà dittatura di classe per l'estinzione del Stato del lavoro» 16. La rilettura del Marx dei Grundrisse si incontra con spezzoni teorici marcusiani. Al proletariato non è assegnato nessun compito propositivo, nessun progetto di nuovo ordine sociale: il sostanziale pessimismo nei confronti dalla classe operaia che pervade il gruppo non lo consente. Unico fine: l'utopica liberazione dalla divisione del lavoro e dai meccanismi produttivi. Nemico principale è lo Stato, quello del sistema capitalistico come quello del sistema socialista, in quanto entrambi sono «organizzatori del lavoro». Il comunismo, il «programma minimo», è la lotta contro lo Stato del lavoro. In tutta Europa è questo il filo rosso che unifica le lotte operaie e sociali. Riaggiornando la propria identità operaista il gruppo rivisita un leninismo che, nella stretta organizzativa, assume tratti di forte centralismo. I nuclei operanti alla Fiat, a Porto Marghera, alla Farmitalia, all'Alfa Romeo, alla Fatme, a Pomezia decidono la convocazione della prima conferenza operaia: il convegno di coordinamento delle avanguardie operaie, che si svolge a Firenze il 12 ottobre 1969. Il documento conclusivo lancia la proposta di un coordinamento nazionale. Non si vogliono ripetere gli errori del movimento studentesco, il livello dello scontro e l'estensione delle lotte impongono non solo autonomia ma anche disciplina. Centralizzarsi, però, non significa acquisire la forma-partito tradizionalmente intesa, significa garantire un'unità di dirczione senza ripercorrere le strade del monolitismo e del verticismo burocratico, senza chiudere al movimento reale di lotta. Propositi diffìcili quanto nebulosi che presentano già tutte le contraddizioni che porteranno allo sviluppo, dal corpo stesso di Potere operaio e dalle sue propagini, dell'Autonomia organizzata. La prima prova del gruppo sono le lotte dell'autunno. La posta in gioco è l'insurrezione, lo scontro contrattuale è «immediatamente politico», non e' è nessuna distinzione fra lotta economica e lotta politica. Gli obiettivi indicati sono conseguenti: «far saltare le piattaforme sindacali, impedire le trattative, respingere il contratto». Funzionale a questo piano è l'estremizza-zione delle rivendicazioni: «lotte su massicci aumenti salariali e completa parità normativa», «lotta per il salario minimo legato alle reali esigenze di vita e non alla produttività del lavoro». Le grandi fabbriche sono al centro dell'attenzione del gruppo: la Fiat, l'Alfa di Milano, la Pirelli, Porto Marghera. Eppure la sconfitta si registra proprio sul terreno operaio. Il gruppo non riesce a modificare dal basso le piattaforme contrattuali del sindacato e allora, con una di quelle mosse a sorpresa di cui si farà protagonista in più di un'occasione, la parola d'ordine diventa la chiusura immediata dei contratti: «Tutto e subito!». Continuare le lotte è un'inutile perdita di tempo. Nelle cronache del giornale un accecante trionfalismo deforma il reale andamento e l'esito delle lotte: ovunque sembra di assistere alla sconfìtta sindacale e all'inarrestabile avanzata della nuova dirczione operaia. D'altronde l'obiettivo dichiarato non è informare, bensì costruire i presupposti teorici per una di-rezione politica, creare e maniere viva la fiducia nell'organizza-zione, ed è sulla base di questi fini tattici che vengono selezionate le notizie e gli argomenti. Questa deviante impostazione «porterà al punto di tacere ogni accenno sulle vicende delle bombe di Milano, dell' assassinio di Pinelli, dell' incriminazione di Valpreda» 17. In questo travisamento della realtà le parole d'ordine diventano «implacabili», immediatamente evocative, cariche di insubordinazione. Si parte dal «bisogno» elevato a dignità rivoluzionaria per affermare in modo strumentale e demagogico obiettivi non da trattare ma da ratificare subito: «Sostanziali aumenti salariali, le 40 ore, la completa parità normativa con gli impiegati, niente qualifiche, salario sganciato dalla produttività, rifiuto del lavoro» 18. Liquidato ogni terreno di confronto col sindacato, considerato strumento del piano di integrazione della classe operaia portato avanti dal padronato e dal capitalismo, è scontato il giudizio sulle piattaforme: sono funzionali al mantenimento dell ordine esistente. Ogni piattaforma, anche la più avanzata, può essere inglobata e recuperata dal sistema in quanto permarrebbe comunque «una divergenza qualitativa insanabile». Due grandezze disomogenee, infatti, si confrontano fra loro: un «progetto di contenimento sindacale», un «progetto di rivoluzione operaia» 19. Messa in discussione è tutta la tradizione e la storia del movimento operaio italiano, a cui si contrappone un mito rivoluzionario valido di per sé. Nell'immediatezza del «subito», la fretta soggettiva diventa negazione dei rapporti di forza, delle posizioni dei partiti politici, non e'è più ne tattica ne strategia. La situazione del sindacato è giudicata comatosa, incapace di uscire da una duplice difficoltà: inseguire e recuperare l'autonomia operaia a scapito del progetto di nuova maggioranza, cioè il Pci al governo, oppure smascherarsi di fronte agli operai. Tattica e strategia coincidono. Il problema non è chi guida la classe operaia, è «cosa vuole la classe operaia italiana» e per il gruppo «la classe operaia non ha alcun ideale da realizzare», punto di partenza delle lotte sono le sue «esigenze materiali». La novità consiste nel? attualità della rivoluzione, un progetto non rinviabile che si esprime nelle lotte come «tensione essenziale che porta ali'autonomia della dirczione operaia». La lotta operaia deve essere «lotta dura». Sul giornale immagini crude e violente, un inno alla guerriglia e alla guerra rivoluzionaria: «la lotta operaia recupera sempre di più una pratica quotidiana di violenza. Cortei, picchetti duri, sassaiole contro crumiri e dirigenti, blocchi stradali sono ali ordine del giorno, non fanno più nemmeno cronaca»20. Intanto sulla base dei risultati del convegno di Firenze si procede all'autorganizzazione. Ormai, scrive entusiasta e trionfante «Potere operaio», «gli estremisti sono dentro la fabbrica», una lealtà che rende obsoleta la vecchia sigla «operai-studenti» mentre attualizza sul piano organizzativo il bisogno della direzione operaia delle lotte. Dura la polemica con l'organo di stampa del Pci, «una linea nera comincia oggi a collegare polizia e stampa padronale con "l'Unità"». L'attacco riguarda il modo come vengono presentate le lotte operaie e la costante denuncia di «gravi provocazioni» attribuite ai militanti di Potere operaio. Riferendosi alle condizioni dell'arresto di tre militanti del gruppo davanti alla porta «2» di Mirafiori si arriva ai toni minacciosi: «Se lo ricordino i compagni che lavorano a "l'Unità": gli operai della Fiat non dimenticheranno che sul giornale del Pci un provocatore possa dare versioni che servono e che concordano con i motivi che hanno portato alla provocazione» 21. Ai cancelli della fabbrica «misteriose» esplosioni di molotov, picchetti duri. Il «delegato» è il nemico principale dell'au-torganizzazione della classe prospettata da Potere operaio, una proposta per far passare e garantire in fabbrica ciò che si decide al vertice». Alla falsa democraticità sindacale, nelle lotte della primavera-estate, il gruppo contrappone il delegato, scelto fra i lavoratori più combattivi, eletto senza le formalità della scheda e immediatamente revocabile dalla base. Il procedere della «lotta continua operaia» modifica la funzione dei delegati. Essi hanno assolto un ruolo importante nell'autolimitazione della produzione, garantendo una minima perdita di salario. Poi sono diventati il braccio esecutivo del sindacato e del padronato: un altro espediente per imporre un nuovo ordine sul ciclo produttivo e contenere la spinta rivoluzionaria 22. Ma, secondo Potere operaio, agli operai non interessa la produzione, far perdere danaro agli imprenditori, quello che vogliono è «più soldi e meno lavoro» non meno lavoro meno soldi. La lotta sul salario dunque annulla tutte le «funzioni» del delegato nella vita interna alla fabbrica. Non serve a nulla il controllo democratico dei ritmi di lavoro e delle mansioni. Al contrario si tratta di: «Far pagare interamente al capitale i costi sociali della formazione e della riproduzione della forza-lavoro, impedire che questi momenti di lotta funzionino come ricomposizione della rottura operata in fabbrica, significa da una parte costruire l'unità organizzata di classe attraverso obiettivi materiali unificanti che consentano di aggredire tutti i momenti del piano sociale di sfruttamento; dal-l'altra spostare in avanti il terreno di scontro, liberare la strada ad una lotta frontale contro la produttività complessiva del sistema» 23. A Firenze il problema dell'unificazione era rimasto abbastanza vago, nelle conclusioni si era parlato non di un vero e proprio coordinamento di azioni e lotte ma di una piattaforma comune costruita attorno a obiettivi e parole d'ordine 24. Un limite che solo parzialmente sarà superato con il secondo convegno di coordinamento che si svolge il 26 ottobre del '69 a Milano. Partecipano all'assemblea e promuovono la piattaforma di discussione: comitato operaio Porto Marghera, Petrolchimica e Chatillon; comitato operai-studenti di Este (Padova); comitato operaio Petrolchimica di Ferrara; gruppo di operai di Pomezia; comitato di base della Fatme di Roma; gruppo di operai dell'Al-fa Romeo di Arese; gruppo di operai delle officine Galileo di Firenze; gruppo di operai della Stide di Firenze, comitato unitario Lavoratori della Farmitalia di Milano; gruppo di tecnici della Snam progetti di Milano; comitato operaio della Fiat di Torino; Comitato di base della Rai di Milano. L'iniziativa si conclude con l'approvazione di un documento che deve servire come piattaforma nazionale. La linea indicata ribadisce il «No» alla trattativa: «la lotta operaia non vuole essere ingabbiata in nessuna trattativa, in nessun contratto che garantisca la pace sociale agli sfruttatori». Obiettivi: 40 ore subito pagate 48; seconda categoria per tutti, un primo passo per l'abolizione delle categorie; parità normativa fra impiegati e operai; ratifica e nessuna trattativa. La fase contrattuale sta per chiudersi, Potere operaio sente la difficoltà di mantenere viva la conflittualità nelle fabbriche e per rompere l'isolamento tende a spostare lo scontro sul sociale. Il documento di Milano si conclude con un lungo appello a contrastare i tentativi sindacali di spezzare il fronte degli scioperi: «Davanti ai tentativi di spaccare le rivendicazioni operaie in tanti tronconi, davanti ai tentativi di impedire che le lotte si unifichino in un unico blocco di forze e'è un'unica risposta da dare. Estendere la lotta di fabbrica ai quartieri, alle piazze, far uscire le lotte dall'isolamento, dalla singola fabbrica. Unificare le lotta di tutti i settori, sviluppare una forte pressione sul movimento degli studenti affinchè la lotta studentesca riprenda decisamente il carattere di lotta di massa contro la scuola. Solo a tali condizioni la lotta degli studenti interessa gli operai: come componente di uno scontro sociale di massa» 25. Intanto, a Pisa, la battaglia di piazza, il bilancio è tragico: la morte dello studente Cesare Pardini; 68 dimostranti fermati, 27 di loro sono arrestati perché trovati in possesso di pistole, coltelli, spranghe di ferro, molotov; 9 civili sono feriti, 20 feriti tra gli agenti e i carabinieri. I militanti di Potere operaio e di Lotta continua impediscono il comizio antifascista promosso dai partiti democratici, dal Comune e dalla Provincia, assaltano con una fìtta sassaiola la polizia, lanciano bottiglie molotov, e tentano di invadere la stazione ferroviaria e la caserma dei carabinieri. «!'Unità» commentando i fatti di Pisa accusa governo, polizia, padroni, fascisti e «provocatori» di «voler montare un clima di provocazione per tentare di trasferire sul piano dell'ordine pubblico il conflitto sociale in atto». Per Potere operaio questa linea si sposa alla linea del governo e del padronato in un medesimo disegno «stroncare il processo di autorganizzazione operaia» che si esprime nelle lotte in corso e «qualificarsi come l'unica possibile gestione del controllo, del contenimento delle lotte». Il Pci vuole essere l'unico garante della pace sociale, proprio per questo l'insubordinazione e la sovversione sono i grimaldelli di una lotta dura che non vuole più mediazioni ma auspica e cerca lo scontro diretto con lo Stato. Se la violenza padronale va schiacciata, la violenza operaia va difesa: «Noi affermiamo invece e sosteniamo con tutta chiarezza la durezza dell'insubordinazione violenta degli operai, contro la violenza dei rapporti capitalistici di lavoro e contro il disordine della società del capitale» 26. «Sì alla violenza operaia» titola a grandi caratteri il numero del giornale in cui si riportano con i toni di un ' imminente guerra civile gli scontri di Pisa. Il 7 novembre 1969 il sindacato firma il primo contratto è quello degli edili. Sul paginone-manifesto, Potere operaio commenta: «Ecco il primo contratto bidone!». Tutta l'attenzione si sposta al prossimo 19 novembre, una giornata che deve diventare di «rafforzamento e inasprimento» della lotta, un momento di coordinamento delle «iniziative autonome» della classe. Sul giornale prosegue l'inno alla violenza come strumento dell'azione di classe. Mentre l'iniziativa sindacale ottiene le prime vittorie, nel paese prosegue lo stillicidio del sovversivismo, intanto sempre più aggressiva si fa la campagna stampa contro le violenze e il «teppismo» rosso. Preparando la risposta «operaia» del 19 novembre, giorno dello sciopero generale proclamato dai sindacati, «Potere operaio» ricostruisce a suo modo la storia della vicenda contrattuale. A luglio quando il sindacato dirottava la combattività operaia sullo sciopero per gli affitti, gli operai scendevano in piazza. Le richieste erano 150 lire di aumento l'ora e seconda categoria per tutti. Al petrolchimico di Porto Marghera: 1.000 lire al giorno di più, 36 ore lavorative per i turnisti, completa parità normativa. Alla Pirelli: abolizione del cottimo e aumento di 15.000 lire sul premio di produzione. Questi erano gli obiettivi «imposti dalle lotte autonome e nessuno osava discuterli». Dopo le ferie arrivano le piattaforme sindacali. I metalmeccanici, la punta più avanzata del movimento, chiedono 75 lire di aumento l'ora, 40 ore subito e parità normativa: «La forza operaia è cresciuta con la lotta di massa, che è diventata sempre pù aspra. Si sono messi a correre i ministri, i consiglieri comunali, la polizia». Iniziano le tappe della capitolazione sindacale: il 10 novembre si cede sull'orario, sul salario, sulla normativa degli edili; il 15 novembre sulle offerte di Donat Cattin, infine retromarcia sulle 40 ore subito, sulla parità normativa per metalmeccanici e chimici. Il sindacato aveva detto ai lavoratori che il padrone poteva dare tanti soldi e nessun diritto sindacale. Ma è vero proprio l'inverso: «I padroni mollano sui diritti sindacali, aprono le porte al sindacato in fabbrica perché i sindacalisti tengano fuori gli operai, ma non mollano sugli interessi materiali della classe operaia: orario e salario». È tempo di aprire un nuovo ciclo della lotta di classe, arrivare ad una risolutiva resa dei conti: «II 1969 è cominciato con Battipaglia, è continuato con corso Traiano, ma non si chiuderà certo con il 19 novembre!» 27. Con una drammatica sintonia al clima generale che sollecita il ripristino dell'ordine e accusa di sovversione tutta la nuova sinistra, il 19 novembre, in circostanze mai chiarite, la morte del giovane agente di polizia Annarum-ma. «Potere operaio» commenta: «I soli assassini sono i padroni [...] una morte che è conseguenza della violenza dello Stato, di quello Stato che dal 1947 al 1969 nei conflitti sociali ha prodotto 91 morti, 674 feriti e 80.000 fermati. Colpa di quello Stato che lascia che ogni mezz'ora muoia sul lavoro un operaio e consente 2.270 omicidi bianchi ogni anno». E conclude: «Tutti i momenti della vicenda, tutti i passaggi della violenza di via Larga, diventano comprensibili se si riesce a leggere il livello generale di classe, la quantità di insubordinazione e di volontà di lotta che circola oggi dentrola classe operaia» 28.
