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CRITICA AL REVISIONISMO E AL RIFORMISMO
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1. Un nuovo estremismo
Operaisti e maoisti: in questi due filoni fondamentali si è soliti incasellare la genealogia dell'estremismo a partire dai primi anni sessanta. La schematizzazione, pur utile e indicativa, non basta: l'area del dissenso è assai più vasta. La lingua francese permette una maggior chiarezza di quella italiana nella definizione del fenomeno. Il termine «estremismo», infatti, si collega direttamente al marxismo, ne rappresenta un'ipotetica devianza, mentre gauchismeindica qualcosa di più eterogeneo, che tradotto in italiano sarebbe più o meno «sinistrismo». Nel linguaggio politico e nella pubblicistica si è usato di tutto: gruppettistica, extraparlamentarismo, nuova sinistra, nuove avanguardie, sinistra radicale. A questa terminologia si è aggiunta la selva dei vecchi «ismi» mutuati dalla storia del movimento operaio: spontaneismo, anarchismo, operaismo. Una congerie di termini e una babele di definizioni politiche che testimoniano la difficoltà di ricondurre a unità un fenomeno complesso e contraddittorio. Lo stesso inquietante e drammatico sviluppo del terrorismo rosso finisce con 1 essere demonizzato ed estraniato dal corso reale della storia politica italiana se non si riconduce a una sostanziale rottura operata con la tradizione del movimento operaio e a una separazione conflittuale fra le prospettive politiche della sinistra e le ragioni dell'espansione e dei fallimenti del nuovo estremismo. Non si tratta di costruire forzose continuità, una sorta di accidentato percorso che, partendo dai gruppi e passando per il nodo politico del Sessantotto, porti ineluttabilmente al terrorismo, quanto invece di comprendere le relazioni e le specificità delle diverse fasi di trapasso, i nessi che si vengono a stabilire per contiguità, rottura, fallimento, prolungamento teorico. Situare, dunque, questa eclettica cultura e pratica politica all'interno del più generale conflitto sinistra-modernità. Problematicamente assumerla come testimonianza, anche tragica, di una crisi di interpretazione e di risposta al binomio trasformazione-rivoluzione. La critica al «revisionismo», nelle caratteristiche che assume nella seconda metà degli anni cinquanta, rappresenta il punto d'origine di una profonda cesura nella pratica e nella teoria del movimento operaio. L'avvio della formula di centro-sinistra ratifica, a livello di quadro politici, l'evolversi di grandi trasformazioni, rappresenta e concorre ad alimentare speranze che saranno disattese. Le illusioni riformiste si infrangono di fronte alla natura del capitalismo italiano e il tanto decantato miracolo economico ben presto svela le sue asfissie e le sue strettoie. La società italiana si trasforma radicalmente e insieme cambiano le coscienze e i comportamenti di massa. Il tutto mentre muta l'insieme delle relazioni internazionali. Novità sociali, economiche e politiche sono decisive per .comprendere e inquadrare il sorgere e l'articolarsi dell'estremismo nel nostro paese. Non si tratta di una riproduzione allargata - della tradizionale nomenclatura estremistica, ma piuttosto, con l'apporto di nuove suggestioni teoriche e culturali, di una dilatazione dei richiami originali. Essi diventano mera citazione fino a perdere ogni referente storico. Si forma un eclettico corpo teorico che si innesta su una nuova dimensione dei conflitti sociali. Trasformazioni qualitative e quantitative cambiano il segno ai tradizionali «ismi», determinano una «questione dell'estremismo» in cui si combinano il travaglio delle forze di sinistra e l'emergere di nuovi soggetti impegnati nelle battaglie di rinnovamento, spinti da una nuova domanda politica. La «fine» dello stalinismo, il tipo di sviluppo capitalistico, l'assunzione acritica di nuovi modelli rivoluzionari, la scesa in campo di una giovane classe operaia, sono nelle loro interdipendenze e intersecazioni il terreno di analisi e nello stesso tempo lo scenario di un fenomeno non solo italiano bensì immediatamente rapportabile a un orizzonte europeo e mondiale . È questa la base necessaria per comprendere gli orientamenti e le tensioni sociali da cui si origina e si sviluppa l'espansione organizzativa dell'estremismo nelle sue varie articolazioni. Non è possibile ridurre a una semplice geografia di posizioni l'ampiezza e l'estensione di un fenomeno le cui eterogenee componenti sono dentro la qualità del sommovimento politico e sociale di quegli anni. I forti sconvolgimenti strutturali che investono la società italiana hanno la loro proiezione nella vita culturale: crisi del pensiero storicista, frettolose riletture del marxismo, segni di nuovo radicalismo coinvolgono ambienti intellettuali di diversa matrice e ispirazione, mentre dubbi e interrogativi di grande portata travagliano i militanti dei partiti operai . Il mostro moderno è il neocapitalismo: sostenitori e detrattori, in realtà, convergono nel sopravalutarne la forza. Il faticoso processo che porta al centro-sinistra, le risultanze del XX congresso del Partito comunista sovietico e le sue ripercussioni sul piano internazionale, diventano nodi politico-temporali da cui — come effetto e conseguenza — prendono le mosse la formazione dei primi gruppi estremistici e le prime sperimentazioni in contrapposizione ai partiti della sinistra. L'estremismo nasce nel travaglio di un movimento operaio alla ricerca del suo rinnovamento, progressivamente se ne distacca e sceglie proprie strade: «operaismo» e «maoismo», i poli di una dialettica, gli opposti, che nel loro progredire sfumano le proprie differenze fino a confondere le reciproche identità. Riconducibili al primo, quelle esperienze che passando per i «Quaderni rossi», attraverso il dibattito di «Classe operaia», alimentano per gemmazione i vari gruppi del Potere operaio e le sue derivazioni, dirette o indirette, sorte per travaso di quadri, per successive fusioni. Per i «marxisti-leninisti» punto di partenza sono le posizioni cinesi e il pensiero di Mao Tse-tung. Dopo la rottura fra Cina e Urss, due linee si scontrano nel movimento operaio internazionale. Da «Viva il leninismo», giornale del gruppo di Padova, si passa alle varie fasi di aggregazione: la Federazione marxista-leninista, il Partito comunista d'Italia (marxista-leninista). Un pullulare di sigle, un'altalena di scissioni e lotte interne, un proliferare di gruppi e gruppetti, un perenne oscillare fra autoesaltazione da nuovo partito rivoluzionario e desolata proclamazione del suo fallimento. Nella diversità unifica le sigle e il composito sperimentalismo la critica al revisionismo. Una critica che si alimenta dell'illusione di un capitalismo maturo capace di gestire e condizionare ogni forma di sviluppo e\da cui fa derivare la radicale inconciliabilità fra socialismo e capitalismo. La paura del neocapitalismo e l'utopia rivoluzionaria sono le convergenti risposte al rischio di integrazione: una fuga dalla quotidianità per esaltare quella soggettività che porterà all'esplosione sessantottesca, emblema di questa carica liberatoria. Nelle giornate del movimento, il «gruppo» in quanto tale avverte i limiti della propria esperienza ristretta, non tollera il suo stato minoritario e cerca nuovi moduli organizzativi. Vuole uscire dalla morsa del «revisionismo», accreditarsi fra le «larghe masse» operaie e popolari, superare la contraddizione avanguardia-movimento. Una lotta al revisionismo che va oltre la conosciuta dimensione della politica, un combinato di ideologia e moralismo, cementato da nuove curiosità intellettuali e insieme dal bisogno di