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- Franco Ottaviano - La Rivoluzione nel Labirinto (1956 - 1980)
- Introduzione
- Volume Primo
- Capitolo I - Critica la revisionismo e riformismo
- Capitolo II - Dal controllo al potere operaio
- Capitolo III - I marxisti-leninisti
- Capitolo IV - La cultura militante
- Capitolo V - Il Sessantotto: la rivolta degli studenti
- Capitolo VI - Le strategie della tensione
- Capitolo VII - Il Maoismo e il Neostalinismo dell'Unione dei comunisti
- Capitolo VIII - Potere operaio: il partito dell'insurrezione
- Volume Secondo
- Capitolo IX - Lotta Continua: spontaneità e organizzazione
- Capitolo X - Dal Manifesto al PDUP
- Capitolo XI - Avanguardia operaia
- Capitolo XII - La lotta armata
- Capitolo XIII - Sulle ceneri dei gruppi: l'autonomia
1956-1980 - Franco Ottaviano - La Rivoluzione nel Labirinto - Rubbettino Editore 1993
INTRODUZIONE |
«La parola "rivoluzionario" si può applicare solo alle rivoluzioni il cui fine è la libertà» |
A.N. Condorcet |
Oggi, dopo i terremoti politici del 1989 e nella diffìcile ridefìnizione di una possibile sinistra, il termine «rivoluzione» appare sospetto, in disuso, quasi esorcizzato da ogni riscrittura di teoria e cultura politica. Eppure, negli anni della modernizzazione italiana, questa idea-mito con la sua forza simbolica è stata costitutiva della politicizzazione di più generazioni, ragione del loro collocarsi a sinistra e sentirsi parte di movimenti che volevano cambiare il mondo. Utopia e speranza attorno alla quale si è divisa ma anche estesa la cultura della sinistra in Italia. Gli stessi fallimenti della rivoluzione socialista, lo stalinismo come le tirannie del cosiddetto socialismo reale, erano parte del mito e quasi come riscatto ad essi si rispondeva con l'ansiosa ricerca di restituire valore a una rivoluzione che poteva subire sconfitte, battute d'arresto e persino tradimenti ma restava il fine dell'agire politico. |
Dopo la ricostruzione che segue il dopoguerra e agli albori di una industrializzazione enfatizzata quanto irrazionalmente gestita, entrano in crisi di logoramento le condizioni che avevano consentito la temporanea vittoria del togliattismo sull'eterogeneo e frastagliato universo della sinistra e del sinistrismo italiano. Gli sconvolgimenti sovietici, dalla denuncia dei crimini di Stalin alla svolta del XX congresso del Pcus, depotenziano il rapporto dinamico fra prospettive della rivoluzione socialista e democrazia progressiva che era la scommessa storica di quella cultura politica. Un equilibrio precario che tuttavia era interno ad un progetto rivoluzionario e si legittimava in quanto era parte di un orizzonte più ampio: i destini del paese che per primo aveva realizzato il «socialismo» e del suo antagonista la democrazia occidentale. Il meno sta nel più, e quindi la democrazia poteva situarsi nell'orizzonte più generale del socialismo ma, resa dubbia questa prospettiva, il meno perdeva senso e diventava, nella migliore delle ipotesi, il meglio dell'esistente. Uno smarrimento a cui non sapranno rispondere né le prudenze del «revisionismo» del Pci né il pragmatismo del riformismo socialista degli anni sessanta. Le lotte, per quanto aspre, non fuoriescono da una dialettica governo-opposizione, rispettosa dei ruoli assegnati ma incapace di tradurre in forme della rivoluzione moderna il diffìcile rapporto democrazia e socialismo in una società che scopre la sua complessità e rivendica nuove libertà e nuove eguaglianze. |
Sullo sfondo delle divisioni del movimento operaio internazionale, tornano le antiche schizofrenie della sinistra italiana, si origina la diversa collocazione dei suoi partiti e — simmetricamente — al crescere della loro rissosità e dei loro limiti interpretativi emerge un bisogno di rifondazione ancora troppo ipotecato dal dilemma tradizione-innovazione. Al mutarsi degli scenari internazionali si combina il mutarsi dei conflitti di classe e la natura dei soggetti in campo. Se il capitalismo si modernizza, la rivoluzione non trova la sua modernità. Il capitalismo e la sua forma politica più compiuta, la democrazia, sembrano divenire gli unici motori di un progresso effimero, consumistico, fatto di nuove e più sofisticate tecniche di manipolazione e dominio. In questa transizione la sinistra, con i suoi partiti, non supera la sfida della sua rifondazione. I suoi rinnovamenti, le sue svolte, appaiono unicamente il riconoscimento del valore del nemico e delle sue categorie politiche, istituzionali e culturali. |