3. No alla tregua sociale
Nel frattempo scattano nei confronti di Potere operaio arresti e mandati di cattura, alla Fiat Rivalla e alla Mirafiori l'av-venturismo costa numerose denunce e la sospensione di alcuni operai, lo stesso accade a 5 operai della Dalmine accusati di blocco stradale, e all'Italcementi. Il 12 novembre a Pavia sono arrestati Lanfranco Bolis, Andrea Zunus, Cesare Maffioli, Siro Rejossi per violenza privata e lesioni nel corso del picchettaggio alla fabbrica Korting. Per gli scontri di Pisa sono arrestati Don-ca, Sabbietti, Giacomelli, Campani, Fantozzi. Contro la repressione il gruppo rivendica la libertà della lotta dura e violenta. Iniziano le latitanze, prime modeste anticipazioni di ben altre clandestinità. Per Potere operaio non ci sono dubbi, la campagna repressiva si intensificherà, per batterla bisogna rispondere colpo su colpo; bisogna «attaccare, l'unica e vera difesa è l'attacco, la vittoria ha un solo nome, l'orga-nizzazione». Potere operaio si sente circondato da una campagna di odio e vittima principale di una repressione contro cui la lotta deve farsi più dura e l'organizzazione permanente. Il 24 novembre, a Padova, è arrestato Francesco Tolin; il 26 novembre sono arrestati Mario Bianchi, Matteo Piacentino, Michele Zambroni, Romolo Bellisari operai milanesi militanti. I reati attribuiti al direttore di «Potere operaio» sono: apologià di reato, sequestro di persona, danneggiamento, resistenza alla forza pubblica; è accusato di «aver istigato gli operai di tut-t'Italia alla rivolta contro lo Stato ed in particolare gli operai metallurgici della Fiat di Torino a danneggiare le autovetture di detto complesso». Per Francesco Tolin arresto immediato e processo per direttissima in quanto, secondo il procuratore di Roma, le imputazioni: «appaiono di eccezionale gravita poiché dirette a fomentare disordine e a creare nel territorio nazionale un clima rivoluzionario». La IV sezione del Tribunale di Roma, pubblico ministero il giudice Occorsio, lo condanna a 17 mesi di carcere: «primo processo di regime, una sentenza da capitalismo maturo» commenta «Potere operaio». «Compagni, non rispettiamo la tregua!» con questo slogan il gruppo si accinge ad affrontare la fase postcontrattuale mentre «padroni, Stato e sindacati firmano accordi per i prossimi tré anni» 29. I risultati ottenuti sono «accordi» che non corrispondono alle esigenze operaie e quindi le lotte non sono chiuse: «La lotta operaia di questi mesi ha raggiunto vertici talmente alti che in questi contratti i padroni sono stati costretti a concedere più che negli altri contratti, ma ciò che ora è stato ottenuto è pochissimo in confronto all'intensità, la forza e l'invenzione della lotta operaia». Per Potere operaio le esigenze operaie non hanno limite, la classe con le sue lotte ha imposto un terreno più avanzato di scontro: distruggere definitivamente il comando del capitale sul lavoro produttivo. Sul giornale non e'è traccia dell'orrenda strage di piazza Fontana, ne della morte dell'anarchico Pinelli. Numerosi invece i richiami alla lotta dura, alla replica organizzata contro la repressione. Silenzio anche sugli insuccessi, anzi al contrario si tende a rappresentare il passaggio alla nuova fase politica, compresa la conclusione contrattuale come una vittoria della propria linea. L'asprezza della lotta ha costretto il sindacato a chiudere i contratti, i padroni a cedere più del previsto, lo Stato a iniziare la repressione. Il tutto per spostare nel tempo uno scontro ormai non più rinviabile: il passaggio alla lotta per il potere da parte della classe operaia. Eppure nel gruppo è in atto una riflessione, non mancano, come riportano alcune testimonianze dirette, segni di crisi. All'inizio del '70 i teorici del gruppo ripensano all'insieme di un'esperienza ormai decennale. «1960-1970 / Dalla guerriglia di fabbrica alla lotta per il potere» con questo titolo il giornale sintetizza il percorso compiuto. Una storia non dissimile da quella di altri militanti ma si sottolinea vi è una specificità nel «gruppo di compagni ― che si sono raccolti attorno a «Potere operaio» ― avere partecipato ai vari cicli di lotta secondo il «punto di vista della ricomposizione di classe». Da questa premessa si sono tratte volta per volta alcune conseguenze. In primo luogo il rifiuto delle vie nazionali al socialismo come forme teoriche desuete e impraticabili di fronte ali' unificazione politica del capitalismo a livello europeo. Ciò aveva significato il rifiuto della programmazione e la progressiva sottrazione della classe dai suoi «tutori, controllo-ri dei suoi movimenti», i sindacati e i partiti revisionisti. Superata, per tappe successive, l'illusione entrista nei partiti della sinistra tradizionale e nel sindacato, si era meglio definita una nuova identità dell'internazionalismo. E infine il sorgere del movimento studentesco aveva dimostrato la praticabilità di una nuova dimensione del conflitto anticapitalistico e il maggio francese, al di là del suo esito, confermata in modo inequivoco l'esistenza di una forza organizzata autonoma dalle vecchie tutele e pronta allo scontro risolutivo. Alle spalle ― dunque ― un decennio di lotte tese alla riunificazione e ricomposizione della classe; per il futuro: la lotta per il potere 30. Per tutto il mese di gennaio mentre, in conseguenza delle bombe di piazza Fontana, la repressione colpisce indiscriminatamente le varie formazioni dell'estremismo di sinistra, «Potere operaio» non esce nelle edicole. Dopo una parziale riflessione autocritica il gruppo è tutto proiettato sull organizzazione. Dalle lotte dell' autunno, dal loro svolgimento e dalle loro conclusioni secondo i leader di Potere operaio emerge un'indicazione prioritaria: «costruire l'organizzazione politica», ormai il lavoro di massa deve guardare al «partito», è questa la principale discriminante di classe. Per arginare striscianti spontaneismi ed emorragie, il gruppo si arrocca in una difesa a oltranza delle proprie teorizzazioni e, privilegiando «!' organizzazione come iniziativa esterna», passa a un impiego totale e quasi professionale dei suoi militanti. Puntando al rafforzamento organizzativo sconta il suo isolamento come un inevitabile tributo alla costruzione di un nucleo dirigente capace di egemonizzare e rilanciare le lotte estremizzando fino all'inverosimile tutti gli obiettivi politici. Una perenne rincorsa verso la disarticolazione del sistema. La svolta trova nel convegno di Firenze, 9-11 gennaio 1970, una parziale sistematizzazione. La discussione si incentra sulle proposte contenute nei Materiali per l'intervento politico pubblicati sul numero 11 di «Potere operaio». Essi sono presentati come una piattaforma per la fondazione e lo sviluppo dell'organiz-zazione operaia: «macchina politica, guidata dall'interesse complessivo operaio e predisposta alla distruzione dell organizzazione capitalista». Nelle intenzioni dei proponenti si tratta di un approfondimento coerente del percorso politico-teorico di un decennio di lotte. Il punto a cui è giunto lo scontro di classe, secondo il gruppo, impone ormai una brusca accelerazione di fase: dalla «guerriglia di fabbrica alla lotta per il potere». Le linee teoriche riecheggiano, attualizzandoli, temi già presenti nelle prime elaborazioni del gruppo veneto-emiliano e ampiamente riprese sulle pagine del giornale: lo Stato come piano e padrone-collettivo; il sindacato come istituzione del piano; il rifiuto del lavoro salariato; l'organizzazione operaia come strumento della distruzione capitalistica. Il salto di qualità invece si coglie sul tema dell'organizzazione. Conquista dell'organizzazione e dittatura operaia è il titolo di una delle relazioni di base. Gli ex de «La Classe» e i quadri provenienti dal movimento studentesco convergono su una medesima ipotesi di centralizzazione nazionale. I due punti concettuali che consentono questa temporanea unificazione sono il rifiuto del lavoro e la finalizzazione dell'organizzazione come strumento per «la conquista e la distruzione dello stato». Come si vedrà la mediazione non sarà definitiva, ne l'approccio alle forme dell'organizzazione lineare. Al di là delle autoproclamazioni sulla propria forza, Potere operaio, come i marxisti-leninisti dell'Unione, è attraversato da una profonda crisi di identità. La sconfitta è stata subita nelle fabbriche, nel confronto con la classe operaia, da sempre il terreno privilegiato del gruppo. E una sconfitta che incrina la solidità interna e che riduce una certa egemonia esercitata nei confronti della nebulosa dell'estremismo. Il barricadero «Compagni non rispettiamo la tregua!», titolo con cui il giornale era uscito dopo le conclusioni contrattuali 31 sarà presto rivisto, al convegno di Firenze si afferma autocriticamente: «riprendere subito la lotta, lottare continuamente sono le parole d'ordine più stupide che oggi si possono diffondere» 32. Spariti gli entusiasmi sul grado di consapevolezza rivoluzionaria della classe operaia, prevale l'idea di un suo ripiegamento difensivo. Agli insuccessi subiti davanti alle fabbriche si aggiunge il clima indotto dalla strategia della tensione. Con una proiezione teorica frequente nella storia del gruppismo l'a-naiisi dei comportamenti di classe e della situazione politica deriva unicamente dal proprio stato organizzativo. Alla crisi si risponde alzando il livello di scontro, agli interrogativi che nascono dal dopo contratti si replica risaldando la compattezza dei militanti, alla strategia della tensione e alla repressione, liquidate come effetto e conseguenza della tregua sindacale, si contrappone l'esigenza di una più combattiva insubordinazione allo Stato. Presentandosi come gruppo, alla vigilia delle lotte contrattuali, Potere operaio non aveva risparmiato critiche alle altre formazioni dell'estremismo. I militanti dell'Unione dei comunisti erano stati bollati come «pagliacci» e «provocatori squadristi» fino ad affermare che «organizzazioni di questo tipo sono nuclei di resistenza della borghesia, associazioni di nemici di classe, e come tali vanno perseguiti». La presenza di Lotta continua diretta antagonista di Potere operaio è ignorata fino al marzo '70 quando viene denunciato Marco Bellocchio, allora direttore del giornale. Durissimo è il primo giudizio sul Manifesto: la sua linea è etichettata come «neo-trotskismo-cinesizzante» e si aggiunge con disprezzo: «a un gruppo di intellettuali può essere concesso tutto. In fondo, sono "sinistra per bene anche loro", con tutta la loro ideologia sovietista, la loro Luxemburg e il loro Lenin da casa editrice, fanno parte deVestahilishement, sono amici di Lombardi, di Labor e di Scalfari». L'ondata repressiva che segue alle bombe di piazza Fontana, attenua parzialmente il settarismo del gruppo; bisogna trovare alleanze, estendere il fronte di lotta. Uno strano connubio si realizza con le tematiche marxiste-leniniste. L'Unione è entrata in crisi, il Pcd'I non esiste, tuttavia queste formazioni hanno rappresentato, particolarmente la prima, un livello organizzativo e un tentativo di centralizzazione che attrae Potere operaio. L'errore dei marxisti-leninisti è stato l'esasperato soggettivismo nell'approccio al partito, a ciò si è aggiunto lo scarso confronto con le lotte che ne ha accentuato l'ideologismo. Superando questi limiti sarà possibile coniugare la forza dell'autonomia operaia con le regole del partito. Nel clima confusionale dei primi mesi del '70 Potere operaio, dichiarando conclusa l'epoca dei gruppi, sembra disponibile a lanciarsi in un progetto unitario della sinistra extraparlamentare al di fuori dell'egemonia revisionista. Rimarrà un'intenzione, a poco serviranno alcuni tentativi, prigioniero del dogmatismo e dell' autoconvinzione delle proprie verità, il gruppo non riuscirà a trarre tutte le implicazioni dalle sue stesse affermazioni. Nella vita interna si punta alla disciplina e alla centralizzazione senza alcun serio ripensamento della linea e in un tattico repechage di motivi dell'estremismo. Le stesse aperture nei confronti delle altre formazioni finiscono così con l'assumere un carattere strumentale, funzionali solo a rompere il proprio isolamento. In questo quadro si realizzerà il temporaneo incontro col Manifesto attraverso la formazione di alcuni comitati politici, una sperimentazione che, passando per il convegno unitario del febbraio '71, entrerà definitivamente in crisi nell'inverno del '72. Un fallimento, caso tipico i comitati politici del Policlinico e dell' Enel di Roma, da cui si origineranno successivamente le prime basi dell'Autonomia organizzata. Quando il giornale riprende le pubblicazioni l'attenzione si concentra sulle nuove lotte operaie e sulla necessità, peraltro già annunciata, di riprendere i rapporti col movimento studentesco. Sul n. 12 appare il documento Contro la scuola, il primo di una serie di materiali che saranno prodotti dalla commissione scuola del gruppo. Le linee d'intervento ripropongono il vecchio schema: solo attraverso una forte radicalizzazione è possibile contrastare i tentativi padronali di «staccare la lotta studentesca da un impatto generale, complessivo sulla macchina statuale» 33. Da questa impostazione la dura polemica con il Movimento studentesco milanese, capeggiato da Mario Capanna, accusato di essere un «rinnegato» e di volere costruire un movimento di natura meramente settoriale del tutto organico al revisionismo e al capitalismo. Intanto nel settore tessile riprendono le lotte. Potere operaio si presenta all'appuntamento con la parola d'ordine «riduzione dell'orario di lavoro-salario per tutti». Proseguendo nella critica al capitalismo e al progetto di controllo sociale della sinistra tradizionale, contro «un futuro governo popolare, un prossimo stato sociale», il gruppo prospetta «un' organizzazione autonoma operaia che imponga un'unificazione del reddito sociale» 34. Unico risultato: un sovversivismo autoalimentato che cresce su se stesso in una spirale di estetismo rivoluzionario. In tutta l'elaborazione di Potere operaio il tema della ricomposizione di classe ha un ruolo decisivo, in questa ottica si colloca l'impegno verso il Sud e nei confronti dell emigrazione. Agli emigrati ci si rivolge in più occasioni. «Organizziamoci per lottare contro 1 emigrazione, per potere vivere dove ci pare, per non essere ridotti a cani randagi...» così comincia il volantino pubblicato nel numero 17 del giornale. Iniziative sono intraprese in concomitanza del voto del giugno '70; nell'agosto a Firenze e nell'autunno dello stesso anno a Zurigo si svolgono due convegni internazionali. Ma, riconoscono gli stessi organizzatori, la discussione registra divergenze e gli obiettivi restano nel vago. Nell'ambito delle indicazioni scaturite dal convegno di Firenze, l'impegno sul Meridione è una condizione indispensabile per preparare quella che viene indicata come «una scadenza generale di lotta politica operaia», in quanto: «rompere oggi l'uso capitalistico del sottosviluppo nel Sud, significa porre le condizioni della rottura