semplificazioni. Ai tempi della politica si sostituisce la fretta dell'utopia rivoluzionaria, alla politica si chiedono nuovi valori. Nel corso di un aspro dibattito condizionato dai rapidi mutamenti della società italiana, crescono le tappe di una sperimentazione politica che produce una netta e insanabile divaricazione fra area estremistica e partiti storici della sinistra. In meno di un decennio si accelerano i tempi di una fuoriuscita di esperienze e metodi politici che si pongono sempre più in modo antagonistico alla teoria e alla pratica della sinistra italiana. L'inconciliabilità è col «revisionismo». Dal gruppo di pressione si passa a un nuovo estremismo non più assimilabile a desuete tipologie del dibattito in seno al marxismo e al movimento operaio organizzato; piuttosto un trasversalismo di culture politiche che tra, continuità e discontinuità con le loro stesse origini, disperderanno i loro desideri di «rivoluzione» in un labirinto di esperienze. Negli anni compresi tra il '56 e il '68 si consumerà il primo passaggio. Il tumulto sessantottesco originerà i minipartiti dell'estremismo e all'interno di questi, a volte per consunzione, darà vita a quegli spezzoni organizzativi che più tardi, dopo fugaci illusioni, precipiteranno nella paura del golpe e passando per il mito della clandestinità finiranno col transitare verso la scelta terroristica. Nella seconda metà degli anni cinquanta la sinistra italiana è attraversata da una radicale crisi d'identità. In discussione è tutta la sua storia e l'ampiezza delle questioni supera gli schieramenti ideologici per congiungersi alle tensioni che scuotono il cattolicesimo progressista. Attorno alla complessità teorica della via italiana al socialismo, il Pci inizia la sua opera di rinnovamento e di adeguamento alle novità politiche e sociali. Nel Psi, non senza contrasti, prende corpo e si afferma una completa revisione di linea che porterà alla rottura dell'unità d'azione con i comunisti, condizione questa indispensabile per la riunificazione con la socialdemocrazia e per l'ingresso nell'area di governo. Di fronte al crollo del mito di Stalin e alla divisione del campo socialista, ci si interroga sulla natura e sui valori del socialismo: una riflessione dolorosa che chiama in causa la totalità dell'esperienza condotta dall'Urss e dai partiti operai. Espressione di questo clima, denso di ansie di ricerca e di bisogni di nuove libertà, l'ipotesi di una «rifondazione della sinistra» avanzata da Raniero Panzieri sulle pagine di «Mondo operaio» e successivamente nei «Quaderni rossi».
Si avvertono inedite esigenze culturali, la necessità di comprendere la qualità del tipo di sviluppo economico, di decifrare gli orientamenti e i comportamenti di una nuova classe operaia, di guardare ai mutamenti delle varie forze politiche. Si presentano del tutto inesplorati gli ambiti dei prossimi conflitti sociali.
Cfr. M. Teodori, Storia delle nuove sinistre in Europa, 1956-76, II Mulino, 1976.
Cfr. N. Badaloni, II marxismo italiano negli anni '60, Editori Riuniti 1971; G. vacca, Politica e teoria del marxismo italiano 1959-1969, De Donato, 1972.
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2. Cambiano gli scenari
Gli anni compresi tra il 1953 e il 1963 sono anni di sconvolgimento per l'economia nazionale. Si esce dalla fase della ricostruzione e, superata l'opera di risanamento delle strutture produttive e del consolidamento del sistema finanziario, dal '53 inizia il decollo economico, in concomitanza con l'apertura di un nuovo ciclo dell'economia europea. In meno di un decennio l'Italia muta le sue caratteristiche strutturali, si trasforma da paese prevalentemente agricolo in paese industriale. I lavoratori impiegati in agricoltura passano dal 36,6% al 27,0%, mentre quelli dell'industria e delle attività terziarie aumentano rispettivamente dal 29,6% al 38,6% e dal 24,2% al 30,8% . Vaste masse di lavoratori agricoli si trasferiscono al lavoro industriale. Dalle campagne è un vero e proprio esodo, una grande migrazione interna, «biblica» fu definita, che rivoluziona l'assetto territoriale, provocando lo spopolamento di ampie zone insieme all'esplosione delle città. Sono gli anni della Roma delle borgate e della Milano delle «coree». Al gonfiamento delle aree urbane si accompagnano le manovre speculative: è l'epoca dello scandalo urbanistico. Sul finire degli anni cinquanta si parla di «miracolo economico», un miracolo economico che già nel '61 e in modo più evidente nel '63-'64 manifesta i suoi limiti. Lo sviluppo disordinato e l'indiscriminato aumento dei consumi provoca ulteriori profonde contraddizioni. Componente decisiva del salto di qualità compiuto dall'economia nazionale è la grande massa dei disoccupati (attorno ai due milioni fino al '56) che, accresciuta da quella dei lavoratori agricoli e da quella femminile, si sposta nella fabbrica: uno sterminato esercito che, pur di essere strappato dalla propria condizione, è pronto anche a ricevere una retribuzione inadeguata. Presto sarà una nuova classe, quella della «riscossa operaia». Scoprirà, insieme alla condizione di fabbrica, nuove forme di lotta, diverrà la protagonista del rinnovamento sindacale. Con l'assorbimento di mano d'opera nell'industria e nell'edilizia si ha un rallentamento delle correnti di emigrazione verso l'estero e addirittura un aumento dei rientri di lavoratori emigrati. Sembra che uno dei problemi endemici del paese, quello dell'occupazione si avvii a soluzione. È una speranza di breve durata. Negli anni successivi al '63, come conseguenza della recessione economica, il numero dei disoccupati aumenterà nuovamente e sarà solo parzialmente assorbito dalla successiva ripresa produttiva. Nel triangolo industriale e nelle grandi aree urbane interessate dall'immigrazione delle masse contadine e meridionali si concentrano esplosive tensioni sociali. Le contraddizioni legate ai problemi di inserimento sono rese più acute dalla completa inadeguatezza di tutte le strutture civili. La radicalità delle trasformazioni che investono la società italiana, le abitudini di vita, le stratificazioni sociali, i costumi, la natura dello stesso scontro di classe, trova impreparate le forze della sinistra che registrano difficoltà, resistenze e timidezze. I tradizionali strumenti interpretativi sono insufficienti e inadeguati: si cercano nuove forme di indagine del «sociale», cresce l'interesse per gli studi sociologici. Il superamento del centrismo e la formazione di un diverso quadro politico risulteranno lunghi ed estenuanti. Il progetto di centro-sinistra si concretizzerà quando gli effetti del miracolo economico saranno già spenti. La «grande mutazione» scuote tutto il sistema politico: per i partiti italiani è la stagione del rinnovamento. Nel faticoso procedere verso il centro-sinistra è decisivo lo spostamento della Dc. Mentre matura una diversa consapevolezza nel mondo cattolico, sembrano cadere vecchi steccati, e avanzano nuove forme dell'impegno sociale a premessa di originali milizie politiche. Dopo la sconfitta della strategia centrista, anche se in modo contraddittorio, si delinea nella De la necessità di una nuova prospettiva politica: l'«apertura a sinistra», una prospettiva che troverà la sua applicazione solo dopo la caduta del governo Tambroni nel luglio '60. Ma ci vorranno ancora quattro anni per il primo centro-sinistra organico. L' improponibilità numerica di una formula centrista, accompagnata dall'urgenza di far fronte alla spinta di rinnovamento che si esprime nel paese, impongono alla De la ricerca di «nuovi equilibri». Il rapporto col Psi, che De Gasperi sin dal congresso di Napoli del '54 aveva definito «fondamentale per lo sviluppo democratico in Italia», diventa tema dominante. L'obiettivo è la rottura dell'unità a sinistra. Favoriscono il progetto democristiano i mutamenti interni del Psi. La battaglia della sinistra socialista per contrastare il definitivo spostamento a destra del partito avviene negli anni compresi tra il '55 e il '62, tra il congresso di Napoli e quello di Venezia. Ma linee troppo diverse convivono nella sinistra socialista: l'elaborazione di Raniero Panzieri che approderà allo sperimentalismo sociologico dei «Quaderni rossi»; la linea portata avanti da Dario Valori e, dopo il breve incontro con Panzieri, da Lucio Libertini, che usciranno dal Psi per costituire nel 1964 il Psiup; la linea di Riccardo Lombardi, che rimarrà isolata minoranza. Il dirompente XX congresso del Pcus, unitamente alle novità della fase capitalistica, riattualizzano un problema mai risolto nella pratica e nel pensiero socialista: il valore dell' esperienza leninista e la sua applicazione nei paesi a capitalismo avanzato. Con l'offuscarsi del ruolo dell'Unione Sovietica quale paese guida riaffiorano le antiche polemiche ideologiche fra sinistra socialista e Pci. Nello stesso tempo entra in crisi l'operazione, impostata da Rodolfo Morandi, che tendeva a superare le divergenze con il Pci e a comporre massimalismo e riformismo socialista assumendo come quadro di riferimento unitario l'esperienza sovietica e lo stesso stalinismo. Saltato lo scenario di unificazione riemerge il riformismo e, sul versante opposto, la peculiarità della sinistra socialista su temi quali la democrazia diretta, la costruzione di un potere operaio dentro il sistema produttivo. In un mutato quadro economico-politico si ripropongono differenziazioni molto profonde con la teoria togliattiana dello stato «democratico costituzionale» . Gli eventi sovietici accelerano nel Psi il processo di ripensamento sulla strategia seguita dopo la liberazione e la risposta ai mutamenti economici sono le tentazioni da «riformismo dirigista». Le novità strategiche del XX congresso e poi le clamorose rivelazioni contenute nel rapporto Krusciov sulla questione Stalin, aprono un serrato dibattito e un'ampia riflessione nel movimento operaio internazionale. Dopo la conferenza di Mosca degli 81 Partiti comunisti l'approdo sarà la divisione. Il XX congresso prendendo atto delle modificazioni intervenute nei rappòrti di forza sul piano internazionale: l'affermazione della rivoluzione cinese, la partecipazione del Partito comunista indonesiano al governo; i risultati della conferenza di Bandung (1955); riconosce che l'Urss non è più il solo paese socialista, ma dal 1947 — anno della prima riunione dell'Ufficio Informazione — esiste e si è andato consolidando un variegato «campo socialista». Afferma Krusciov, nel suo rapporto al congresso: «La caratteristica della nostra epoca sta nel fatto che il socialismo ha varcato i confini di un solo paese ed è divenuto mondiale» . Dunque il quadro mondiale è caratterizzato non solo dal sistema economico dell'imperialismo ma anche da quello socialista. Ne deriva un modo nuovo di porre la questione della pace e delle relazioni fra i due «sistemi». I nuovi rapporti di forza, l'ampiezza dello schieramento che si batte per la pace, le atroci conseguenze di un conflitto atomico, «una guerra senza ne vinti ne vincitori», sono altrettante condizioni per modificare la politica degli stati imperialisti. Risulta quindi superata la tesi del marxismo-leninismo sulla «inevitabilità della guerra», una teoria elaborata in un periodo in cui l'imperialismoera un sistema generale che comprendeva tutto il mondo e nel quale le forze sociali e politiche contrarie alla guerra erano deboli e scarsamente organizzate per costringerlo alla pace. È possibile tradurre in pratica una politica, peraltro già ipotizzata da Lenin, di «coesistenza pacifica» fra stati a regime sociale e politico diverso. Partendo dalle conclusioni della conferenza di Bandung, e dai cinque principi enunciati in quell'occasione (rispetto dell'integrità e delle sovranità; non aggressione; non ingerenza negli affari interni; parità e vantaggio reciproco; coesistenza e collaborazione economica) l'Urss lancia una proposta di «coesistenza pacifica» alla più grande potenza imperialista. Si apre l'epoca della grande sfida. La lotta per la pace, contro la minaccia nucleare, diventa il fronte più avanzato dello scontro, un terreno nuovo per la lotta di classe; spetta al movimento operaio porsi ali' avanguardia di un ampio schieramento capace di incidere sulla natura stessa dell' imperialismo e modificarne i rapporti di forza su scala mondiale. Inizia la fase del negoziato, dell'impegno a risolvere i conflitti fra opposti sistemi attraverso la trattativa diplomatica. Raggiunta ormai la consapevolezza della specificità dei diversi processi rivoluzionari, realizzatisi e in atto, si traggono tutte le implicazioni della proposta leninista secondo cui: «Tutte le nazioni giungeranno al socialismo. Ma vi giungeranno in modo non del tutto identico; ciascuna darà il suo contributo originale con questa o quella forma di democrazia, con questa o quella varietà della dittatura del proletariato» . Dunque il pieno riconoscimento delle «vie nazionali», una pluralità di esperienze nella costruzione del socialismo, non solo possibile ma necessaria a interpretare e cogliere la ricchezza della nuova epoca. Sulla base di questo presupposto, nel mutato quadro internazionale, la classe operaia, in alcuni paesi capitalistici, può conquistare il potere avvalendosi di tutti gli spazi offerti dalla stessa «democrazia borghese» senza giungere alla «guerra civile».
Il congresso non ha timore a usare l'espressione «via parlamentare al socialismo» espressione respinta con energia dal Partito comunista italiano, che — per evitare ogni fraintendimento — ribadisce la necessità di un intreccio indissolubile fra mobilitazione di massa e lotta nelle istituzioni.
Cfr. G. Mammarella, L'Italia dopo il fascismo 1943-1973, II Mulino, 1974, p. 379 e sgg; G. Tamburrano, Storia e cronaca del centro-sinistra, Fetrinelli, 1971.
Cfr. Introduzione di L. Libertini a La sinistra e il controllo operaio, Libreria Feltrinelli, 1969. Indicativa del dibattito fra le varie anime della sinistra socialista la polemica Morandi-Lombardi all'indomani del XX congresso del Pcus. I testi sono riprodotti in Revisionismo socialista Antologia di testi 1955-1962, «Quaderni di Mondooperaio», 1975, a cura di G. Mughini pp. 3-18.
XX congresso del Pcus, Editori Riuniti, 1956, p. 12.
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3. L'indimenticabile '56
La relazione di Krusciov al XX congresso, pur contenendo molti riferimenti critici all'azione e alla linea di Stalin, non esplicita la condanna. Solo nella storica riunione riservata ai delegati è presentato il famoso «Rapporto segreto».
A metà marzo sulla stampa internazionale appaiono le prime indiscrezioni; nel giugno il «New York Times» pubblicherà integralmente il rapporto.
In Italia la notizia è prudentemente filtrata. Togliatti non ne parla nel comitato centrale del 13 marzo 1956. Su «l'Unità» del 18 marzo se ne dà comunicazione in modo scarno e con palese imbarazzo. Il consiglio nazionale del partito del 3 aprile concentra la sua attenzione sulle imminenti elezioni amministrative. Solo l'ultima parte della relazione di Togliatti affronta gli avvenimenti del XX congresso. Un silenzio che provoca numerose insoddisfazioni. Nella replica, Togliatti corregge la sua impostazione iniziale, ma si limita a inquadrare gli errori di Stalin nel clima fra le due guerre, definito «fosco e cupo segnato da lotte aspre per la vita e la morte» 7.