I tempi della politica e i tempi sociali entrano in rotta di collisione, un vuoto che solo la radicalità e la volontà sembrano poter colmare. Da ciò l'esigenza, prima ancora che politica esistenziale, di una rivoluzione senza aggettivi, sinonimo di cambiamento, mutazione, trasformazione, rivolgimento...; sinonimo di criticità al mondo industriale, al consumismo, al progresso senza qualità e valore ... immaginario collettivo che sarà dentro e oltre le dimensioni note della politica, ne sarà un fattore dinamico ma al tempo stesso ne sarà soffocato, incapace di mutarne i codici pur avendoli messi in discussione. Anche la violenza è parte di questi codici: «la rivoluzione non è un pranzo di gala», recitava una abusata citazione di Mao e, da Cuba, Castro e il Che ricordavano — contro ogni intellettualistica esitazione — «il dovere di un rivoluzionario è fare la rivoluzione». |
Il rischio dell'errore e la violenza, da «mucchio selvaggio» o da «quella sporca dozzina», erano parte del fascino di un ignoto che si sperava comunque e, a ogni costo, migliore. Alla convinzione che senza distruzione nulla si poteva costruire corrispondeva una distruzione vissuta con gioiosità e immaginazione, ma pur sempre tale, anche se le sue conseguenze e i suoi costi non si mettevano nel conto dell'immediato. |
Prima della scienza e della razionalità politica, ammesso che esista, veniva il desiderio di un mondo diverso. Aggrapparsi ai modelli, fossero essi la Russia, la Cina, Cuba, l'America Latina, era paura di non farsi capire, era pensare che in qualche parte del mondo il sogno non era sogno ma una realtà in costruzione e ciò lo rendeva concreto, comunicabile e traducibile. Contestazione della tradizione rivoluzionaria, rispetto acritico e divulgazione di modelli ed esperienze assunte a emblema di rivoluzioni possibili, si sovrappongono in una ricerca e una pratica politica il cui tema implicito diventa: quale trasformazione, per quale modernità. Come in uno specchio deformante la «sinistra da farsi» combatte con la sua storia, con la vetustà delle categorie che vuole riformulare, con l'obsolescenza delle sue forme organizzative. Uno scontro in cui perde se stessa, divisa fra una lotta a un revisionismo inesistente e una rivoluzione evocata ma confusamente dispersa nel labirinto che essa stessa costruisce. |
Questo lavoro (storia, resoconto, cronaca, comunque lo si voglia giudicare) è la descrizione di questo ipotetico labirinto e delle generazioni che vi si sono avventurate. Da ciò la struttura del testo: la narrazione ellittica e il rifiuto di una sintesi compiuta. |
La prima parte, dal 1956 al 1976, affronta la critica al revisionismo e la nascita del sinistrismo. Nell'Italia del miracolo economico il sorgere di una cultura critica al sistema e ai tradizionali partiti del movimento operaio. La preistoria del Sessantotto, l'esplosione della contestazione studentesca e operaia, la controffensiva di una «democrazia» impaurila e incapace di rispondere alle speranze e al sommovimento sociale di quegli anni fino a farsi essa stessa sovversione. |
La seconda parte è la storia dei partiti del sinistrismo dopo il Sessantotto. Tra movimento e organizzazione la ricerca di forme antagoniste dell'agire politico. Dalla critica delle parole alla critica delle armi, tra paura del golpe e mito dell'insurrezione, i vari volti del partito armato e le tragiche premesse dei nostri anni di piombo. |
La terza parte ricostruisce il drammatico svolgimento dei governi di solidarietà democratica, l'esplodere del conflitto fra quadro istituzionale e antagonismo sociale, infine la «follia» armata del terrorismo e la sua sconfitta. |
Pur nell'organicità complessiva i singoli capitoli hanno una loro autonomia, ciò ha comportato inevitabili ridondanze: ai capitoli sulle diverse esperienze, al succederei delle vicende politiche, si intreccia la rivisitazione dei pensieri e delle pratiche della rivoluzione. Ho preferito che l'oggettività della cronaca, il linguaggio spesso astruso dei documenti, il lessico d'epoca, si confondessero con la soggettività che ha guidato l'assemblaggio dei fatti, cercando di significare un clima in cui oltre, e forse più, degli eventi hanno contato suggestione, miti, forza di comunicazione. |
Più volte mi sono chiesto se, piuttosto che attardarmi nella ricostruzione, oscillando fra fatti e idee, non fosse più giusto procedere per sintesi concettuali, magari arrischiarmi nel territorio già molto frequentato delle supposizioni e delle piste giudiziarie. La narrazione assunta alla stregua di un tempo vissuto, riproposta come un presente-passato, priva di quella presunzione dell'oggi che cerca sempre vincitori e vinti mi è sembrata più efficace a rappresentare la complessità del «labirinto», un intrigo formato dai molti e segmentati percorsi del conflitto rivoluzione-modernità. |