dell'uso capitalistico della crisi nel Nord». Il collettivo Sud, impegnato nel Mezzogiorno e con prolungamenti organizzativi nel centro industriale di Porto Torres, poggia le sue attività su alcune direttrici chiave: le università; i problemi operai e la marginalità sociale. Stabilisce rapporti con il circolo Lenin operante in Puglia e dopo una fìtta serie di incontri arriverà alla prima conferenza delle avanguardie operaie bracciantili del Sud. L'editoriale che lancia la conferenza è molto esplicito sulle finalità politiche che si intende perseguire: «passare dalla spontaneità ali'identificazione di una nuova organizzazione», nella consapevolezza che «usciti dalla miseria dell'ideologia contadina dal deserto assoluto in fatto di proposte politico-pratiche nuove, i compagni del Sud, il movimento, i gruppi, 1 enorme potenziale soggettivo disseminato nelle fabbriche, nelle zone bracciantili, nei paesi, nelle grandi università meridionali, nelle scuole, chiedono di potersi mettere al lavoro sulla base di una ipotesi completamente nuova» 35. Sono le premesse dell'atteggiamento di Potere operaio di fronte alla rivolta di Reggio. La prima conferenza d organizzazione del Sud, che si svolge a Napoli il 25 aprile 1970, si apre all'insegna dello slogan «salario politico generalizzato» in un'ipotesi generale di «ricomposizione di massa intorno a un ruolo di dirczione e di organizzazione che il punto di vista operaio viene ad assumere dentro l'intera composizione del proletariato meridionale» 36. Nella consapevolezza di essere in ritardo sia sul piano del-l'elaborazione che sul piano dell'organizzazione, l'obiettivo di Potere operaio è stabilire non tanto condizioni di «egemonia di linea» quanto una «premessa» per l'intervento politico, superare quello che viene chiamato «il deserto della teoria» nel Sud. Un limite che Potere operaio riscontra in tutti i gruppi e che può essere rovesciato a patto di essere «dentro» le situazioni di lotta in maniera organizzata «costruire le lotte, ripercorrere la composizione di classe, inseguire puntualmente le iniziative del capitale tracciare i contorni delle esperienze politiche che sono state compiute...»37. Il 1° maggio mentre nel paese si sta svolgendo la campagna elettorale per le prime elezioni dei consigli regionali, la parola d'ordine con cui ci si presenta alle manifestazioni è: «assalto proletario alla ricchezza». Tuttavia il progetto organizzativo lanciato a Firenze non fa sostanziali passi in avanti. Cadono nel vuoto le proposte dei centri di organizzazione territoriale e dei coordinamenti regionali. Attraverso il giornale il circolo operaio di Limbiate lancia una «proposta unitaria alle avanguardie operaie di fabbrica», in contrapposizione ai consigli di fabbrica prospettati dalle federazioni metalmeccaniche invita a costruire «organi autonomi del sindacato, un nucleo di iniziativa politica autonoma e capace di rappresentare non gli operai del singolo reparto ma tutti gli interessi di classe». Partendo dalla propria esperienza propone inoltre la generalizzazione dei «circoli operai territoriali». Anche questa indicazione cadrà nel vuoto e lo stesso circolo di Limbiate cesserà presto la propria vita organizzata. Anche gli ipotizzati coordinamenti regionali si manifestano di scarsa efficacia. Nel Veneto, punto di forza del gruppo, la conferenza che si svolge a Padova il 2 maggio del 1970, sostituisce il collettivo regionale con una struttura più fluida articolata per commissioni (stampa, intervento, scuola e quadri). Alle difficoltà organizzative Potere operaio risponde consolidando le sue strutture nelle realtà più significative. Nasce così la conferenza d'organizzazione alla Fiat-Torino. I punti in discussione sono: congiuntura internazionale e ristrutturazione del ciclo Fiat, attacco operaio sul salario alla Fiat, coordinamento degli obiettivi d'intervento e modelli di intervento. AU'iniziativa di Torino segue il convegno promosso dal comitato operaio di Porto Marghera. Di fronte alle elezioni regionali del giugno '70 il gruppo ribadisce la sua indifferenza istituzionale; «dalle urne esce sempre il potere dei padroni». All'indomani del voto, a conferma delle proprie posizioni, sottolinea «la disfatta del Psiup e il ristagno del Pci». In estate riprendono le lotte. La prima occasione politica è l'offensiva contro il decretone. Si guarda con un certo interesse ali'ostruzionismo del Manifesto, ma si è consapevoli che il proprio compito è altro: «Scatenare il boicottaggio parlamentare, la violenza di classe e l'agitazione nelle fabbriche e nelle scuole, comprendere tutto questo in un progetto politico per la ricostruzione dell'organizzazione rivoluzionaria...»38. Seguono nel luglio le agitazioni alla Fiat-Mirafiori. Ad agosto le direttive sindacali sono scavalcate, le lotte si inaspriscono: picchetti, blocchi stradali, bottiglie molotov, barricate nei quartieri adiacenti il Petrolchimico. Potere operaio è alla testa degli scontri. Intanto al Sud prosegue la rivolta di Reggio, «Potere operaio» commenta: «il punto più alto della rivolta proletaria del Sud». Come per altri gruppi, nelle trasmigrazioni cicliche del popolo dell'estremismo, numerosi militanti di Potere operaio calano al Sud, si spostano alla ricerca della rivoluzione.
4. La guerriglia di fabbrica è troppo-troppo poco
Potere operaio insiste sempre di più nella proposta «del passaggio dalla autonomia all'organizzazione, dalla lotta sul terreno economico-rivendicativo, a una lotta apertamente politica sul terreno del potere». Nelle teorizzazioni del gruppo si tratta di un passaggio imposto dalla natura della crisi, per frenare l'in-sidia della normalizzazione e della svolta moderata, per mantenere «il punto di vista operaio all'offensiva», contro ogni tesi omologante di impostazione revisionista. La seconda conferenza d'organizzazione di Bologna (5-6 settembre 1970), non registra sostanziali novità di linea. Nel dibattito si ribadisce l'urgenza di organizzare il processo rivoluzionario e quindi del «partito dell'insurrezione» da cui deriva, nelle intenzioni del gruppo, una nuova pratica di massa da proporre al movimento, determinando un «programma di unificazione di tutti i proletari su un livello di scontro di potere». Terreno di questo progetto è il «salario politico» inteso come capacità del proletariato di liberarsi dal ricatto del lavoro «una lotta non per il lavoro, ma per il reddito, per il reddito sganciato dal lavoro». Nuove, invece, le aperture nei confronti dell'insieme del sinistrismo, in particolare la proposta di collaborazione col Manifesto, una premessa per una più ampia aggregazione della sinistra rivoluzionaria. Il Manifesto si è distinto nell'ostruzionismo parlamentare al decretone del governo Colombo, nelle sue tesi — apparse nel settembre del '70 — si fanno molti riferimenti alla cultura dellbperaismo e al tema del rifiuto del lavoro, non manca neppure il richiamo alla guerra civile. Peraltro tutto il clima spinge alla radicalizzazione dello scontro. Potere operaio è in piazza con gli altri gruppi contro la politica economica del governo, contro il fascismo. Si profilano ali orizzonte le prime azioni terroristiche, già nell'autunno '70 appare il programma dei Gap milanesi. Alla ripresa autunnale del '70 Potere operaio gioca la sua carta organizzativa sui Comitati politici in fabbrica. Ma se si escludono le realtà di Torino e Porto Marghera, la proposta non avanza. Il massimalismo non paga, agli operai sfugge il cifrato linguaggio dell'operaismo, lo sciopero proclamato per il 1° settembre alla Mirafìori è un totale fallimento. Ma Potere operaio senza mettere mai in discussione la sua analisi insiste: formare il «comitato Fiat da Mirafìori a Rivalla»; non ha alcun dubbio: «il livello politico raggiunto dai quadri operai rende oggi reale e particabile quella dirczione operaia dell'intervento organizzativo che era stata l'ipotesi sulla quale era nato il comitato operaio» w. Di fronte al contrattacco di un padronato che assume soggettivamente la crisi che gli operai gli hanno imposto e la usa come sua arma politica non bastano più gli obiettivi dell'auto-nomia. Non si può andare ai cancelli delle fabbriche senza farsi portatori di una proposta di blocco politico e di nuovi strumenti di lotta altrimenti «la proposta non riesce a "mordere", a orien-tarc la volontà di lotta degli operai». Partendo da questa difficoltà la risposta non è quella di rivedere i propri obiettivi, ma di «riqualificare l'iniziativa organizzativa». Potere operaio cerca una maggiore unità con le altre formazioni estremistiche, precisa ulteriormente il rapporto col Manifesto e lancia un ponte verso Lotta continua, gruppo sempre più presente nelle lotte e con una forte capacità egemonica nelle manifestazioni di piazza. La segreteria nazionale di Potere operaio propone alla discussione dei suoi militanti l'opuscolo Alle avanguardie per il partito. Affrontando le condizioni del possibile incontro con i compagni del Manifesto pur richiamandosi alle diversità teoriche e di percorso politico si afferma che essi «dimostrano nei confronti dell'aggregazione un atteggiamento aperto, stimolante e fruttuoso di esperienze comuni e di chiarimenti non superficiali». Apprezzamenti e disponibilità anche nei confronti di Lotta continua: «...ci sembra avviato un processo di superamento di quella ambigua definizione organizzativa (Lotta continua è l'organizzazione rivoluzionaria/Lotta continua è il movimento), di quella chiusura settaria nei confronti delle forze organizzate della sinistra operaia, alla quale faceva riscontro una acritica e trionfalistica subordinazione nei confronti del movimento». Nel documento i due gruppi vengono considerati interlocutori privilegiati in un processo «per l'unificazione delle avanguardie» 40. Potere operaio cerca di uscire dall'isolamento ma non rinuncia al partito anzi ne ribadisce l'essenzialità come «organizzazione tecnica dell'attacco» e vede nei comitati politici, una sintesi di iniziativa di massa e di dirczione, un primo embrione delle tappe della costruzione del partito. Non ci sarà un grande futuro nei rapporti con le altre formazioni. Peraltro mentre Potere operaio, quasi una rimozione da ogni indagine sul fallimento della sua pratica politica, cerca una via verso il partito, l'emorragia dei gruppi prosegue. Parallelamente nascono forme autonome di cultura underground, che si raccolgono attorno a «Rè Nudo», «UBU», riviste di contro cultura prive di un vero e proprio progetto politico ma significative nel processo di dissoluzione dell'estremismo «storico». Nel contempo prende corpo la nebulosa dell' autonomia. Su un altro versante, ma, non senza influssi reciproci, l'esperienza del Collettivo metropolitano di Milano si consuma rapidamente con-vertendosi prima nella rivista «Sinistra proletaria» e approdando, nell'enfasi del mito guerrigliero, alla pratica armata delle prime azioni terroristiche. Quando si avrà la consapevolezza degli effetti della spirale repressione-clandestinità-lotta armata per molti militanti sarà già tardi, per alcuni prevarrà la rimozione, per altri le forme del terrorismo saranno scelte ineludibili e intenzionalmente predeterminate. Il convegno nazionale operaio, promosso congiuntamente dal Manifesto e da Potere operaio, che si svolge a Milano nei giorni 30 e 31 gennaio '71 si conclude con una scarna mozione. «Il Manifesto» la ignora. Il documento parla di un programma comune immediato ma il dibattito ha lasciato inalterate le rispettive posizioni. Il principale contrasto riguarda la funzione dei Comitati politici. Al convegno, Massimo Serafini per il Manifesto li rappresenta in un'ottica tutta consiliare, mentre Magnaghi per Potere operaio li definisce: una struttura politica «di direzione, coordinamento e unificazione politicamente armata, tecnicamente e militarmente organizzata»41. Anche sul piano organizzativo il convegno milanese è ben poca cosa: i comitati politici presenti sono quelli di sempre: Porto Marghera e Torino a cui si è aggiunto quello di Porto Tor-res. Le loro pratiche concrete sono molto lontane dalle prospettazioni di Serafini e di Magnaghi. A Torino, dopo il fallimento della proclamazione dello sciopero, la situazione precipita. Di lì a poco il comitato politico si scioglierà nell' Assemblea operaia autonoma di fatto egemonizzata da Lotta continua 42. A Potere operaio non rimane che Porto Magherà, il suo storico fiore all'occhiello, «unico esempio in Italia di organismo in cui la di-rezione politica del processo di formazione dell'avanguardia è in mano operaia». Ma anche al Petrolchimico si manifestano debolezze nell'iniziativa e nella tenuta del gruppo. Nel frattempo i comitati politici che vanno realizzandosi unitariamente col Manifesto, si trascinano stancamente, irretiti da una polemica interna su cui pesano le matrici delle due formazioni di origine e le divisioni sulle finalità. Se i teorici delle rispettive organizzazioni sottolineano le rispettive specificità in un'estenuante disputa ideologizzante, la pratica tende a vanificare ogni differenza, l'altalena dei distinguo produce solo sfiducia nella possibilità di un processo unitario, fastidio dei militanti di base. In concomitanza con le difficoltà dell'incontro Manifesto-Potere operaio a Padova si costituisce un comitato politico organizzato in tré settori di intervento: scuole, fabbriche e quartieri. La sua presenza si avverte nelle manifestazioni studentesche del febbraio-marzo e, dopo brevi occupazioni a scacchiera in varie facoltà, nelloccupazione di Chimica. In fabbrica stenta a riprendere corpo l'azione politica e di lotta. L egemonia di Potere operaio è contestata, il suo ambizioso disegno organizzativo rimane evanescente. Inizia la rincorsa con le altre epressioni del sinistrismo sul terreno della radicalizzazione dello scontro. Inizia una pericolosa emulazione con Lotta continua, con torbide attenzioni alle manifestazioni più «coerentemente» rivoluzionarie. L'antifascismo militante è il viscido piano inclinato di questa concorrenza. «Potere operaio», in analogia con quanto appare su «Lotta continua» pubblica un «bollettino politico-militare delle lotte: due mesi di antifascismo militante». Intanto .il giornale si trasforma in quindicinale e nei suoi articoli, segno degli inquietanti interrogativi che si fanno strada nei dirigenti del gruppo, insiste nel sollecitare «forme di lotte adeguate» al-l'asprezza dello scontro sociale, della repressione, e del fascismo. Non riuscendo a prospettare una soluzione alla sua crisi interna il comitato politico tende a sciogliersi nell' autonomia e l'attivo del 12 marzo a Torino finisce con la semplificatoria quanto minacciosa parola d'ordine «armare i comitati politici». Progressivamente si interrompe ogni ricerca di rapporto col Manifesto. Il convegno unitario non ha risolto i contrasti e le aperture del gruppo di Magri si sono dimostrate del tutto inadeguate. Lo stesso Magri dovrà tornare sulle sue posizioni ammettendo, nella tempestosità degli eventi che caratterizzeranno la fase più acuta