Liniera sinistra è sconvolta. Novità di linea e crollo di un mito si intrecciano in un dibattito denso, fatto di momenti di sconcerto, crisi soggettive e incredulità. Entra in crisi un legame profondo, un combinato di illimitata fiducia e speranza con la storia dell'Urss e con il suo massimo dirigente.
Il significato della democrazia socialista e i problemi connessi con l'edificazione dello stato socialista sono il nucleo centrale di una riflessione tesa a interpretare il senso profondo degli errori compiuti senza negare i successi, impegnata ad aprire una nuova pagina di lotta politica e di ricerca teorica. In questa ottica si spiega l'iniziale cautela di Togliatti nell'affrontare la questione di Stalin e la tendenza a privilegiare, invece, i temi strategici dell' assise di Mosca e nello stesso tempo a porre l'accento sui rischi della manovra che attorno alle rivelazioni di Krusciov ordivano i paesi imperialisti. Sulla natura di questo attacco, Pietro Ingrao scrive: «...puntò in primo luogo a colpire le ragioni stesse della rivoluzione d'ottobre, a cancellare il grande patrimonio accumulato dalla III Internazionale, a rivalutare la peggiore socialdemocrazia e a scavare nuovi fossati fra le forze di sinistra, tornando a spezzarle e a metterne l'una parte contro l'altra» 8.
Solo nel giugno, con l'intervista a «Nuovi argomenti» si squarciano definitivamente il velo di silenzio e le reticenze, si supera l'impostazione unicamente difensiva. Il documento togliattiano, esplicito nella critica al modo in cui il XX congresso ha affrontato la questione Stalin, rifiuta ogni visione riduttiva tendente ad attribuire tutto il male ai difetti personali di Stalin, per ricondurre l'attenzione del movimento operaio sui processi sociali e politici che sono stati alla base degli errori compiuti: «Sino a che ci si limita, in sostanza, a denunciare come causa di tutto i difetti personali di Stalin, si rimane nell'ambito del "culto della personalità". Prima tutto il bene era dovuto alle sovrumane possibilità di un uomo, ora tutto il male viene attribuito agli altrettanto gravi e, persino sbalorditivi, suoi difetti. Tanto in un caso quanto nell'altro siamo fuori dal criterio di giudizio che è proprio del marxismo» 9. Togliatti, insomma, cerca le ragioni di fondo delle degenerazioni. Il dibattito avviato su «Nuovi argomenti» trova una sua sistemazione conclusiva con l'VIII congresso del Pci (8-14 dicembre 1956), il congresso della via italiana al socialismo. I suoi contenuti strategici: le vie nazionali, il pluralismo, il nesso democrazia-socialismo, il rifiuto di ogni modello di stato socialista, la concezione delle alleanze sociali e politiche e della lotta di classe, saranno al centro della contestazione mossa da destra e da sinistra, dai nuovi riformisti e dai nuovi rivoluzionari. Nella critica si incontrano i nostalgici della dittatura del proletariato e coloro che accusano il Pci della sua storia, cioè di essere stato ed essere ancora ali'ombra dello Stato sovietico e di avere per questo sacrificato una coerente strategia e pratica rivoluzionaria. L' antirevisionismo unifica anime diverse del dibattito della sinistra, offre comuni referenti a un'area eterogenea. Diverse sono le ragioni della critica, diverse le motivazioni che guidano le polemiche, ma esse finiranno per convergere in una comune avversione al partito comunista.
Agiranno come ulteriori detonatori: la Cina, prima con la rottura con l'Urss, poi con la Rivoluzione culturale; le varie sperimentazioni politiche e il significato catalizzatore del Sessantotto. Quella che dal Pci è considerata la piena espansione dei propri presupposti teorici e il solido ancoraggio alla specificità del caso italiano, per una generazione in cerca di certezze e influenzata da molteplici suggestioni culturali che spingono per una rottura drastica degli assetti esistenti, diventa una scelta interna alle regole del gioco, diventa connivenza col sistema.
Con l'VIII congresso il Pci cerca di riaffermare la propria funzione storica e la sua identità, al tempo stesso di realizzare il necessario salto di qualità nella sua iniziativa. Trova conferma l'affermazione di Amendola, un partito «liberato» si proietta in un'analisi originale della specificità italiana. Ma lungo questa strada non mancheranno ritardi e incertezze, ne saranno una testimonianza il IX e il X congresso: l'asse portante del lavoro e dell'iniziativa diventano l'indagine e la ricognizione sulla situazione nazionale, le specificità dell' avanzata al socialismo nel paese. La parola d'ordine è: non rimanere «chiusi in se stessi». Non sarà facile, sono passati pochi mesi dall'approvazione delle Dichiarazioni programmatiche dell'VIII congresso quando esplode il dramma ungherese. Un'altra sconfitta del socialismo.
Non rituale l'ancorarsi di Togliatti, nella sua relazione al congresso, al ruolo nazionale della classe operaia: preme infatti ribadire i principi ispiratori che hanno guidato le scelte fondamentali del partito dalla svolta di Salerno in poi, ma anche compierne una rilettura per cercarvi gli elementi peculiari; indagare sulle ragioni dei ritardi e sconfìggere ogni presunta doppiezza, l'accusa, più volte mossa, di oscillazione fra volto legalitario e volto sovietista-rivoluzionario. Si riprendono, quindi, i temi del V congresso, le dichiarazioni, espresse già in sede di Assemblea costituente, sul valore che i comunisti hanno attribuito alla formazione della Repubblica e alla Costituzione repubblicana.
La Dichiarazione programmatica approvata dalI'VIII congresso si pronuncia in modo inequivoco: «II partito comunista ha sin dal primo momento dichiarato che esso concepisce la Costituzione repubblicana non come un espediente per utilizzare gli strumenti della democrazia borghese fino al momento della insurrezione armata per la conquista dello Stato, e per la sua trasformazione in uno stato socialista, ma come un patto unitario, liberamente scelto dalla grande maggioranza del popolo italiano e posto a base dello sviluppo della vita nazionale per tutto un periodo storico» 10.
Ma proprio questa aderenza alla storia repubblicana e all'approdo costituzionale, contro ogni doppiezza o reticenza interna, sarà, per i critici del revisionismo, legalitarismo democratico.
In sintonia con la linea della «coesistenza pacifica» avanzata dall'Unione Sovietica, il congresso fa propria e arricchisce la formulazione «delle vie nazionali». «Accettato senza riserve e sottintesi» il metodo democratico, in Italia «l'obiettivo è quello di battersi per la prospettiva di una nuova democrazia progressiva». Un nesso indissolubile lega fra loro democrazia e socialismo e solo garantendo la piena funzionalità del sistema democratico è possibile la costruzione del socialismo. Nel suo rapporto, Togliatti precisa che non si tratta di nessuna revisione di principi: «... alla classe operaia e al popolo si apre il compito storico di procedere alla costruzione del socialismo seguendo una via nuova rispetto al modo come si è realizzata la dittatura del proletariato in altri paesi, attuando la dirczione indispensabile della classe operaia attraverso alleanze e nuove collaborazioni, col rispetto del metodo democratico, spezzando le resistenze e le insidie dei nemici della libertà e del progresso sociale con la forza irresistibile di un popolo intero di lavoratori in marcia verso la loro emancipazione e redenzione completa. In queste affermazioni non è contenuta nessuna revisione dei nostri principi. La dittatura del proletariato, cioè la dirczione politica da parte della classe operaia della società socialista, è una necessità storica. Ma già Lenin dopo aver affermato che è inevitabile che tutte le nazioni vengano al socialismo, aveva aggiunto che "non tutte vi verranno allo stesso modo". Ciascuna di esse avrà le sue particolari forme nella democrazia, come nella varietà delle forme della dittatura del proletariato, e nella maggiore e minore rapidità con cui riorganizzerà socialisticamente i diversi aspetti della vita sociale» 11.