All'incolmabile divario fra aspettative e esiti delle rivoluzioni comuniste si accompagna il crescere della contraddizione fra domanda di liberazione e sfruttamento dei sistemi democratici. Ma l'utopia del nuovo non recide i legami con il suo passato, non sa proclamare fino in fondo le sue necessarie discontinuità. Mentre altre culture, basti pensare al grande significato del femminismo, suggeriscono e reclamano un'altra idea di rivoluzione sconvolgendo ragioni, categorie, nomenclature politiche di una sinistra prigioniera della sua tradizione e, per le sue stesse ragioni d'origine, condannata al ritardo. Ribellismo e violenza, ideologismo e politicismo, contrapposizione fra mitica ora X e quotidianità, fra individuo e collettività sono interni a questa tradizione. Troppo preoccupata a difendere le sue ragioni, piuttosto che rinnovarle, la sinistra non inventa la sua «nuova» rivoluzione. |
L'esito attuale di quei processi che, a torto o a ragione, le culture marxiste hanno definito rivoluzionari come altro possono leggersi nei loro fallimenti, se non come temporanea sconfitta di fronte al moderno? Categoria non astratta ma prodotto concreto della dialettica fra due antinomie, ognuna con le proprie strutture, idee, culture politiche e opzioni sociali, fra loro concorrenti pur tuttavia interagenti: capitalismo — non so usare un altro termine, per quanto arcaico esso possa apparire — e tutte quelle forme, lotte, soggetti storici che sono stati altro da ciò che il «capitalismo» e la sua storia richiamano. Paradossalmente estremismo, sovversivismo e persino la barbarie del terrorismo altro non sono stati che aspetti di questo groviglio non sciolto. Non la semplice deviazione di una cultura politica, bensì espressioni parziali, limitate, di un'utopia; forme ambigue e drammatiche di una ricerca la cui soluzione, ulteriore paradosso, sembra coincidere col suo compiersi. Dalla crisi del comunismo conosciuto e al tempo stesso dai valori e dalle idealità che lo hanno originato, nasce il precipitato di soggettività, azioni e teorie che forma il labirinto, un labirinto che si costruisce in progress, quasi per superfetazioni; dall'incapacità di uscirne si generano inconsapevolmente, più intricate figurazioni, percorsi, smarrimenti. |
Anche il rapporto comunismo-democrazia, costitutivo dell'esperienza del movimento operaio italiano, è parte dello scenario. Non potrebbe essere altrimenti di fronte alle «promesse mancate» di una democrazia che priva di qualità, vanifica i suoi, presupposti e resta incapace di misurarsi con l'utopia comunista che a sua volta si imbarbarisce nel suo farsi Stato, regime, potenza. |
Il labirinto si infittisce di immagini distorte, false prospettive, speranze di rapide vie d'uscita. La paura di rimanere imprigionati porta con sé la fretta delle facile, quanto illusorie scorciatoie. Tradizione e vetustà dei marxismi si fanno ostacolo al loro rinnovamento. |
Esistono due storie del sinistrismo, espressione che preferisco a quella di estremismo. La sinistra tradizionale ha scritto una storia al negativo, tutta finalizzata a dare conto della propria giustezza di linea; al contrario il gruppismo ha scritto resoconti da marcia trionfale. Ma assumendo l'idea della trasformazione come ragione interpretativa, c'è da chiedersi — con maggior rigore e senza nessun continuismo — se queste letture non siano, in qualche forma, da ricongiungersi per affrontare in radice il limite che esprimono: l'incertezza, lo sbandamento, di cui è circondata la prospettiva della rivoluzione dalla fine della guerra fredda. |
Ho esitato nello scegliere il titolo e, come spesso accade, ho cercato opinioni e consensi fra amici e compagni. In questa ricerca mi ha sorpreso il giudizio di un amico di giovinezza, ora dissociato. Alla mia proposta, «la rivoluzione nel labirinto», ha controproposto: «la rivoluzione compiuta». Sono rimasto perplesso, l'ipotesi però mi ha intricato. Non ho seguito il suggerimento, sebbene mi sia interrogato sul significato ambiguo e provocatorio del controtitolo. Per la sua storia personale, non ho voluto chiedere spiegazioni, ho lasciato il discorso nel vago, forse preoccupato di scorgere in quella indicazione la retorica del reduce di una battaglia oltre che il naturale darsi ragione di una scelta di vita pagata in prima persona, sulla propria pelle come tanti giovani in quegli anni. |
È rimasto il titolo originale. Ho continuato a pensare fosse più proprio al senso che anima questo lavoro; cioè il disperdersi di un desiderio rivoluzionario che — irrealizzato — nel suo svolgersi si è fatto persino follia desiderante e atroce. Eppure, riflettendo ancora sulla proposta non accolta, credo anch'io che in virtù di quella dispersione qualcosa si sia compiuto, non solo nella coscienza di una società ma nell'idea stessa di rivoluzione. E, forse, in questo mutamento sta il suo compimento: oggi chiunque agisca e speri in un assetto «altro» dalla società presente dovrà pensare in termini radicalmente inediti alla «rivoluzione», consapevole che in primo luogo essa deve essere «altro» da ciò che quel termine nelle storie e nelle pratiche recenti e passate ha significato e prodotto. |