della strategia della tensione e di fronte alle involuzioni militaristiche di Potere operaio, l'inconciliabilità fra le due organizzazioni denunciando al tempo stesso i rischi a cui è sottoposta la nebulosa dell'estremismo. Snodi decisivi nell'accelerazione verso un militarismo pre-insurrezionale, per Potere operaio come per l'insieme del gruppismo post-sessantottesco, sono il laboratorio milanese del Comitato nazionale di lotta contro la strage e su un altro versante l'atipicità della rivolta di Reggio, eventi non separabili dalla spirale di violenza e di neofascismo che si scatena nel paese. Difficoltà organizzative e crisi politica mai apertamente dichiarate si riflettono nel dibattito ai vertici di Potere operaio. Toni Negri e Franco Piperno, personificano le principali divergenze: è quest'ultimo che in varie occasioni accusa il leader padovano di «ambiguità politica» rispetto al problema dell'orga-nizzazione. Se a Bologna, nel settembre '70, il partito dell'insurrezione era stato appena evocato ora il dibattito si fa più stringente. Nelle astrattezze che caratterizzano gli avvitamenti del pensiero estremistico il fallimento politico non è da ricercarsi nelle teorie quanto nelle coerenze e dunque il problema si sposta sulla reale praticabilità del partito dell'insurrezione, sulle sue caratteristiche, sul suo grado di clandestinizzazione e sulla sua capacità di rimanere interno alle varie situazioni di massa. Alle difficoltà organizzative si aggiungono quelle finanziarie, il giornale rallenta le pubblicazioni. Alla ricerca di un rapporto con le forze più «rivoluzionarie» iniziano i contatti con le formazioni armate clandestine dei Gap e delle Br. Alla fine dell'aprile '71 il quindicinale del gruppo pubblica integralmente La dichiarazione politica dei gruppi di azione parti-giana e un primo documento delle Br n. La «guerriglia di fabbrica è troppo-troppo poco» occorre andare oltre. Il giornale presenta i due documenti come contributi al problema dell' «organizzazione della violenza» nella prospettiva di un'autentica strategia della rivoluzione comunista. Sullo stesso numero un' intera pagina è dedicata a citazioni tratte da Lenin sul tema della violenza e sulla lotta armata. Correda le affermazioni teo-riche una puntigliosa rassegna di possibili situazioni della lotta armata «condotta da singoli individui o da piccoli gruppi di individui». Un repertorio in cui figurano 1 esproprio e la confisca di danaro per «la necessità del partito, parzialmente per l'arma-mento e per la preparazione dell'insurrezione», il tutto illuminato dal principio-obbligo per i marxisti, nell epoca della guerra civile, di costruire il partito combattente. Il tema dell'insurrezione prende il sopravvento su tutte le analisi e partendo da esso si definiscono i nuovi compiti politici. All'assemblea autonoma di Torino si afferma: «dalla città fabbrica alla città insurrezione»; nel corso delle occupazioni delle case a Roma: «nella cintura rossa nasce il partito dell'insurrezione». Nella primavera-estate ancora un' escalation nelle lotte di piazza, le tecniche d'as-salto si fanno più sofisticate. La prima «giornata nazionale delle avanguardie della classe operaia e della sinistra rivoluzionaria» si conclude a Torino, Genova, Milano, con numerosi militanti piazza. Insieme a Potere operaio gli altri gruppi, solo a Roma Potere operaio non aderisce alla manifestazione. Nella capitale il gruppo si cimenta nelle occupazioni di case nei quartieri di Casal Bruciato e della Magliana. Lotte sociali, di fabbrica e di piazza spesso gestite, non senza polemiche, insieme a Lotta continua. Il 29 maggio a Torino: la guerriglia urbana. «Potere operaio» la definisce orgogliosamente «la battaglia di Torino» dalla «Fiat - un corteo armato di seimila operai».
5. Per il partito, per l'insurrezione, per il comunismo
A partire dalla fine del 1971 Potere operaio è investito in modo irreversibile dai temi dell'organizzazione clandestina, assetto essenziale per il passaggio al «partito dell'insurrezione» e a quella militarizzazione lanciata pubblicamente nella III conferenza di organizzazione di Roma del settembre. Le strutture dirigenti del gruppo mantengono contatti alterni con l'editore Feltrinelli da tempo entrato in clandestinità. In questo periodo di transizione, secondo le dichiarazioni del pentito Carlo Fioroni a cui fu attribuito dallo stesso Negri il compito di tenere i rapporti fra l'editore e Potere operaio, si sviluppa una discussione sulle possibili convergenze operative. Feltrinelli riferendosi a questi approcci scriverà, nell'ottobre '71, a «Saetta» nome di battaglia attribuito a Franco Piperno: «Abbiamo parlato di complementarietà delle nostre forze a Milano, dell'auspicabilità di un processo di avvicinamento, di integrazione e di coordinamento tanto sul piano operativo, quanto su quello logistico e politico» 44. Proseguendo lamenta la genericità del colloquio e il fatto che la sua proposta di costruire a livello milanese e di Alta Italia una sorta di «stato maggiore» della lotta armata sia caduta nel vuoto. Respinta l'idea di una mera confluenza organizzativa, avanza l'ipotesi di una reale integrazione o altrimenti di intervenire con strutture militari differenziate sia pure complementari. La discussione procederà senza trovare un'organica composizione. Tra i gruppi di azione partigiana di Feltrinelli e Potere operaio sono troppe le differenze di origine e di impostazione. In quello stesso periodo le Brigate rosse approdano al loro primo documento teorico, concludendo così il percorso che dal Comitato metropolitano passando per Sinistra proletaria arriva alla proliferazione di una più estesa rete logistica del terrorismo. Inizia allora la nazionalizzazione di un vero e proprio assetto illegale e la tessitura di una trama di contatti fra i vari raggruppamenti dell'eversione. In concomitanza con il III convegno d'organizzazione, il 26 settembre '71 si svolge, sempre a Roma, una conferenza stampa a cui partecipano Negri, Scalzone, Piperno. In merito a essa e ai lavori del convegno, Franco Piperno, sarà successivamente interrogato dalla magistratura. In quell occasione a nome del gruppo, egli si dichiarerà contrario a ogni azione violenta e accuserà gli interlocutori di aver frainteso lo spirito del dibattito e le sue indicazioni. Si pensò allora ad affermazioni verbali, evocazioni rivoluzionarie interne al clima di quegli anni, e non ci fu nessuna azione penale. La magistratura di Roma dovrà ricredersi, al momento del procedimento penale contro Achille Lollo, Marino davo e Manlio Grillo, militanti di Potere operaio, incriminati per la strage di Primavalle. Nell'ordinanza a giudizio si legge: «Non si può sottacere l'indubbia influenza che ebbe sugli imputati l'avventurismo politico di taluni esponenti di Potere operaio, con la parossistica esaltazione della violenza contro le istituzioni e le persone e il ricorso allodio, niente affatto infrequenti nelle pubblicazioni edite a cura del movimento. La violenza opera contro i capi e i dirigenti; il livore verso la costituzione, le organizzazioni politiche popolari, i sindacati; il partito armato; l'insurrezione sono concetti più volte esposti in tali pubblicazioni. Ne risulta che i su accennati leader abbiano sostanzialmente rigettato l'accusa di propensione al terrorismo, loro mosso dopo la III Conferenza settembre '71, la quale teorizzò la «militanza del gruppo, con un'impostazione teorica di azioni provocatorie e di ribellione». Risulta ormai acquisito da un' ampia documentazione testimoniale, da appunti ritrovati in varie perquisizioni e dai materiali dei diversi procedimenti per terrorismo, che con la conferenza di Roma prende avvio quel primo livello di Lavoro illegale diretto sul piano politico da Franco Piperno e Valerio Morucci e militarmente da Carlo Fioroni e Emilio Vesce. I fatti di Milano, la guerriglia provocata in occasione del 12 dicembre, decretano fra molte polemiche interne lo scioglimento di Lavoro illegale sostituito, sempre sotto la dirczione di Morucci e Piperno, dal Fronte armato rivoluzionario operaio che firmerà nel marzo '72 alcuni attentati. La macchina organizzativa ormai funziona da vero e proprio partito, al vertice la segreteria nazionale che si avvale di una rete di militanti a tempo pieno. Punto cardine dell'involuzione militaristica di Potere operaio, dunque, la III conferenza dbrganizzazione che si svolge a Roma dal 24 a 26 settembre del '71, che lancia i trionfalistici, quanto farneticanti nella loro presunta attualità, slogan: «Per il partito, per l'insurrezione, per il comunismo». Fra i materiali preparatori, pubblicati nel supplemento al n. 45 del mensile «Potere operaio», figura Crisi dello Stato-piano, comunismo e organizzazione rivoluzionaria di Toni Negri. Partendo dalla nuova figura dell'«operaio di massa», quale si è affermato nello sviluppo delle lotte operaie della seconda metà degli anni sessanta, prospetta un progetto di «insurrezione» che esce definitivamente dalla tradizione classica del marxismo. Nella postilla all'edi-zione di Crisi dello Stato piano Negri sarà ancora più esplicito occorre tradurre in proposta di organizzazione quello che definisce «l'interesse operaio alla sovversione». «Si tratta di nuovo di porsi il problema di ciò che è mutato dentro la classe operaia, si tratta di comprendere le conseguenze che la tendenziale caduta della barriera storica del valore determina nella composizione politica della classe operaia stessa». In particolare: «va messa in atto una analisi che ne colga il nuovo essere, la nuova struttura dei bisogni determinata dall'essere proletario nella Zivilisation del capitale» 45. Nella conflittualità dinamica fra «spontaneità operaia» e «provocazioni del comando capitalistico», la nuova teoria dell organizzazione non è separabile da una nuova teoria dell'insurrezione come levitatrice del comunismo. Insurrezione e non rivoluzione, precisa Negri, in quanto «la rivoluzione è la ricomposizione di un processo che ha con la sua forza distrutto un intero apparato di potere» al contrario interessa «battere continuamente l'iniziativa puntuale che il capitale opera per la rottura del fronte proletario unificato» 46. Si è logorato, anche se ancora non definitivamente troncato il tentativo di raccordo col Manifesto. I riferimenti operaisti appaiono qualcosa di lontano nel tempo, la stessa composizione del gruppo si è profondamente modificata, vi sono confluiti marxisti-leninisti, studenti medi, sottoproletariato urbano. I fallimenti registrati su quello che era considerato un terreno privilegiato del gruppo, cioè la fabbrica, hanno portato a una chiusura dogmatica e a un rigorismo di tipo militaresco: un centralismo che già sfiora la clandestinità. Partito, insurrezione, comunismo, vengono considerate questioni ormai ali' ordine del giorno. E la logica del catastrofismo. Schematizzando, il ragionamento è il seguente: nelle lotte si è espressa una forte combattività, contro di essa si è scatenata la reazione, si sono quindi messe in moto tutte le condizioni per un processo rivoluzionario. Ad una dirczione realmente rivoluzionaria non spetta altro che aggravare la conflittualità rendendo possibile e definitivo l'impatto frontale con lo stato del capitalismo: lo scontro finale. L'idealizzazione dell'economicismo operaistico, che esaspera alcuni connotati del neo-hegelismo della seconda metà degli anni sessanta, ha bisogno di una rilegittimazione storica, esigenza che spinge il gruppo a riformulare, attualizzandoli, gli elementi fondamentali che sono all'orgine della propria esperienza e della sua evoluzione. Tornando al processo apertosi con il centro-sinistra si afferma: «... di fronte a questo tipo di contrattacco generale, di rilancio capitalistico, lo schema della III Internazionale — schema classico basato su un' ipotesi di crollo,di crisi dell'economia capitalistica su cui intervenire portando dentro un programma di potere capace di egemonizzare l'intera stratificazione proletaria — potremmo dire "tutto il popolo" intorno alla classe operaia va in crisi. Questo tipo di ipotesi, — cioè dell organizzazione comunista che impersona le ragioni dello sviluppo contro la crisi capitalistica e che su questo riesce ad egemonizzare realmente la maggioranza del proletariato — questa ipotesi veniva a cadere. I militanti comunisti, i militanti rivoluzionari in quegli anni non vedevano più la possibilità di giocare su una crisi "spontanea" e catastrofica del capitalismo come quella che si era data in Russia, come quella che si era data in Cina; crisi di proporzioni spaventose che arrivano al punto limite della guerra impcrialistica. Sembrava di trovarsi di fronte a un capitale potentissimo, imbattibile, che appena scopriva una contraddizione era subito capace di saturarla, di sanarla; cioè che appena una contraddizione si rilevava — e contraddizioni ce n'erano di formidabili — era capace di spostarla su un livello più alto, e comunque di riuscire a tamponare le cose in modo che non si desse uno scoppio di violenza tale da compromettere l'equilibrio del potere. E d'altra parte la vecchia, tradizionale tematica della III Internazionale — tematica leninista peraltro — dell'organizzazione comunista che impugna la bandiera della lotta politica come lotta per lo sviluppo estremo della democrazia; anche questa sembrava ormai uno strumento inservibile, perché lo Stato si presentava come Stato pianificato e democratico, addirittura con caratteristiche "socialiste"»47. Polemizzando con altri settori della «sinistra di classe» afferma che non si può interpretare la crisi secondo vecchi schemi, ormai obsoleti, continuando a immaginarsela come una ripetizione del '29, come una crisi catastrofica, baloccandosi nello stabilire se essa sia sovrastrutturale o strutturale; al contrario, secondo il gruppo di Piperno, Scalzone, Negri, la crisi deve intendersi come blocco dell'iniziativa capitalistica: «Crisi è la necessità a cui è inchiodato il capitale, e al tempo stesso la volontà politica di parte capitalistica di bloccare, di arrestare lo sviluppo, di pagare questo scotto pur di riprendere il controllo e il dominio sulla classe operaia e sull'intera società, pur di portare avanti un processo di "normalizzazione" sociale, quindi crisi è necessità e volontà politica di bloccare il riformismo come capacità di assecondare le richieste operaie». E inevitabile dunque che la difficile situazione comporti anche una: «crisi della lotta di fabbrica, crisi dell'autonomia operaia, crisi della spontaneità della lotta operaia; proprio perché la crisi è il colpo specifico piazzato dal nemico di classe, proprio perché è la risposta specifica al progetto rivoluzionario che noi portiamo avanti, proprio perché è la capacità di render vana, di svuotare di contenuto, di spuntare quest'arma formidabile che abbiamo conosciuto negli anni dello sviluppo, che era la lotta offensiva che ha procurato tanti guai e tanti danni al padrone» 48. Di fronte a questa forza del capitale, a questo trionfo del riformismo, non ce altra