Dunque per il Pci si tratta di valorizzare, sulla base delle scelte operate già nel corso della Resistenza, il ruolo di protagonista della classe operaia nella battaglia per la democrazia, e su questa strada dare una risposta politica ai molteplici interrogativi, che si sono aperti sul carattere della democrazia socialista. Gli avvenimenti politici che si susseguono nel 1956 sono di sconvolgente portata: i drammatici fatti di Polonia e di Ungheria, la crisi di Suez con l'aggressione anglo-francese ali' Egitto. In Italia: le contrastate elezioni amministrative, la crisi sempre più manifesta del centrismo, rincontro di Pralognan tra Nenni e Saragat e la fine del patto di unità d'azione fra socialisti e comunisti, l'avvio del processo di unificazione del Psi col Psdi. È un anno cruciale: Ingrao lo definirà «l'indimenticabile 1956».
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4. Le occasioni mancate
Nonostante i richiami alla propria tradizione, la «continuità» del Pci è messa a dura prova. La «svolta» dell'VIII congresso porta con sé una forte battaglia politica interna, la sua affermazione è impensabile senza la sconfitta di vecchie concezioni, un'azione che si scontra con resistenze inconscie, con emozioni e residui di dogmatismo. Inizia un nuovo ciclo della storia del Pci. Alla pressante richiesta di accelerare il rinnovamento e la revisione fa da contrappunto l'eccessiva prudenza. Forti le tensioni fra gli intellettuali, un rapporto già difficile negli anni passati, che gli eventi sovietici e ancor più quelli ungheresi rendono aspro. Occorre portare tutto il partito verso il «rinnovamento». Scrive Mauro Scoccimarro, allora presidente della commissione centrale di controllo: «Si tratta, in sostanza, di rielaborare e precisare l'orientamento ideologico e le posizioni programmatiche del partito, le sue direttive politiche ed i suoi criteri organizzativi e conscguentemente di adeguarvi i metodi di lavoro e gli strumenti di azione, l'attività esterna e la vita interna: vi sono vecchie posizioni da abbandonare, errori da correggere, scorie da eliminare, incertezze e confusioni da chiarire e superare. Sarà così possibile dare a tutto il partito la coscienza degli elementi nuovi della situazione, dei processi di rinnovamento in corso e delle loro tendenze di sviluppo e quindi una maggiore capacità di inserirvi l'azione consapevole delle più larghe masse popolari, e di dare una spinta ad un orientamento in direzione degli obiettivi che si pongono sulla strada di una trasformazione democratica e socialista della società italiana» . Giorgio Amendola nella sua Intervista sul rinnovamento descriverà, con la passione che gli è propria, la lotta contro il settarismo e lo stalinismo che permeavano l'organizzazione comunista . Spetta a lui sostituire alla guida dell'organizzazione, un punto chiave nel vertice del partito, Pietro Secchia, «L'uomo che sognava la lotta armata» per usare il titolo di un noto libro di Miriam Mafai. Nel Pci avanza una nuova leva di quadri dirigenti. Il mito di Stalin non è facile da sradicare. Dietro quel mito la logica della resa dei conti, della risoluzione finale, della «presa del potere» contro 1 odiato e potente capitalismo. Dietro quel mito una realtà: il paese dove il socialismo si era realizzato. Condannando Stalin e scegliendo la coesistenza pacifica l'Urss sembrava perdere il suo ruolo di grande retrovia della rivoluzione. Al revisionismo sovietico si oppone la Cina di Mao, il paese che rimane attestato ai principi della dittatura del proletariato. Interpreti del neostalinismo saranno i gruppi «filocinesi», i garanti delle «verità irrefutabili», del marxismo «trattino» leninismo. Il loro richiamarsi a Stalin è acritico, strumentale e propagandistico. Fa leva sui sentimenti che quel nome evoca e suscita per conquistare il consenso di quelli che vengono definiti i «sinceri militanti del Pci». La riedizione dello stalinismo trova nuovi adepti; all'insegna della sua autorevolezza si semplifica la prospettiva rivoluzionaria e si legittima la polemica contro il «revisionismo», un tradimento perpetrato per un'indefinita «via italiana al socialismo», una variante della collaborazione di classe. Ad essa si contrappongono il partito avanguardia di bordighiana memoria, la purezza degli ideali rivoluzionari contro la politica ridotta a tattica delle alleanze, la lotta armata contro il pacifismo piccolo-borghese. Ai critici del rovesciamento teorico del Pci solo apparentemente si oppongono gli anti stalinisti che lo accusano di eccessiva timidezza nel suo processo di autonomia e di mantenere sotto diverse forme la sostanza del passato. Per entrambi la sinistra storica sembra essere inesorabilmente condannata alla scelta fra revisionismo comunista e riformismo socialista, due versioni dello stesso rifiuto strategico della rivoluzione. I fatti d'Ungheria e di Polonia, nell'inverno '56, sono un'ulteriore prova dei guasti del regime dell'Urss, un paese del socialismo che soffoca col sangue dei patrioti le giuste esigenze di libertà. Ormai le «ombre» del XX congresso prevalgono sulle «luci». Il Psi accelera il suo mutamento di campo. Nenni utilizza fino in fondo gli elementi di sbandamento e di sdegno emotivo. Nella posizione del leader socialista si accentuano i toni liberaleggianti per sminuire il confronto con la crudezza del dato storico, il necessario rinnovamento dell'Urss si limita ai temi della libertà mettendo in secondo piano il valore e il destino della rivoluzione d'ottobre. La sinistra socialista trova nella destalinizzazione e nella crisi del modello sovietico l'occasione per riprendere il dibattito sulla qualità della democrazia socialista. Non vuole rimanere schiacciata fra riformismo e revisionismo e al tempo stesso non può riprecipitare nell'orbita del Pci, il partito che ha condiviso e ha la sua parte di responsabilità negli errori di tutto il movimento operaio internazionale. Andare alla radice di quegli errori significa riconsiderare tutta l'esperienza del passato, tornare su nodi teorici che solo l'autorità del «faro» sovietico aveva fatto accantonare. Ciò vale sia sul piano internazionale che sul piano interno. Tornano, con bruciante attualità, le polemiche sulla Resistenza e sui suoi sviluppi. Da sponde diverse la stessa domanda: era possibile tramutare quell'occasione della storia in una rivoluzione socialista? Le risposte sono solo apparentemente in contraddizione. Per i nostalgici della dittatura del proletariato era stato quello il segnale di un primo tradimento, un deporre le armi per la democrazia parlamentare; poi erano seguite altre capitolazioni: un esempio clamoroso la condotta dopo l'attentato a Togliatti. Convergente nella critica ma di segno opposto l'analisi della sinistra socialista: la politica di potenza dell'Urss aveva frenato e condizionato questa possibilità. In difesa di uno stato socialista si poteva giustificare l'adesione del Pci e del movimento operaio a quella divisione dell'Europa in sfere di influenza, sancita dalle grandi potenze a Yalta alla fine della seconda guerra mondiale ma, saltato il giudizio sull'Urss, venivano meno le cosidette «condizioni oggettive» degli scenari post-bellici. Per quel quadro di riferimento quante occasioni rivoluzionarie si erano perse? Per entrambi dal riconoscimento del ruolo dell' Urss derivava il tatticismo togliattiano che vi sacrificava ogni soggettività e potenzialità delle masse. La difesa del primo paese socialista e la sua ragion di stato avevano dato valore anche alla rinuncia temporanea della mitica scadenza rivoluzionaria. Eppure erano state queste le coordinate che avevano consentito il superamento delle divisioni fra comunisti e socialisti sul rapporto fra unità nazionale e prospettiva del socialismo. Nello stesso Pci, Togliatti aveva unificato linee, sconfitto gli estremisti di «Bandiera rossa», gli operaisti, gli anarchici, ricondotto a unità i vari centri di dirczione con l'autorevolezza e il carisma che gli derivava dall'essere stato un capo del movimento operaio internazionale e un uomo della III Internazionale. Sono evocazioni di un passato non lontano in quegli anni. Non era metodologica la polemica sul «sostituire gli ordini dall' alto alle esperienze dal basso», ma implicava una concezione che, alla luce delle novità, sembrava antesignana di un'autentica via nazionale al socialismo direttamente legata alla democrazia popolare. Non è casuale che le Tesi sul controllo operaio di Raniero Panzieri affronteranno in primo luogo il problema del passaggio dal capitalismo al socialismo. Nel mutarsi delle condizioni la questione si riproponeva. Le divergenze non erano tattiche ma andavano al cuore del giudizio sul capitalismo e sulle sorti del socialismo. La «democrazia progressiva» di Togliatti e la «democrazia socialista» erano due diversi modi di affrontare il quesito e di avviare il nuovo progetto di società. La natura dei rapporti internazionali e delle forze politiche post-resistenziali aveva portato i comunisti a scegliere l'unità nazionale da cui era nata la Repubblica costituzionale, ma questa ipotesi sembrava subire una sconfitta di fronte ali' involuzione della De e al sopravvento delle forze reazionarie. La linea seguita dal Pci perdeva la sua credibilità; lo stretto legame con l'Urss, una delle sue principali ragioni di autorevolezza veniva meno, anzi, proprio quell'identificazione rendeva legittimo l'interrogarsi su altre strategie. La rottura dell'unità nazionale, il centrismo, infine la divisione della sinistra, lo «stato democratico» della reazione e del padronato aveva prevalso con le sue insidie parlamentari e legalitarie. Scriverà Lelio Basso in un suo articolo del '65: «Le parole d'ordine del Pci riguardarono soltanto l'unità dei paesi con tutti gli antifascisti e da non turbare per nessun motivo e la necessità di concentrare ogni sforzo nel vincere la guerra, lasciando da parte qualsiasi altro obiettivo, tanto che non si poteva neppure parlare della lotta di classe perché ciò avrebbe turbato l'unità antifascista» . Nel riemergere di temi come la funzione dei Comitati di liberazione nazionale, dei Consigli di gestione, il significato della mobilitazione dal «basso», la lotta armata, si insiste sul ruolo della classe operaia e della sua politica d'unità: portare a compimento la seconda tappa della rivoluzione antifascista, quindi completare la rivoluzione democratico-borghese, o tagliare corto e realizzare la rivoluzione socialista. Tornare a quel crocevia della storia, mettendolo radicalmente in discussione è anche un modo per contrastare il riformismo senza perdere di vista il bisogno di nuove libertà, un modo per non dichiarare ormai inevitabile la supremazia della II Internazionale e della socialdemocrazia. L'incontro Nenni-Saragat a Pralognan appare come la sanzione di questa capitolazione; questa è la china dello slittamento del Psi, un rischio da cui lo stesso Pci non è immune. La tradizionale sinistra è tutta in rimescolamento, contraddizioni, divergenze, polemiche e rotture la attraversano obliquamente. Alla luce di ciò l'ipotesi di Raniero Panzieri di una generale «rifondazione» della sinistra. Un filo diretto lega la sua elaborazione a Rodolfo Morandi, riprende spunti e temi che l'appiattimento sull' Urss ha compresso. Esasperare i termini di questa comunanza sarebbe fuorviante, tuttavia continuità e attenzione al nuovo si combinano in una ricerca ricca di sollecitazioni, tutta proiettata a indagare il moderno ciclo economico e gli effetti delle dinamiche capitalistiche nella grande fabbrica e nella società.
M. Scoccimarro,Ideologia e politica. Editori Riuniti, 1960.
G. Amendola, II rinnovamento del Pci, intervista di R. Nicolai, Editori Riuniti, 1978.
L. Basso, II rapporto tra rivoluzione democratica e rivoluzione socialista nella Resistenza, «Critica marxista» n. 4, aprile 1965.
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5. Tra centro-sinistra e rifondazione della sinistra
Occorre dare un volto nuovo al socialismo senza perdere la prospettiva rivoluzionaria. La strada scelta dall'Urss, nel periodo staliniano, non ha garantito la supremazia del comunismo sul capitalismo, la statualità e il terrore hanno soffocato l'accesso delle masse al potere, fatto tacere le minoranze e annullato ogni dissenso. Nuovi autoritarismi si sono sostituiti ai vecchi domini. Tutto il patrimonio del leninismo, senza scomuniche e senza fìdeismi, si deve riesplorare. A chi si ancora al mito, alle certezze dello stato guida, la sinistra socialista contrappone la sperimentazione di vie totalmente nuove, l'appello alla spontaneità delle masse per liberarle in un progetto più umano di rivoluzione. La sfida è inventare, esplorare nuove condizioni per una rivoluzione moderna, capace di coniugare la partecipazione al potere della classe operaia ad una nuova concezione della democrazia e della libertà, di essere all'altezza della sfida capitalistica e delle sue più sofisticate tecniche di consenso e sfruttamento . Se per i militanti operai il distacco dai rispettivi partiti è più difficile, (anche nei momenti più drammatici infatti rimane la fiducia nell'organizzazione e nei suoi uomini), ciò varrà in particolare per il Pci; diverso sarà l'atteggiamento di intellettuali e nuovi quadri. Per altro la stessa struttura dei partiti, e molti episodi lo confermeranno, sarà un ostacolo al pieno e libero confronto e al pluralismo delle posizioni . In questa ricerca, tra il ritorno alle origini del marxismo e la tensione verso una moderna concezione rivoluzionaria, riaffiorano suggestioni di quell'estremismo smantellato e parzialmente cooptato dal Pci nei primi anni della guerra di liberazione. Proprio quella «svolta» di Salerno che tornava a fare discutere, era stata l'apice della lotta politica a sinistra: «contro i gruppi troskisti, contro il massimalismo parolaio, l'anarchismo e il settarismo e contro i residui della loro influenza nel movimento operaio» e con la loro sconfìtta «furono gettate le basi del partito nuovo e fu affermata la ricerca di una via italiana al socialismo» ". Nell'interrogarsi sul passato e sul presente, il dubbio dell' errore fa tornare alla ribalta spunti minoritari allora sconfitti, rivitalizza lo stesso troskismo, non tanto come corrente organizzata, quanto come forma e cultura del dissenso a sinistra. Il crollo del mito di Stalin concorre a far crescere questa attenzione. Troskismo, nella semplificazione che si opera, assume il significato di opposizione alla linea ufficiale e tale rimarrà nella metamorfosi del nuovo estremismo, uno zibaldone in cui si ritrovano in modo spurio nuovi stalinismi e coerenti derivazioni del pensiero del grande antagonista di Stalin. La polemica fra Pci e Psi diviene molto aspra. Il patto d'unità di azione, su proposta dei socialisti, si trasforma in patto di consultazione nel 1956 e sarà rotto definitivamente dopo i fatti d'Ungheria. Già nel congresso socialista del 1955 si era parlato di «svolta a sinistra», cioè di una convergenza con la Dc che, pur non includendo nell'area governativa il Pci, non fosse tale da provocare una rottura. Nel notissimo Luci ed ombre del congresso di Mosca, articolo apparso su «Mondo operaio» a commento del rinnovamento sovietico, Nenni esplicita ulteriormente l'apertura di credito alla Dc e la necessità dell' entrata al governo del Psi . Un disegno politico che troverà la sua definitiva sanzione, diventando