strada che porre la questione dell'at-tualità della rivoluzione nel capitalismo avanzato. Nell'ideologizzazione di questo passaggio teorico si radica il pessimismo nichilistico che attanaglia il gruppo, un pessimismo che trova una delle sue massime espressioni nel pensiero filosofìco del principale leader del gruppo Toni Negri, e che lo porterà dalle originarie matrici operaiste, al di là delle sentenze giudiziarie e delle oggettive responsabilità, all'approdo del partito armato. Accecati dalle declaratorie sulla necessità di una strategia rivoluzionaria, di un programma comunista immediato in un paese a capitalismo avanzato, la cultura della violenza e del ribellismo diventano principali fondamenti della rottura dello stato sociale del capitale. E la risposta disperata alle dispute senza fine fra riformisti-keynesiani e marxisti velleitarii un dibattito che, secondo il gruppo, ha finito con l'avvitarsi su se stesso negli anni sessanta: «da un lato cerano i riformisti ridotti a un ruolo permanentemente subalterno di fronte alle ideologie più avanzate del capitale. L'economia keynesiana, il progetto di questa grande strategia del capitalismo, diventa un orizzonte avanzato per questi teorici del riformismo del movimento operaio. D'altra parte c'erano molti velleitari all'interno dello schieramento marxista, ma — come dire — si presentavano un po' come una valle di lacrime, stavano lì a piangere sul fatto che la classe operaia era a loro parere integrata perché lottava per i soldi, perché manifestava un fondamentale egoismo e attaccamento ai temi pratici, materiali di lotta» w. Dunque tagliare corto con queste querelle senza conclusioni significa porre il comunismo all'ordine del giorno. Nell'osti-nato perseguimento di quest'ipotesi la presenza del gruppo è vista come capacità di far funzionare «l'egoismo di massa», la primordiale volontà di lottare per i propri interessi materiali, interessi per loro intrinseca natura contrapposti agli interessi generali della società, far leva su questi comportamenti per rimettere in moto un processo rivoluzionario. Programma per il comunismo è l'esaltazione dell'antagonismo tra operaio e padrone nel rapporto di produzione dentro la fabbrica, l'espressione immediata del rifiuto da cui discende l'organizzazione dell'insu-bordinazione operaia. Al tempo stesso più cresce la consapevolezza della negazione del comando capitalistico più aumenta la necessità di organizzare e rendere permanente il conflitto fra i bisogni materiali della classe operaia e la logica del piano cioè di quello sviluppo capitalistico falsamente propagandato come «interesse generale». Alla ragione capitalistica si contrappone una ragione rivoluzionaria identificata come distruzione, come pura negazione di tutto. Toni Negri scriverà in Dominio e sabotaggio: «siamo qui, incrollabili, maggioritari. Abbiamo un metodo di distruzione del lavoro. Siamo tesi alla ricerca di una misura positiva del non lavoro. Della liberazione da quella schifosa schiavitù che i padroni godono, che il movimento ufficiale del socialismo ci ha sempre imposto come araldo di nobilita. No, non possiamo davvero dirci socialisti, non possiamo più accettare la vostra infamia» 50. Ossessionati dalla paura del capitalismo, illusoriamente rappresentato «come macchina perfetta» si vuole agire su quello che viene considerato il suo principale punto debole la necessità del piano riformistico di fondarsi sul consenso della classe operaia. Scardinare il consenso e negare l'adesione degli operai al riformismo significa scoprire ed esaltare l'autonomia con il suo consapevole disprezzo di tutte le regole del piano. In questa logica non ce spazio per il sindacato e la sua tradizionale mediazione del conflitto lavoro-capitale. Il punto più alto della sua funzione normalizzante è rappresentato dall'equilibrio compatibile fra dinamica dei salari e dinamica produttiva. Per spezzare definitivamente le fìnte regole del gioco democratico-capitalistico, la lotta sul «salario politico» è il volano che spinge in avanti la variabile salariale, «impazzita rispetto alla razionalità dello sfruttamento capitalistico», ed esaspera il «costo del lavoro fino a mettere in crisi la programmazione». Nel progetto-proclama del Potere operaio, non ci può essere alcuna compatibilita fra la lotta economica e il sistema regolato del capitalismo. Da questo parossismo della crisi deriva che ogni parola d'ordine deve servire a interrompere il disegno ordinatore e totalizzante dello Stato del riformismo, del piano e dello sviluppo: «La parola d'ordine che abbiamo tante volte agitato negli anni sessanta: più soldi e meno lavoro, era proprio questo: provocare la crisi capitalistica con una volontà precisa e soggettiva, cioè scaglionando contro la stabilità del capitale l'irriduci-bilità dei bisogni materiali della classe operaia» 51. Solo accelerando la crisi si possono ripristinare le condizioni classiche per un'iniziativa rivoluzionaria, cioè la presa del potere per la distruzione dello Stato dei capitalisti e l'instaurazio-ne del «potere operaio». Occorrono pretesti e occasioni: agitare la parola d'ordine «aumenti uguali per tutti», non significa perseguire il suo concreto raggiungimento, bensì serve per svelare l'antagonismo tra gli interessi di classe degli operai e l'interesse dei padroni, rendere esplicita la necessità di organizzarsi non contro «un singolo padrone ma contro tutti i padroni, contro lo Stato come rappresentante generale degli interessi dei padroni». Dunque: «Inchiodare il capitale alla crisi, cioè costringerlo all'arresto dello sviluppo, cioè costringerlo a dichiararsi incapace di una iniziativa riformista, a dichiarare il blocco della iniziativa politica, a rifiutare di assecondare le richieste operaie; e quindi ha significato costringere i padroni e lo Stato a mostrarsi come dominio, come violenza aperta contro gli operai» 52. Per il gruppo dirigente di Potere operaio ci possono essere stati limiti e insufficienze nell' esperienza pratica, ma nel bilancio complessivo quello che conta è che la «lotta autonoma» ha prodotto una situazione politica nuova in cui si sono demistificate le logiche del riformismo e si è smascherata la sua natura di «operazione di violenza aperta, di impoverimento, di attacco alle condizioni materiali della classe operaia e di tutto il proletariato». Nella brutalità della crisi si creano le condizioni per una crescita della coscienza di classe, le masse avvertono «la necessità di distruggere il potere capitalistico, di prendere tutto il potere; cioè distruggere la schiavitù del lavoro salariato». E questo il «filo rosso» che esprime e lega insieme l'espe-rienza del gruppo dagli anni sessanta in poi: «il percorso dentro il movimento»: nelle lotte della Fiat del '62, nelle lotte operaie, sociali, studentesche cominciate nel '68 con Valdagno, nelle lotte del Sud con Battipaglia e poi la lotta della Fiat del '69, e infine la grande stagione dell' «autunno caldo». Da questo itinerario e partendo dall'affermazione del ruolo dell' autonomia, si conferma la validità dell'ipotesi politica del «programma comunista» e la sua ineludibile attualità. Ne deriva lo slogan, ripreso da una citazione di Marx, della III conferenza d'organizzazio-ne: «il comunismo è il movimento reale che distrugge lo stato delle cose presenti». Distruzione del lavoro salariato, distruzione della necessità di lavorare per vivere, questa è Fattualità del comunismo da cui consegue la necessità di scoprire la richiesta di comunismo dentro i comportamenti degli operai e dei prole-rari, dentro le loro lotte contro il lavoro. Misurati con il parametro della volontà distruttiva, unica premessa rivoluzionaria, poco importano i risultati ottenuti; la lotta contro l'orario di lavoro, contro la mistificazione capitalistica dei diversi valori del lavoro; la lotta contro «l'aggancio fra salario e produttività», sono questi i «formidabili contenuti rivoluzionari» che portano a esprimere un bilancio ampiamente positivo delle lotte. Su questa base, incuranti dei processi reali, i militanti del gruppo considerano l'ipotesi formulata sin dagli inizi degli anni sessanta «in larga parte verificata». Ora non basta più bisogna andare avanti sulla strada dell'insurrezione. La carica distruttiva, il richiamo all'individualismo corporativo spiegano il consenso che il gruppo conquista nei settori operai meno sindacalizzati, nei servizi e nelle aree di marginalità urbana. Esasperato intellettualismo e desolazione della crisi si compenetrano tra loro, componenti del rifiuto del capitalismo, ma anche perverso prodotto della crisi capitalistica e delle sue contraddizioni. Anche in questo senso si spiega l'interesse per il Sud, l'adesione del gruppo alle motivazioni e al ribellismo che si esprime nelle vicende di Reggio e dell'Aquila, test significativi della spontaneità rivoluzionaria e, nella più totale indifferenza sulle matrici di destra che le animano, conferme di possibili inneschi di lotta armata insurrezionale. Dall'elogio della violenza diffusa alle prime azioni terroristiche il passo è breve. La svolta sarà evidente all'indomani della morte dell'editore Feltrinelli. Alla ricerca di una propria identità e forzando l'interpreta-zione dei cicli politici della vicenda politica italiana, il gruppo ricostruisce la sua storia: «Potere operaio come organizzazione nazionale data dal '69, dalle lotte Fiat del '69, dalla preparazione dell'intervento dei gruppi rivoluzionari nei contratti e contro i contratti; però come ipotesi politica-passata attraverso esperienze successive (Quaderni rossi, Classe operaia) — in realtà risale agli inizi degli anni '60» 53. Con questa carta di presentazione, utilizzando la sua tradizione e il prestigio derivato dal ruolo delle riviste dell'operaismo negli anni sessanta il gruppo cerca nuove autorevolezze nella presunzione tracotante di imporsi sugli altri gruppi. Anche nei confronti delle altre formazioni si tratta di esercitare un ruolo di avanguardia, spingendole verso la discontinuità, il salto, la forzatura dello stesso processo rivoluzionario: «Non importa attraversare delle fasi di isolamento, di battaglia politica del movimento; il problema è che quello che accettiamo è un isolamento positivo, non l'isolamento dei ritardatari, ma semmai di quelli che anticipano le scelte alle quali poi va costretto l'intero movimento». La prospettiva finale è la «riaggregazione delle avanguardie» 54. Settarismo e attenzione si dialettizzano fra loro: «II nostro settarismo oggi sarà quello dell'organizzazione, del processo riaggregativo, della fiducia nelle avanguardie di tenere in piedi e di condurre questo diffìcile processo». Il sovversivismo fa da collante mentre, nel clima di quegli anni, repressione, paura del golpe, delusioni concorrono a definire le equivoche radici culturali di nuove e più pericolose fasi dell estremismo55. Se la rappresentazione trionfalistica della propria esperienza serve a dare validità alle scelte del gruppo al tempo stesso sposta sulla società il proprio stato soggettivo. In questa trasla-zione teorico-comportamentale si realizza un' etereogenea comunanza di figure diverse, quali l'intellettuale disadattato e il sottoproletario ribelle. Una galleria di microprotagonismi interni a una società in crisi che cercano la propria affermazione individuale nella gestualità rivoluzionaria, nel mito avanguardistico, nell'elogio del coraggio militare e nelle curiosità morbose dei primi conati di clandestinità. Sempre seguendo gli schemi ricostruttivi che vengono sintetizzati nella fase della conferenza di Bologna, all'inizio degli anni sessanta, dopo la sconfitta, la ripresa operaia; una ripresa che porta i segni dell'insubordinazione e trova la sua forza nella durezza e nella violenza della protesta smantellando le revisioni-stiche progettualità politiche. Nella mutata condizione del neocapitalismo e del centro-sinistra, il grande padronato non solo non ha paura, anzi, addirittura stimola una ripresa di lotte, purché possa contrattaccarla e contenerla, purché la dinamica delle lotte, la richiesta di aumento dei salari, di trasformazione delle condizioni di lavoro funzioni da fattore propulsivo dello sviluppo e di espansione dell'economia capitalistica. Contro questo disegno omologante e di tregua sociale 1' «insurrezione proletaria» del luglio '60, e i primi «gatti selvaggi» alla Fiat: «il ceto politico, il ceto capitalistico italiano più avanzato tenta di cambiare le carte in tavola, di riportare nel paese certi modelli avanzati di sviluppo che sono già stati sperimentati negli Stati Uniti a livello di paesi capitalistici avanzati all'interno del mercato mondiale. E un tentativo di anticipare l'iniziativa operaia, di predisporre gli strumenti politico-istituzionali perché il capitale abbia una capacità di lettura e di interpretazione dei movimenti di classe e dunque una sorta di "preliminare" al riformismo, di "legge quadro" del riformismo. Ecco quindi che il padronato più moderno e più forte — pubblico e privato — e il personale politico più avveduto di parte capitalistica si rendono conto di come sia necessario, proprio per mantenere il controllo sulla forza lavoro, portare avanti una gestione democratica del rapporto di lavoro; far partecipare gli operai al progetto di sviluppo, incanalare l'insubordinazione operaia rendendola un elemento dinamico del sistema, superare gli squilibri e le contraddizioni attraverso la programmazione, gli uffici studi, il piano, superarli attraverso la determinazione di una funzione dello Stato come cervello capitalistico, non solo come poliziotto; superarli attraverso questa determinazione di una funzione dello Stato come regolatore dei conflitti tra capitalista e capitalisti, e soprattutto tra operai e capitale» '"'. Con l'obiettivo di evitare una crisi ingovernabile del sistema, il capitalismo avvia una ristrutturazione dell'assetto dello Stato che tende sempre più a presentarsi come uno stato democratico-pianificato, in cui prevalgono come regolatori sociali, non gli strumenti di repressione ma quelli di controllo del-1 opposizione. Nemico fondamentale è dunque lo stato democratico che, in ragione della sua necessità fisiologica di contenere e di riassorbire tutte le spinte antagoniste per affermare il proprio dominio, tollera spazi di conflittualità sociale purché programmati e programmabili. Nasce da ciò l'acutizzazione della crisi, la necessità di farla scoppiare, far saltare il gioco delle parti. Nessuna proposta concreta può aver risultato, salvo l'insurre-zione e il comunismo. Rifiuto, luddismo, insubordinazione, violenza sono le forme dell'aggravamento, con la loro carica eversiva esse prevalgono su ogni contenuto. Se salario e lotta dura erano le parole cordine nella fase dell'autonomia, ormai il salto di qualità consiste nel coniugare salario politico e lotta per il potere con il processo insurrezionale armato. Certo, prosegue Potere operaio, è un processo di lungo periodo, ma che va avviato da subito, e verso il quale, va sospinto tutto il movimento.