linea di maggioranza, con il XXXII congresso (Venezia, 6-10 febbraio 1957). Togliatti dalla tribuna dell' VIII congresso polemizza con il nuovo corso socialista e in particolare critica 1'enfatizzazione di uno sviluppo della democrazia tale da annullare la lotta al capitalismo. Ormai nel Psi avanzano concezioni di tipo socialdemocratico, in particolare quella della «neutralità dello stato». Il problema centrale diviene la graduale conquista delle riforme sociali. L'erronea valutazione della fase capitalistica porta a sopravalutare le possibilità di superare gli antichi squilibri, a illudersi sulla disponibilità del sistema a realizzare nuove e migliori condizioni di vita per le classi lavoratrici italiane. I vari segnali non sfuggono alla Dc. Fanfani al consiglio nazionale (Vallombrosa, 13-14 luglio 1957) sottolinea in termini positivi il ruolo della socialdemocrazia europea; oltre alla prospettiva politica sono evidenti gli obiettivi elettorali della Dc: battere i comunisti, contenere i socialisti, ottenere la maggioranza assoluta. Il risultato elettorale non va in questa dirczione, l'aumento della De si accompagna ad un forte incremento del Psi e alla sostanziale tenuta del Pci. La situazione politica è in movimento: inizia l'altalena delle formule. Dalla prima proposta, una coalizione Dc-Psdi-Pri avanzata da Fanfani, si approda a un governo Dc-Psdi con 1' «astensione critica» dei repubblicani, sostenitori dell'«apertura ai socialisti». È la fase della «delimitazione della maggioranza». I socialisti, perseguendo il disegno di entrare nell'area di governo, non escludono l'assenso a singoli provvedimenti di legge. Vivaci polemiche attraversano la Dc, si arriva alle dimissioni di Fanfani da presidente del Consiglio e da segretario del partito. Spaccato dalla crisi interna, si svolge il VII congresso della Dc (Firenze, 23-28 ottobre 1959): sui lavori congressuali pesa il crescente movimento di lotta. Stanno maturando le condizioni per il centro-sinistra; per renderlo attualità politica mancano ancora alcuni tasselli. Per la maggioranza del Psi il congresso democristiano di Firenze, un «congresso nuovo» come viene definito, rappresenta un passo avanti nel dialogo fra i due partiti e per avviare più solidi presupposti per la loro collaborazione governativa. In questo quadro la pubblicazione delle Sette tesi sul controllo operaio, un documento anticipatore di molti temi che ritroveremo nella gruppettistica, in special modo in tutto il filone operaistico; esso nasce come strumento precongressuale della sinistra prima del congresso socialista di Napoli, e ha come obiettivo politico immediato quello di impedire lo spostamento del Psi nel? area governativa, con tutte le implicazioni che ciò avrebbe comportato. Nello scritto di Panzieri e Libertini prevale il senso di una «ricerca critica», la cui ambizione è una generale «rifondazione della strategia del movimento operaio». Un processo di rinnovamento del movimento operaio che muove da una duplice esigenza «come restituzione del metodo marxista ai suoi termini originari e come riconferma di alcuni principi fondamentali del socialismo»; e quindi capace di tradurre il «dissolvimento della cristallizzazione dogmatica della strategia» in un «arricchimento qualitativo del metodo stesso e dei suoi risultati». Nasce da questa necessità una lettura originale, densa di un nuovo ideologismo, tesa alla ricerca di un nuovo modello di potere socialista, insofferente verso la partitocrazia e più attento al dato soggettivo e sociologico. È l'ambizioso auspicio di una rifondazione teorica, possibile solo facendo compiere una profonda autocritica alle organizzazioni tradizionali della classe operaia, allo scopo di liquidare «le conseguenze delle doppiezze e reticenze di cui la crisi dello stalinismo doveva mettere in luce spieiatamente l'ampiezza delle dimensioni e la gravita delle implicazioni». È una rifondazione che vorrebbe rispondere alla crisi apertasi dopo il XX congresso del Pcus avventurandosi in una rilettura globale sia dell'esperienza socialista che delle scelte operate dal Pci. Una problematicità resa inevitabile dalla tragica vicenda dell'Urss e imposta dalla mutazione capitalistica. La cultura della sinistra tradizionale, sia pure nelle sue storiche differenze, non appare adeguata, priva di un'idea di trasformazione alternativa, oscilla fra la ricerca di nuovi equilibri politici del Psi e la gradualista democrazia progressiva togliattiana, due tesi entrambe arretrate rispetto all'ammodernamento in atto nel paese e troppo influenzate dalla presunta aumentata capacità riformistica del capitalismo. Siamo ancora nell'ambito di un dibattito interno ai partiti operai, tuttavia il documento ha già una sua organicità alternativa. Criticata la concezione secondo cui al proletariato spetta il compimento della democrazia borghese, si approda a una prospettiva di «democrazia operaia» contrapposta alla «via democratica al socialismo». Al fondo e'è una lettura dei caratteri della società italiana, del suo capitalismo e della funzione attribuita alla classe operaia nella battaglia per la trasformazione diametralmente opposta a quelle del Pci e del Psi. Le condizioni della formazione dello stato costituzionale, sostengono le Tesi, vanno riconsiderate. Le posizioni morandiane sulla democrazia diretta, sullo Stato, sulla concezione del partito, appaiono premonitrici. La critica alle degenerazioni burocrati-che si estende al partito stesso, visto come pericoloso veicolo di totalitarismo e di accentramento a fronte dell' enorme potenzialità rivoluzionaria delle masse, ostacolo al dispiegarsi di una democrazia diffusa e del nuovo protagonismo sociale che avanza. Al centro della nuova strategia rivoluzionaria, il documento di Panzieri e Libertini pone il «controllo operaio». E l'alternativa al partito burocratizzato e istituzionalizzato, ormai incapace di liberare tutte le energie della classe, di esprimerne le esigenze. In una società in cui il modello della fabbrica tende a organizzare tutto il sociale, la sfera del «controllo» è quella produttiva. Il Pci non si oppone alla nascita di autonomi strumenti della classe operaia nella sfera della produzione, ma contesta la loro contrapposizione al partito, una separazione che avrebbe come conseguenza l'inevitabile scissione tra politica ed economia. Non si tratta, replicano ancora i comunisti, solo di «organizzare in modo razionale le forze produttive», ma di compiere un processo politico che entri nel vivo della società civile. In una società in cui i rapporti di produzione divengono politici e giuridici e non si limitano alla fabbrica, il partito rimane lo strumento fondamentale dell'azione politica, il mezzo attraverso il quale la classe operaia diventa soggetto di un generale rinnovamento (economico, politico, morale). Nella peculiarità della situazione italiana il «rifiuto di ogni concezione partitica» in «omaggio» a una generica «nuova concezione della lotta politica» porterebbe — sostiene il Pci — solo al decadimento dei caratteri della storia del movimento operaio nel nostro paese. La questione partito è ormai aperta, l'altra faccia della crisi della sinistra storica, la formazione politica di una nuova generazione avverrà in molte forme, le caratterizza la stessa ambizione: reinventare l'intera sinistra. Il partito «verità» è lasciato ai neostalinisti del Pcd'I, per gli altri il gruppo, la rivista, l'entrismo, il movimento saranno altrettanti banchi di prova di una nuova milizia politica. La dialettica partito-movimento svilupperà un alternarsi di scelte, un contraddirsi di posizioni; formerà nel suo procedere la trama della storia organizzativa del nuovo estremismo.