6. La militarizzazione
Con la III conferenza d'organizzazione il gruppo precipita definitivamente nel buio labirinto della lotta armata. Come si è visto l'insieme teorico che sostiene i materiali preparatori, le relazioni e il dibattito della conferenza di Roma hanno l'obietti-vo principale di evidenziare l'attualità del comunismo da cui, come coerente comportamento politico, fanno derivare l'urgen-za del passaggio alla lotta armata. La questione si presenta aperta a varie ipotesi che si fronteggiano nei diversi interventi. Un' articolazione di posizioni che è complementare al tema mai compiutamente sistematizzato da Potere operaio del partito. Indicando i principali nodi politici su cui la conferenza è chiamata a pronunciarsi e decidere Oreste Scalzone sottolinea: «il primo punto riguarda i livelli e gli strumenti di organizzazione; il secondo punto riguarda il programma politico e le organizzazioni delle scadenze, il terzo punto il tema dell'appropriazione, del-l'organizazione e dell'insurrezione». Per l'ex leader del movimento studentesco romano una cosa è certa, pena essere codisti o opportunisti, non si può rimandare oltre: «il problema della difesa e dell'attacco, il problema dell'educazione tecnica della violenza operaia e proletaria». Il dibattito sulla lotta armata vede varie accentuazioni: Dalmaviva si pronuncia sulle necessità di coinvolgere i vari livelli dell'autonomia e le forme del suo manifestarsi; Magnaghi insiste sul tema dell'appropriazione; Francesco Pardi identifica Ibr-ganizzazione nell'organizzazione armata; Lanfranco Pace sviluppa il tema della soggettività del partito; Franco Piperno pone l'attualità del problema del potere da conquistarsi con la militarizzazione. Nelle sue conclusioni Negri congiunge il tema dell'appropriazione al tema della militarizzazione, aspetti non separabili fra loro in un progetto insurrezionale. Al tempo stesso riconduce le diversità manifestatesi nella discussione ali' oggettiva «discrepanza fra tempi d'organizzazione e tempi dello scontro. Da urgenza soggettiva e oggettiva insieme alla proposta di partito». Per Negri sia la ricomposizione dell'unità del gruppo che il coinvolgimento delle altre forze «rivoluzionarie» passano attraverso un deciso salto di qualità: prospettare e determinare come organizzazione quelle che significativamente definisce le «scadenze di scontro». Esplicitando quest'indicazione, il giornale, a commento dei lavori della conferenza, scrive: «Potere operaio, nel suo convegno, ha detto: insurrezione come passaggio necessario alla riqualificazione delle forze del movimento». Partendo da questo presupposto mutano i termini con cui 1 estremismo «tradizionale» ha concepito e concepisce nel suo gradualismo o nelle sue forzature dogmatiche la costruzione del partito rivoluzionario. «Qui allora non si tratta più di progettare la continuità dall'au-tonomia al partito (su cui poggia ogni opportunismo) non si tratta più di parlare di "nuovi livelli di lotta in politica" questa tematica si riduce oggi all'utopia, si tratta di cogliere organizzazione e violenza antistituzionale come passaggi verso il partito». Dalla violenza al partito, dunque, come una conseguenza del ragionamento sulla crisi e sulle caratteristiche della sua accelerazione, diventa questa «!' unica proposta credibile» per un movimento rivoluzionario che voglia assumere con coerenza la questione dell'insurrezione. A ridosso della III conferenza di organizzazione il giornale «Potere operaio» è trasformato in «rivista teorica» mensile, mentre si annuncia la pubblicazione di «Potere operaio del lunedì» che apparirà dal febbraio 1972. L'occasione per una «scadenza di scontro» è l'appuntamen-to del 12 dicembre 1971, anniversario di piazza Fontana. Bisogna colpire «la volontà togliattiana del Manifesto» e la «stupida ingenuità propagandistica di Lotta continua», che inneggiando demagogicamente alla guerriglia di fabbrica, in realtà vogliono solo «castrare la potenzialità rivoluzionaria» e «farne il trampolino di lancio per il Manifesto come trampolino rivoluzionario»; così si esprime la circolate dell'esecutivo nazionale del 28 novembre. La direttiva è: «spingere a fondo su tutte le iniziative di lotta e di violenza nelle quali possiamo essere [...] Torino, Padova, Bologna, Avelline [...] sono le sedi dove la spirale della lotta e dell'egemonia rivoluzionaria del movimento è già stata messa in moto». Tutto il servizio d'ordine di Potere operaio è mobilitato. Fioroni a capo del neo-costituito Lavoro illegale appresta l'appartamento di via Galilei a Milano per la fabbricazione di un ingente quantitativo di molotov. L'appuntamento è caricato di un forte valore simbolico. Non solo ricorre l'anniversario della strage di piazza Fontana ma l'anno precedente, proprio nel corso delle manifestazioni, aveva trovato la morte lo studente Saltarelli. Il movimento studentesco e i vari gruppi che formano il Comitato nazionale di lotta contro la strage (Lotta continua, Manifesto, Avanguardia operaia, Collettivo autonomo di Architettura di Milano, Lotta comunista, Gruppo Gramsci) sono divisi sulla condotta da tenere contro il divieto. La notte che precede la manifestazione militanti di Potere operaio vengono arrestati perché trovati in possesso di bottiglie molotov. Pronta la solidarietà del gruppo: «Compagni di Potere operaio arrestati con 250 molotov! Noi affermiamo il diritto degli operai e dei proletati di difendere le proprie lotte con le armi dalla violenza poliziesca dello "stato della crisi". Noi affermiamo l'urgenza, per la crescita dell'organizzazione rivoluzionaria della militarizzazione del movimento. Potere operaio! Insurrezione armata!». La guerriglia urbana programmata per la giornata non può essere attuata. Per Potere operaio la manifestazione è stata una «parziale vittoria». 15 mila partecipanti, lo stato nonostante i divieti e le provocazioni se è riuscito a ridurre la «portata della manifestazione» non è riuscito nel suo intento principale di farla fallire. La critica sull'esito della «mobilitazione» si sposta alle altre componenti del movimento. Per Potere operaio si è trattato infatti di «una vittoria della nostra linea, delle nostre proposte, delle nostre indicazioni: ancora una volta abbiamo saputo costruire — e paghiamo un corretto rapporto d'avanguardia, di tradizione, di proposta rispetto al movimento, un atteggiamento che sistematicamente rifiuta di registrare e di rappresentare la medietà del movimento e di contendersi con essa scambiando il codismo per linea di massa» 57. Meno soddisfacente il bilancio interno. Ancora non si è pronti per organizzare, pianificandola, la guerriglia. Dopo un' aspra discussione la vicenda del 12 dicembre porta allo scioglimento di Lavoro illegale. Il numero 46 di «Potere operaio» del febbraio '72 pubblica in ultima pagina la poesia di Brecht «lode del lavoro illegale», è l'implicito epitaffio di una esperienza ormai chiusa. La scelta non è indolore, Fioroni riferisce di forti dissensi fra Negri e Piperno favorevole al mantenimento di Lavoro illegale. Sarà proprio Piperno insieme a Morucci a dar vita di lì a poco al Faro (Fronte armato rivoluzionario operaio). Iniziano a operare all'interno e all'esterno di Potere operaio più livelli occulti, forme di strutture parallele non riconducibili all'intero gruppo ma piuttosto facenti capo a singoli leader e a spezzoni dell'organizzazione. Nel febbraio del '72, una lettera di Piperno ad «Osvaldo», nome di battaglia di Feltrinelli, così prospetta la possibile collaborazione fra gruppi clandestini armati: «In un quadro di integrazione nazionale delle nostre organizzazioni omogenee e di un rapporto dialettico con Potere operaio (quadro che deve tenere presente e far fronte a tutti gli oneri che ne derivano) andiamo ad unità operativa e di comando delle nostre forze a Milano. Ma i nostri compagni vanno trattati come un nucleo organizzativo con cui si discute come tale e non separati e utilizzati come tecnici. Essi hanno idee, maturità e motivazioni con cui bisogna confrontarsi - non è possibile rimuovere amministrativamente queste cose, altrimenti si chiede loro di diventare dei killer e non dirigenti rivoluzionari» 58. I rapporti tuttavia non procedono come si vorrebbe. In un'altra lettera sempre di Piperno, nome di battaglia «Elio», si sottolinea il persistere di sostanziali differenze fra Gap e Potere operaio, contrasti che riguardano le finalità, le forme e i tempi dell'unificazione organizzativa: «Questo "avanti-indietro" dei nostri rapporti politici è negativo. Va troncato. Ti prego quindi di continuare un legame con noi solo se ritieni che ci siano le condizioni per fare questo passo avanti. Altrimenti è preferibile far decantare le cose. Mettere del tempo sopra le diffidenze e i sospetti. E rivederci quando può marciare — se mai giorno verrà — un rapporto saldo in cui si tien fede reciprocamente all'impegno» 59. Intanto sulle pagine del giornale numerosi articoli commentano le posizioni dei Gap e delle Br. Il riconoscimento è esplicito: queste formazioni clandestine hanno posto il problema della violenza rivoluzionaria in una strategia di distruzione dello stato borghese. Le divergenze nascono sul rapporto lotta armata-lotta di classe; Potere operaio, rivendica una maggiore saldatura fra iniziativa politica e azione militare. Ormai il dibattito sulla lotta armata si sviluppa fra numerosi interlocutori e le varie posizioni interagiscono fra loro. All'inizio del '72 la rottura del Comitato politico dell'Enel e del Collettivo lavoratori del Policlinico con il Manifesto. Il commissariamento tentato da Eliseo Milani non produce alcun risultato 60. Le conseguenze sono a catena, toccherà poi al-l'assemblea autonoma di Porto Marghera e a quella dellAlfa Romeo. Nel frattempo il dibattito sulla violenza si fa sempre più acceso nella gruppettistica: si è esaltata la lotta armata e lo scontro per lo scontro, si è rifiutato ogni tradizionalismo della «politica» quasi che fosse irrimediabilmente imprigionata nelle maglie delle cosiddette «condizioni oggettive», il tutto ha concorso ad una spirale ribellistica antistatuale che, insieme ali' ondata repressiva, ha alimentato il mito della clandestinità e della preparazione alla guerra rivoluzionaria. Nel marzo '72 le posizioni sulla lotta armata si vengono ulteriormente precisando. L'occasione è il sequestro di Idalgo Macchiarmi ad opera delle Br. Con una parziale sintonia con «Lotta continua», che pure si era dissociata dall'azione di Laina-te e manifesterà una più articolata discussione al suo interno, «Potere operaio» scrive: «Sono nuove forme di lotta operaia che si stanno facendo strada: questa pratica della violenza organizzata da parte proletaria è resa obbligatoria dalla crescita dello scontro di classe e dalle sue caratteristiche di violenza» e ancora «si tratta di azioni che portano un segno di classe proletario e comunista, ed esprimono una volontà sovversiva e un bisogno di rivoluzione che è delle masse sfruttate, e non di esigue minoranze» 60. Altri drammatici episodi si addensano nella torbida scena del quadro politico, teatro la città di Milano: la prova di piazza dell' 11 marzo, la morte di Feltrinelli, l'uccisione del commissario Calabresi. Fra i gruppi esplodono le diversità, infuriano le polemiche contro l'avventurismo a cui fanno da contrappunto le critiche di codismo. Il Faro firma un gruppo di azioni a Roma: il 5 marzo '72, rivendica un attentato contro una caserma dei carabinieri; il 9 marzo contro la sezione De di via Bonaccor-si; il 10 davanti al carcere di Regina Coeli; il 13 contro la sezione De di Porta Cavalleggeri e alcune bottiglie incendiarie contro la sede della Biblioteca spagnola di via Albani. Dopo gli scontri dell' 11 marzo a Milano, la rottura definitiva del Comitato contro la strage, il Manifesto aveva già preso le distanze, sarà poi la volta di Avanguardia operaia che attacca Potere operaio e Lotta continua di cieco avventurismo e di provocazione. La morte di Giangiacomo Feltrinelli, la mattina del 15 marzo, sotto il traliccio di Segrate lascia attoniti e smarriti, l'e-stremismo esita e si interroga. Potere operaio squarcia il velo del silenzio: Feltrinelli era un militante dei Gap 61. Sulle cronache dei giornali compare il nome di Carlo Fioroni «il professorino», un personaggio che tornerà nella storia del terrorismo: sarà il primo dei «super-pentiti». E lui l'intestatario del pulmino trovato sotto il traliccio di Segrate, di lì a poco si equivoca sui nomi Fioroni-Scalzone. Per la stampa Potere operaio è l'aspetto di movimento dei Gap e delle Br. Avanguardia operaia, dissociatasi dal Comitato di lotta contro la strage, polemizza veementemente con Potere operaio a cui fanno eco le posizioni di Lotta continua 63. Sulla stampa e negli ambienti della magistratura, sempre più insistenti le minacce di una messa fuori legge di Potere operaio. Lotta continua, il cui esecutivo milanese è già stato colpito da mandati di cattura per aver inneggiato nei confronti del sequestro di Idalgo Macchiarmi e del francese Robert Nogrette dirigente della Renault ad opera della Gauche proletarienne 64, dichiara senza esitazioni tutta la sua solidarietà militante a Potere operaio. Di li a poco l'uccisione del commissario Calabresi, «Potere operaio» commenta: «terrorismo è quello che ha fatto cadere uno di loro [...] e questa iniziativa terroristica costringe oggi tutti a prendere posizione. I padroni lo hanno fatto immediatamente e lo si poteva prevedere, anche noi abbiamo il dovere di farlo sottraendoci ad ogni tentazione opportunista. E allora, di fronte a questa iniziativa, dobbiamo avere una sola obiezione: e cioè la sproporzione tra i nostri morti e i loro, non è colmabile con questi strumenti. In questo modo questo raffronto continuerebbe a restare troppo favorevole ai padroni: il problema resta per noi quello di distruggere la società che vive su questi morti» 65. Con la morte del commissario Calabresi i riflettori si puntano su Lotta continua. Il gruppo, a causa della sua campagna contro il commissario, è additato come responsabile morale dell'assassinio. Tutto tende ad accreditare il grave episodio delittuoso come un fatto di terrorismo rosso. Mentre il Manifesto e i marxisti-leninisti di «Servire il popolo» cercano il conforto degli elettori, negli altri settori dell'e-stremismo si ha la netta sensazione di essere all'apice della spirale repressiva ma anche ad una inevitabile svolta nella lotta armata. Su «L'Espresso» del 2 aprile appare l'intervista concessa a Mario Scialoja da Carlo Fioroni, definito ex militante di Potere operaio. Il giornalista racconta, senza fare homi, il rituale dei vari abboccamenti che lo hanno portato al «super-ricercato», si saprà poi che tramite dell'incontro fu Jaroslav Novak, che ritroveremo nella vicenda del 7 aprile e sarà successivamente attivo organizzatore dei dissociati dal partito armato. Alla precisa domanda di Scialoja, Fioroni non smentisce di essere ancora «interno» alle posizioni di Potere operaio anche se afferma di essersi allontanato dall'impegno attivo nel gruppo per ragioni di salute. Il «professorino», intanto, con una lettera al procuratore della Repubblica spiega le ragioni della sua latitanza come frutto di una sostanziale sfiducia nella macchina della giustizia: la sfiducia di un militante rivoluzionario che pur essendo innocente rispetto ai fatti addebitati non vuole essere irretito nelle maglie dello «Stato della strage». La lettera si chiude con la difesa di Potere operaio, secondo Fioroni infatti si vorrebbe tendere una trappola non tanto a lui quanto coinvolgere in una vasta azione di repressione il gruppo e Finterà «sinistra rivoluzionaria». Per il gruppo dirigente di Potere operaio tutto conferma l'urgenza della militarizzazione. Nella Proposta di documento nazionale sulle scandente del '72, materiale a uso interno, attribuito allo stesso Negri, si legge: «II passaggio della lotta di classe operaia verso la lotta armata per il potere sta verificandosi dentro le masse» il resto ne consegue «è necessario buttare tutto il peso della nostra intelligenza e della nostra forza organizzata sulla previsione materiale di questo passaggio». Sulla stessa linea si muove la Bozza di documento politico elaborata dalla segreteria nazionale di Potere operaio. In che modo realizzare il passaggio alla lotta armata? Su questo discute a lungo l'esecutivo nazionale di Potere operaio, continuano intanto quelle divisioni e contrasti che porteranno alla radicale trasformazione del gruppo con il passaggio-dissolvenza nell'Autonomia. Nel frattempo si realizza l'unifica-zione fra Gap e Br. Il dopo elezioni conferma lo spostamento del quadro politico: si forma un governo di centro-destra, per i partiti dell estremismo si è alla vigilia di una svolta autoritaria e repressiva dello stato. Nell'estremismo post-sessantottesco la rottura è ormai un fatto insanabile: nella seconda metà del '72 le Brigate rosse passano alla clandestinità totale, è la fase che va dal 2 maggio, data della perquisizione del «covo» di via Boiardo, al novembre '72 quando riappaiono le azioni firmate. A giugno del '72 cessa le pubblicazioni «Potere operaio» rivista, il nuovo numero sarà quello del novembre '73 contenente gli atti del seminario di Padova del 28 luglio-4 agosto dello stesso anno, il gesto simbolico quanto polemico di chi sta per abbandonare il gruppo senza lasciarne la tradizione teorica. «Potere operaio del lunedì» che continua a uscire si riduce a un bollettino sulla repressione e su qualche situazione di lotta. Sempre a giugno del '72, a Firenze, si svolge il convegno d'orga-nizzazione dei quadri66. Torna con insistenza il tema del partito armato e di massa. Ancora una volta si sottolinea la differenza di impostazione con la linea dei Gap e delle Br. Afferma Franco Piperno: «quello che lo stato teme è l'unione terrorismo-letta di classe, non quello che facciamo saltare». Contro le deviazioni tupamaros, il documento conclusivo del convegno precisa: «ogni riduzione dello scontro violento a questione privata fra rivoluzionari e le forze repressive dello stato è perdente e favorisce il nemico di classe. La violenza deve essere più che mai collegata alla condizione proletaria; in ogni caso i proletari debbono poterla riconoscere e sentire come cosa propria» 67. Potere operaio è praticamente isolato, il «preparare l'insurrezione» si fa ossessivo e al tempo stesso sembra perdere contenuti per smarrirsi nei meandri di imprecisati «livelli occulti», cresce la difficoltà a riprendere contatti di massa. Il suo più pericoloso concorrente è l'Autonomia organizzata, un proliferare di forme fluide d'organizzazione nate ai bordi dei gruppi e alimentate dalla loro stessa crisi. Nell'autunno del '72 diventano sempre più divergenti le posizioni di Negri e Piperno. Il primo guarda con interesse al sorgere dell'auto-nomia mentre il secondo riafferma la necessità del partito contro il «decrepito riemergere di teorizzazioni di dissoluzione dell'organizzazione nell'infinito dell'autonomia» 68. Attorno ai due leader si formano gruppi concorrenti fra loro; ognuno cerca, servendosi dei militanti più fidati, di conquistare l'egemonia sull'intero gruppo tentandone una conversione complessiva. Negri avverte che l'universo dell'estremismo sta cambiando e nuove tematiche della liberazione e della distruzione circolano nel movimento per rivoli ancora inesplorati. In questo clima maturano i contatti fra Negri e le Br. L'organizzazione terroristica da tempo seguiva con attenzione gli sviluppi di Potere operaio, suoi militanti avevano partecipato come osservatori alla stessa conferenza di Roma. Rapporti vi erano stati con Piperno nella sua qualità di dirigente del Faro. È difficile ormai parlare unitariamente di Potere operaio. Rimane la sigla, il giornale esce a fasi alterne, vari i comportamenti e le prospettive che si agitano nei suoi principali tronconi. Seguendo le cronache e le posizioni del giornale appare evidente che ormai Potere operaio è del tutto dialettico all'escalation terroristica delle Br, anche se permane la divisione sul rapporto azione terroristica e lotta politica di massa. Il giudice Calogero di Padova nella requisitoria del «processo 7 aprile» affermerà che sin dall'inizio del '73 si stabilisce «un accordo tattico-strategico fra Potere operaio e Brigate rosse che costituisce la prima realizzazione del partito armato». Ormai lo storico Potere operaio sta scomparendo, spezzoni organizzativi, singoli leader si ritroveranno in un assetto del tutto nuovo in cui terrorismo brigatista, violenza diffusa dall'auto-nomia, marginalità sociale, crisi del gruppismo formeranno i molti volti del partito armato.
7. Una programmata dissolvenza
L'iniziativa politica di Potere operaio, al di là delle autoproclamazioni è del tutto impotente di fronte alle lotte contrattuali '72-'73. La discussione politica è isterilita dal progressivo avvitamento sulle teorie dell'insurrezione e della lotta armata. Il documento elaborato per la conferenza dei quadri del giugno '72 è un ulteriore passo verso la militarizzazione. Pur entrando indirettamente in polemica con le scelte delle Br, non pone discriminanti nei loro confronti e assumendo integralmente la logica dello scontro armato prefigura quel policentrismo che, attraverso le scomposizioni-ricomposizioni dell'autonomia, si verrà sviluppando nella spirale militarismo-movimentismo e sarà il centro progettuale dell'ipotesi del partito armato e troverà il suo apice nella seconda metà degli anni settanta. Entrate definitivamente in crisi le esperienze del Comitato politico dell'Enel, del Collettivo lavoratori studenti del Policlinico di Roma, dell'Assemblea autonoma di Porto Marghera, dell'Alfa di Milano, alla ricerca di una nuova identità si avvia l'inesorabile disgregazione di Potere operaio 69. Si è ormai di fronte all'atomizzazione dell'autonomia: una distruzione dell'estremismo post-sessantottesco che, superata l'illusione del partito alternativo al «revisionismo» e le astratte e ideologiche dispute avanguardia-movimento, riprogetta un processo organizzativo che partendo dalle varie situazioni di lotta le riconduce a unità non per volontà soggettiva ma come coerente sviluppo di una potenzialità antistatuale. Il gruppo veneto, Negri, Vesce, Sbrogiò, ritiene invecchiato il modello partito e lavora per un progetto organizzativo alternativo e in questo senso influenza e orienta le scelte dell'Assemblea autonoma di Porto Marghera e di altre esperienze simili realizzando, in una sorta di contiguità fra crisi e disegno predeterminato, la conversione dei resti del vecchio Potere operaio. Diverso l'atteggiamento del gruppo romano. Piperno e Scalzone rimangono ancora legati a un'ipotesi di rifondazione organizzativa centralizzata. Due anime dell'Autonomia di origine operaista che si scontreranno e si divideranno per poi ricomporsi nella sua più generale geografia e nelle sue compiici interferenze col terrorismo. In un'intervista al settimanale «Panorama» del '78, Piperno non avrà esitazioni ad affermare a proposito dei terroristi che essi portano un patrimonio di «tipo operaista», e Scalzone in un colloquio con un giornalista de «L'Espresso» preciserà: «la guerriglia è una delle facce del movimento iniziato nel '68. Potere operaio ha avuto in questo movimento un ruolo di punta ed è quindi naturale che abbia avuto a che fare con la genesi della guerriglia». Gli apprendisti stregoni della rivoluzione agitano e costruiscono miti e suggestioni di cui rimangono essi stessi prigionieri; le teorizzazioni sul «partito per l'insurrezione», la progressione verso la militarizzazione gettano i semi di ingovernabili germogli: come sempre chi semina vento raccoglie tempesta, e la tempesta saranno «gli anni di piombo». Potere operaio, stretto nella morsa della clandestinizzazione, si avvia alla sua scelta di autoscioglimento non come liquidazione di un'esperienza ma come una precisa opzione politico-militare. Intanto si intensificano le tappe della costruzione dell'Autonomia: nel novembre '72, i comitati autonomi di Roma e Napoli danno vita al convegno sul-l'Autonomia operaia, seguiranno nell'inverno '73 sempre più fìtti gli appuntamenti organizzativi. Prima ancora di «Controinformazione», la rivista nascerà nel novembre del '73 con il contributo dello stesso Negri, spetta a «Potere operaio» il compito di diffondere le elaborazioni teori-che delle Brigate rosse e aprire attorno alle loro scelte terroristi-che un serrato dibattito con l'area dell'estremismo. Nel marzo '73, il settimanale pubblica una nuova intervista firmata Br, il documento scritto nel gennaio apre quella che è considerata la seconda riflessione teorica del gruppo terroristico. Nel testo si spiegano le ragioni della scelta compiuta: la clandestinità come superamento del gruppismo post-sessantottesco, giudicato come una «realtà del passato»71. L'intervista delle Br offre un ulteriore spunto a un serrato e critico dibattito fra Potere operaio e Lotta continua, quest'ultima, infatti, rovesciando precedenti giudizi attacca il documento di «velleitarismo» e di «confusione ideologica». Dura la replica di Potere operaio: «Chi sono dunque i compagni di Br? Sono compagni proletari che hanno condotto le lotte dell'autunno caldo nelle fabbriche del Nord, e che hanno, attraverso una lunga riflessione teorico-politica scelto la via della clandestinità, nella convinzione che questa sola permetta la costruzione di un' organizzazione autonoma per la lotta armata; è difficile sostenere che esista altra via che quella della clandestinità per costruirla...». Infine legittimando l'organicità delleBr e del terrorismo con la «sinistra di classe» afferma: «Noi crediamo che i compagni delle BR si muovono con piena lealtà all'interno del processo di costruzione della forza organizzata dell'Autonomia operaia» 72. La polemica non accenna a smorzarsi anzi si inasprirà ulteriormente col sequestro Mincuzzi. Per Potere operaio, Lotta continua si è allineata al giudizio del Manifesto, un codismo mascherato dietro quelli che sono sprezzantemente definiti i suoi «opportunismi di stagione». Per il gruppo di Negri, Scalzo-ne, Piperno non ci sono dubbi: anche se vanno corrette alcune impostazioni «giustizialiste» delle Br, esse con le loro azioni cercano: «di dare una risposta in termini di attacco, come pure noi tentiamo, alle lotte dagli operai...»73. Intanto Negri e i suoi più stretti collaboratori, seguono con crescente interesse la formazione dell'autonomia organizzata. Sempre più accesi i contrasti fra le due anime del gruppo, al suo interno ormai si scontrano vere e proprie correnti organizzate. A nulla serve il convegno di Rosolina, precipitano i tempi per l'autoscioglimento. La principale ragione del dissenso riguarda le forme dell'organizzazione: il leader fondatore del gruppo non condivide la logica da minipartito in cui lo stesso Potere operaio è rimasto invischiato. Ricostruendo l'itinerario teorico-politico di Toni Negri, è evidente che la «dissoluzione» proposta sin dal primo sorgere dei sedimenti dell'Autonomia organizzata meglio corrisponde al suo disegno strategico. Nel progetto dell'autonomia Negri cerca una continuità con le intuizioni del primo Potere operaio veneto-emiliano e, sia pure nel mutarsi dei termini dello scontro di classe, con le ragioni di fondo che erano state alla base della esperienza de «La classe». Dell'inasprirsi del conflitto Negri-Piperno parlerà Carlo Fioroni nelle sue dichiarazioni a proposito dell'incontro, avvenuto nel settembre '72 in Svizzera, col leader padovano. Due progetti di organizzazione si sono fatti strada dentro il gruppo, due diversi modi di intendere il «processo rivoluzionario» e la conseguente militarizzazione 73. «Potere operaio» liquida semplicisticamente «il decrepito riemergere di teorizzazioni di dissoluzione dell'organizzazione nel cattivo infinito dell'autonomia». Ma la pedagogia non convince più, lo sfaldamento è già in atto. Attorno ai nodi del partito, delle forme della lotta armata, mentre incalza l'Autonomia, entrano in molecolare dissoluzione le anime del gruppo. La conferenza di Roma non trova coerente sviluppo, Potere operaio risulta politicamente isolato, mentre in un forte regime di concorrenza interna i vari leader cercano di ritagliarsi aree di consenso. In questo clima, stretto fra autonomia e la pratica militare delle Br, Potere operaio approda alla sua IV conferenza d'organizzazione, che si svolge a Rosolina dal 31 maggio al 3 giugno del '73 ". Un ultimo tentativo di mediazione. Impossibile tornare indietro, il bivio è fra la stanca e ormai inutile sopravvivenza o il salto nel buio: «Ma se da un lato questa crisi evolve in senso opportunista per quanto riguarda Manifesto, Avanguardia operaia e Lotta continua, dall'altro pone le altre formazioni extraparlamentari di fronte a una scelta ben precisa: o seguire, come gli altri la strada della sopravvivenza della propria organizzazione, o fare una scelta di campo, tale da porsi dialetticamente all'interno del movimento stesso senza pretendere di rappresentare la coscienza o peggio presumere di possederne la "linea complessiva" [...] il passaggio determinato che oggi segna il processo di costruzione dell'organizzazione armata dei proletari. Ed è un passaggio appunto che, mette il fucile in spalla agli operai, per garantire in alcuni punti, la loro vittoria sullo Stato» 76. Non si ha il coraggio di ripensare criticamente la propria storia, anzi proprio l'enfatizzazione del proprio ruolo è sfruttata per legittimare l'irreversibilità di una scelta distruttiva ancora più intransigente: «Con le nostre lotte, con la nostra forza abbiamo costretto il capitale a scoprire i denti, a mostrare la struttura che lo sorregge: su questa struttura, con forza, dobbiamo calare il meglio dell' offensiva comunista, come una condanna definitiva» ". Partecipano al convegno di Rosolina 160 delegati, sono rigorosamente selezionati fra i delegati di sede e quelli convocati con apposito invito nominale. Nessun dissenso sui fini strategici, piuttosto il dibattito si concentra sui tempi e sulle forme della lotta armata. Le Br nel loro «secondo documento teorico» pubblicato su «Potere operaio del lunedì» (11 marzo '73), hanno posto il problema dell'unificazione politica di tutte le avanguardie politico-militari che marciano nella prospettiva insurrezionale, la questione non può rimanere senza risposta. Nella sua relazione al convegno Franco Piperno assume come ineludibile la necessità di imprimere una svolta nel lavoro del gruppo con l'assunzione in quanto partito della «dimensione politico-militare come dimensione organizzativa». Toni Negri, al contrario, guarda a una forma fluida dell'organizzazione e, rivendicando «l'articolazione dell'avanguardia organizzata in momenti di Potere operaio», ipotizza la «guerra civile» come un processo eversivo di lunga durata da far maturare parallelamente all'intensificarsi delle azioni di lotta armata, direttamente gestite dal motiplicarsi di avanguardie combattenti non imbrigliate in un rigido schema partitico. A dimostrazione dell'ormai avvenuta spaccatura Negri non interviene al convegno, insieme a lui restano in silenzio gli ex de «La classe». La commissione nominata per stilare una conclusione unitaria non riesce a concludere positivamente i suoi lavori. Per ammissione degli stessi partecipanti il dibattito al convegno si svolge in modo nebuloso, ripropone in forma acuta le differenze, riesplodono nuovi e vecchi patriottismi di gruppo, anche se a stragrande maggioranza sembra delinearsi, sia pure in un mare di confusionarismi, il superamento della forma organizzativa del Potere operaio. Ormai le realtà più significative nella storia del gruppo — Porto Marghera, Pordenone — sono state già sconvolte dalla trasmigrazione verso Autonomia. E proseguito con continuità l'abbandono delle militanti; una crisi inarrestabile dopo gli scontri dell'estate '72, quando militanti di potop — sentendosi esclusi — avevano aggredito un convegno separatista di Lotta femminista da sempre vicina alle posizioni salariste di Potere operaio 78. Il 30 giugno l'espulsione di Toni Negri. Il comunicato che appare sul «Potere operaio» così ricostruisce le ragioni del dissenso: «Già da un anno, progressivamente, il percorso di questo compagno aveva cominciato a dividersi dal nostro, sul terreno di indicazioni e valutazioni politiche contrastanti, soprattutto a proposito del modo di confrontarsi con le punte alte dell'auto-nomia operaia e più in generale con tutta quella parte definita da Potere operaio area di partito». E prosegue accusando esplicitamente Negri di aver lavorato a una diversa ipotesi organizzativa: «Nell'ultimo periodo questo argomento s'è aggravato per la diretta responsabilità di questo compagno che si è fatto promotore di iniziative e pratiche a mezzo di organizzazioni e su progetti diversi da quelli di Potere operaio, in questo senso inserendo al nostro interno elementi di confusione, principi di dualismo organizzativo oltre che di errata dirczione politica, i quali non si potevano a lungo tollerare» 79. Della crisi che attraversa Potere operaio, «L'Espresso» scrive: «Potere operaio settimanale del gruppo omonimo ha ripreso le pubblicazioni dopo la grave crisi, da cui questa formazione extraparlamentare era stata investita dall'inizio della scorsa estate. Dopo i "fatti di Primavalle" in cui la polizia coinvolse i suoi militanti, molti aderenti al gruppo l'avevano abbandonato (o erano stati espulsi) in polemica con chi proponeva la lotta armata e violenta contro il sistema capitalistico. Tra gli espulsi cerano anche Toni Negri, il maggior esponente del gruppo, che proprio in questi giorni ha dato vita, insieme a Pio Baldelli e Gian Battista Lazagna al mensile "Contro-informazione" » 80. A Padova dal 28 luglio al 4 agosto si svolge il seminario di scioglimento e di confluenza dell'area Negri nell' Autonomia, partecipano rappresentanti dei comitati autonomi e militanti che ormai hanno rotto con Potere operaio come Emilio Vesce, Mario Galzigna, Ferruccio Gamdino, Paolo Mander, Augusto Pinzi. I materiali sono stampati in un numero speciale che porta ancora il titolo di «Potere operaio» (finito di stampare nel novembre 1973). Ricominciare da capo non significa tornare indietro, con questo spirito si decide quella che è ambiziosamente definita una «vera e propria rivoluzione culturale nell'ambito della sinistra rivoluzionaria», cioè una dissoluzione della struttura di gruppo funzionale ad una riconversione della propria esperienza e tesa alla riappropriazione dei contenuti e della pratica di una lotta decennale adeguandola al salto in avanti che, si afferma, ha compiuto il movimento rivoluzionario. Non si rinnega un itinerario, anzi se ne riconosce con orgoglio la sua totale validità. «Autonomia operaia e rifiuto del lavoro sono la forma e il contenuto del formidabile salto in avanti che, da piazza dello Statuto a corso Traiano, da via Tibaldi all'll marzo '72, dalle prime azioni di lotta armata al marzo '73» hanno sancito una prima fase della lotta rivoluzionaria. Con le giornate del marzo '73, si è avuto un decisivo e irreversibile salto di qualità. Il riferimento ai primi mesi del '73 è l'elogio indiscriminato del dilagare del sovversivismo, delle prime azioni di terrorismo, del succedersi di manifestazioni di piazza che hanno come unico obiettivo quello di provocare incidenti e sospingere senza via d'uscita il movimento alla resa dei conti militare con lo Stato. Negli anni sessanta «il gatto selvaggio» e la mobilitazione di massa sulle lotte sul salario hanno costituito una «forma superiore della lotta operaia» ora la transizione al comunismo è possibile attraverso il passaggio alla lotta armata gestita dalle avanguardie interne al movimento. Il convegno di Padova determina una nuova fisionomia dell'estremismo e del sovversivismo: il congiungimento fra la molecolarizzazione avanguardistica e le occasioni di movimento dentro cui far germinare la lotta armata, da ciò nascono le strutture operative conseguenti. Negri, insieme ad altri componenti entra a far parte del gruppo redazionale di «Rosso» nuova serie. Il giornale dell'ex gruppo Gramsci diventa lo strumento di coordinamento dell'Autonomia. Le ultime permanenze di Potere operaio non riescono a risolvere la crisi apertasi a Rosalina. Agli inizi del '74 si concluderà definitivamente la storia organizzata di Potere operaio, i suoi leader, le teorie elaborate lungo quasi un ventennio, confluiranno nella storia dell'Autonomia organizzata e nell' arcipelago delle formazioni armate. Altri militanti si disperderanno nella miriade di gruppi, gruppetti, collettivi. Alcuni rientreranno o entreranno per la prima volta nei partiti storici della sinistra, sarà questo il caso di Franco Piro che s'iscriverà al Psi e di Antonio Romiti che entrerà nel Pci e diventerà uno dei testi chiave del processo 7 aprile. Cessa la pubblicazione «Potere operaio del lunedì». Negli ultimi numeri, partendo dai fatti cileni, aveva insistito sulla necessità strategica della militarizzazione: «La rivoluzione è all'or-dine del giorno», «per i comunisti la guerra civile è una legge, ed è da questo punto di vista che va affrontato il problema della sua preparazione» un unico criterio deve valere «anticipare il nemico sul terreno della guerra civile». Non teoria ma preparazione concreta: «accumulare i fucili e prepararsi alla clandestinità» e ancora: «preordinare ogni azione, ogni articolazione del-l'iniziativa a quest'unico fine, vedere l'azione di massa riferita a quest'unico fine, l'azione legale e quella illegale riferita a quest'unico fine, l'iniziativa militare diretta a questo unico fine» M. Sull'ultima pagina di «Potere operaio» del novembre, drammatica e minacciosa parola d'ordine che anticipa i cupi anni di piombo, lo slogan: «mai più senza fucile!».
NOTE 1 E. Pasetto - G. Pupillo, II gruppo «Potere operaio» nelle lotte di Porto Marghera: primavera '66 - primavera 70, «Classe», n. 3 Novembre 1970; Cfr. G. palombarini, «7 Aprile: il processo e la storia», Arsenale cooperativa editrice, 1982, pp. 39-48. 2 L'ultimo numero della rivista è del 1° gennaio 1969 (direttore responsabile: Francesco Tolin; capiredattori locali: Guido Bianchini, Marcello Pergola, Piero Caneti). La raccolta completa di «Potere operaio» (1967-1969) è stata ristampata dalla Cooperativa libreria Calusca di Padova nel 1980. 3 Per la storia del gruppo romano di Potere operaio, cfr. O. Scalzone, «Biennio rosso», Sugarco edizioni, 1988. 4Operai ed elezioni, «Potere operaio», n. 9, 10 maggio 1968. 5 Cfr. «Porto Marghera-Montedison: estate 1968», a cura di Potere operaio, edito dal centro G. Francovich, Libreria Feltrinelli, 1968. 6 Cfr.; M. Cacciari, Problemi teorici e politici dell'operaismo nei nuovi gruppi dal '60 a oggi, in «Operaismo e centralità operaia», Editori Riuniti, 1978; G. Palombarini, II «7 aprile: il processo e la storia», cit. 7 Cfr.: L. Bobbio, «Lotta continua: storia di un'organizzazione rivoluzionaria», Savelli, 1979. 8 Cfr.: R. Luperini, Da Potere operaio a Lotta continua. Note di cronaca e appunti per un bilancio critico, «Nuovo impegno», n. 17-18, gennaio 1970; G. Vettori, «La sinistra extraparlamentare in Italia», Newton Compton Italiana, 1973. 9 Cfr.: R.Luperini, cit. 10Appunti sul lavoro di fabbrica del «Potere operaio», «Nuovo impegno», n. 11, aprile 1968. 11 Cfr.: La scuola e gli studenti, Libreria Feltrinelli, 1968; Su alcune posizioni del movimento studentesco di Torino, «Nuovo impegno», n. 11, cit. 12 «Giovane critica», n. 19, inverno 1968-1969. 13 Cfr.: «Nuovo impegno», n. 14/15, aprile 1969. 14 «Potere operaio», n. 1, 18-25 settembre 1969. 15 ibidem. 16 «Potere operaio», n. 3, 2 ottobre 1969. 17 G. Viale, «Il sessantotto fra rivoluzione e restaurazione». Mazzetta, 1978, p. 64. 18Dirczione operaia delle lotte, «Potere operaio», n. 3, 2 ottobre 1969. 19ibidem. 20 «Potere operaio», n. 6, 23-29 ottobre 1969. 21Torino: provocazione e repressione, «Potere operaio», n. 2, 25 settembre-2 ottobre 1969. 22Fiat: contro il delegato di linea, «Potere operaio» n. 2, 25 settembre-2 ottobre 1969. 23Lotta di fabbrica e lotta sociale, «Potere operaio», n. 3, 2-9 ottobre 1969. 24Dirczione operaia dell'organizzazione proposte dei compagni di Firenze per il coordinamento operaio, «Potere operaio» n. 6, 23-29 ottobre 1969. 25Le nuove/orme di organizzazione operaia, «Potere operaio», n. 7, 29 ottobre-5 novembre 1969. 26Dopo Pisa, Ibidem. 27 «Potere operaio», n. 9, 20-27 novembre 1969. 28I soli assassini sono i padroni, «Potere operaio», n. 10, 27 novembre-3 dicembre 1969. 29Compagni, non rispettiamo la tregua, «Potere operaio» n. 11, 11-19 dicembre 1969. 30ibidem. 31ibidem. 32 «Potere operaio» 7 febbraio 1970, supplemento al n. 11; cfr.: «Linea di massa», n. 4, 1970, dedicato al convegno di Firenze. 33Contro la scuola, «Potere operaio», n. 12, 14-21 febbraio 1970; cfr.: «Linea di massa», n. 3, 1969; Direzione operaia delle lotte studentesche, «Potere operaio», n. 4, 9-16 ottobre 1969. 34Interesse operaio contro lo stato sociale, «Potere operaio», n. 16, 21-27 marzo 1970. 35Compagni, «Potere operaio», n. 19, 18-25 aprile 1970. 36ibidem. 37ibidem. 38 «Potere operaio», n. 31, 15 ottobre 1970. 39 «Potere operaio», n. 31, 15 ottobre 1970. 40Alle avanguardie per il partito, supplemento al n. 36 di «Potere operaio», 1970. 41 Cfr.: «Potere operaio», n. 37, 31 marzo 1971. 42 Cfr.: «Potere operaio», n. 38/39, 17 aprile 1971. 43ibidem. 44 G. Calogero. Sentenza istruttoria del 7 aprile. Cap. V, pp. 770-771. 45ibidem. 46 T. Negri, «Crisi dello Stato piano», Feltrinelli, 1974, p. 61. 47 «Potere operaio», mensile, n. 44, dicembre 1971. 48ibidem. 49ibidem. 50 T. Neghi, «II dominio e il sabotaggio», Feltrinelli, 1978, p. 47. 51Che cos'è Potere operaio, «Potere operaio», mensile, n. 44, dicembre 1971. 52 ibidem. 53ibidem. 54 Cfr.: Alle avanguardie per il Partito, cit.. 55 Cfr.: Su questa nozione di «nuovo estremismo» cfr.: P. Franchi, Note per un'analisi delle componenti politico-culturali dell 'estremismo e del terrorismo, in B. Bertini, P. Franchi, U. Spagnoli, «Estremismo, Terrorismo, Ordine Democratico», Editori Riuniti, 1978. 56 Che cos'è Potere operaio, cit.. 57 Volantino del 13 dicembre 1971, «Potere operaio», mensile, n. 46, febbraio 1972. 58 G. Calogero, Sentenza istruttoria del 7 aprile. Cap. V, p. 773. 59 Cfr.: G. Palombarini, «7 aprile: II processo e la storia», cit., p.84; G. bocca, «I caso 7 aprile, Toni Negri e la grande inquisizione», Feltrinelli 1980, in particolare pp. 70-86. 60 Cfr.: Documento del febbraio 1972 firmato Militanti Romani del Manifesto proletari dell'Autonomia operaia. E ancora: Documento del marzo 1972 firmato da 12 ex militanti del Collettivo politico Enel in «Autonomia operaia», Savelli, 1976, p. 20 e sgg. 61 «Potere operaio», mensile, n. 47/48, maggio-giugno 1972. 62Un rivoluzionario è caduto, «Potere operaio del lunedì», n. 5, 26 marzo 1972. 63 «Avanguardia operaia», n. 8, 22 aprile '72. 64«Processo Valpreda», 10 marzo 1972. 65 «Potere operaio del lunedì», n. 12, 28 maggio '72. 66Cfr.: «Potere operaio», mensile, n. 49, giugno 1972. 67 «Potere operaio del lunedì», n. 14, 18 giugno 1972. 68 «Potere operaio del lunedì», n. 57, 18 giugno 1973. 69 Cfr. G. Palombarini, «7 aprile: II processo e la storia», cit., pp. 81-103. 70 Cfr.: «Potere operaio del lunedì», novembre 1972 - «Potere operaio del lunedì», gennaio 1973. 71Brigate rosse, gennaio '73, «Potere operaio del lunedì», n. 44, 11 gennaio 1973. 72Chi è senza -peccato, «Potere operaio del lunedì», n. 46, 25 marzo 1973. 73«Potere operaio del lunedì», n. 61, 16 luglio1973. 74 «Potere operaio del lunedì», n. 57, 18 giugno 1973. 75ibidem. 76ibidem. 77ibidem. 78 Cfr.: Lettera di Lotta femminista, ibidem. 79 «Potere operaio del lunedì», n. 61, 16 luglio 1973. 80 «Diario Extraparlamentare», «L'Espresso», 25 novembre 1973. 81 «Potere operaio del lunedì», 5 novembre 1973.
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