Il dibattito si concluderà bruscamente dopo il congresso di Napoli: Raniero Panzieri uscirà dal Psi e darà vita ai «Quaderni rossi», Lucio Libertini sarà tra i fondatori del Psiup, e «dopo il suo scioglimento confluirà nel Pci. Il tentativo di spostare il Psi è fallito, il coinvolgimento delle forze di sinistra non si è realizzato, continuare la discussione sarebbe un'esercitazione accademica. La sinistra è più divisa di prima, ma la fine del dibattito non chiude il problema della sua rifondazione.
P. Ingrao, La democrazìa interna, l'unità e la politica dei comunisti, «Rinascita», n. 5/6, maggio-giugno 1956.
«Mondo operaio», n. 3, marzo 1956.
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6. Dalla riscossa operaia al luglio sessanta
Le Tesi e il dibattito sul controllo operaio sono già interni alla ripresa delle lotte di fabbrica. La sconfìtta della Cgil alla Fiat nel '55 ha pesato come un macigno sul movimento operaio. Per qualcuno la stasi che ne è seguita e il prevalere di una nuova fase tecnologica e manageriale, sono altrettanti indicatori del bisogno e della possibilità del riformismo. Nenni si spinge ad affermare che ormai le masse sono «stanche» di lottare. E invece inizia una ripresa delle lotte lenta e difficile fino al 1960, quando alla II conferenza operaia del Pci Amendola può affermare che: «II contrasto tra la spinta progressista della classe operaia e del popolo italiano e i tentativi di controffensiva dei ceti padronali ubriacati dai successi del miracolo economico, si è fatto più acuto ed ha assunto, in alcuni momenti, aspetti drammatici» . Una ripresa della conflittualità sociale che sembra smentire nei fatti il gradualismo socialista. Molte le ragioni del difficile avvio, in primo luogo i mutamenti intervenuti nella composizione della classe operaia. Si è in presenza di una nuova generazione operaia, per lo più di provenienza contadina, con scarsa esperienza di lotta, con nessuna tradizione sindacale, con una presenza crescente delle masse femminili. Si avvia, non senza problemi, un confronto fra esperienze, generazioni, livelli di consapevolezza politica diversi; un processo di avanzamento generale che si maturerà e si arricchirà nelle lotte e che impegnerà in modo nuovo i partiti della sinistra e il movimento sindacale. L'inadeguatezza del tradizionale quadro sindacale e politico di fabbrica, la rottura dell' unità della sinistra, le vicende del XX congresso del Pcus, le questioni internazionali sono gli ostacoli da superare per un pieno rilancio della lotta di fabbrica . Progressivamente una qualità nuova si esprime nelle lotte: una maggiore combattività, nuove forme di lotta (scioperi a oltranza, picchettaggio, assemblea di fabbrica) un carattere più avanzato delle rivendicazioni. Nel settembre 1960 inizia a Milano un'agitazione operaia che vedrà gli elettromeccanici in lotta ed in sciopero per circa 6 mesi. Scioperi e lotte dure. Picchetti con sassaiole contro i crumiri. Occupazione degli snodi tramviari di piazza del Duomo, con ovvio blocco della circolazione per quasi tutti i giovedì di questi sei mesi. Piccole, medie e grandi fabbriche unite dalle quasi botteghe artigianali alla Geloso e alla Face-Standard. Giovani operaie e operai provenienti dall'hinterland e dalla campagna, non politicizzati ne sindacalizzati non chiedevano più salario ne più lavoro. In un'Italia ancora povera, quella delle gabbie salariali, della disoccupazione e dell'emigrazione, una nuova composizione di classe chiedeva di poter vivere senza essere obbligata a fare gli straordinari, in sostanza chiedeva di lavorare meno. Non ci si limita più a rivendicare partecipazione ai profitti di congiuntura, attraverso l'aumento delle retribuzioni: al centro delle vertenze c'è la vita stessa della fabbrica, l'organizzazione e la qualità del lavoro (tempi, organici, qualifiche, ambiente). Le giovani generazioni operaie pongono con forza le questioni dell' orario, della qualificazione del lavoro, del tempo libero e del loro ruolo nella società. Anche se i rapporti fra Pci e Psi restano difficili, una grande volontà unitaria anima i lavoratori; comunisti, socialisti e cattolici si trovano insieme nel costruire le condizioni di quest'esaltante stagione di lotta. Difficoltà e ritardi caratterizzano tuttavia questa fase: essi appartengono alla storia del movimento operaio, dei suoi partiti, del sindacato. Dagli «ambigui anni '50» si passa ai rinnovi contrattuali del '62, si apre la stagione di lotta che porterà all'autunno caldo, quando avverrà una radicale trasformazione dell' organizzazione sindacale. Le giornate del luglio '60 sono un punto alto della consapevolezza operaia, l'occasione in cui, con un'espressione togliattiana, la nuova classe operaia diventa classe dirigente, punto di riferimento nazionale in una nuova stagione di lotta antifascista. Fallisce il disegno di «addormentare» la classe operaia e di integrarla nel sistema. Nel corso di questo processo, tuttavia si manifestano critiche ali' iniziativa del sindacato, alle sue analisi, alle sue scelte e forme di lotta, si producono scollamenti fra comportamenti sociali e dialettica politico-sindacale. Al rinnovamento del capitalismo italiano si accompagna una diffusa apologia dell'industrializzazione, del valore del neo-capitalismo. Consumismo, miti, falsi bisogni sono propagandati con un fitto bombardamento dei mass-media, la nascente società dell'informazione esalta la società del «miracolo economico». Nascono all'interno delle forze di sinistra due interpretazioni. Da un lato e'è la convinzione che il capitalismo italiano, superate le sue angustie, sia ormai in grado di portare a soluzione i nodi centrali della società italiana, operando quel complesso d'interventi definito come «riforme». È in questo quadro che si considera risolutiva l'entrata dei socialisti nel governo di centro-sinistra. Per altro verso, si giunge a conclusioni opposte: si attribuisce al capitalismo la capacità di operare le riforme, ma si vede questa capacità come un disegno delle classi dominanti per ingabbiare la classe operaia nel sistema borghese. E in sostanza la visione di un capitalismo capace di sanare le sue contraddizioni interne, e di assorbire la stessa lotta di classe. Da parte sua il Pci combatte entrambe queste impostazioni aggiornando la linea scaturita dall' Vili congresso e approdando, con il IX congresso, a una maggiore puntualizzazione della tesi del capitalismo monopolistico di stato, a cui oppone la lotta per le riforme di struttura. Emblematicamente nel Pci esplode in quel momento il caso Giolitti. I dubbi e le riserve che aveva suscitato il suo intervento all'VIII congresso si accresceranno in seguito alla pubblicazione del suo libro Riforme e rivoluzione. Sulle pagine di «Rinascita» è lo stesso Togliatti a polemizzare con Antonio Giolitti, che uscirà dal partito nel luglio del '57, mentre il Psi prepara il suo XXXIII congresso. Il dibattito sul «riformismo» riflette le dinamiche del paese, un confronto fra i nuovi processi di ammodernamento tecnologico e il sorgere di nuove tensioni sociali che esprime il disagio di un movimento operaio incerto sulla prospettiva, di una sinistra in cerca di identità. La lotta contro la «legge truffa» del '53 era stato un episodio esaltante, aveva segnato la sconfitta della Dc e delle forze reazionarie, eppure la sinistra non era riuscita a volgerla in una sua consolidata vittoria. Al contrario erano seguiti: la stagnazione del movimento, momenti di sconfitta, l'accelerarsi di divisioni strategiche, l'incombere di drammatiche vicende internazionali. L'analisi della situazione economica è al centro di un intenso dibattito; le questioni sono la natura dello sviluppo, le sue prospettive, la necessità di una programmazione democratica, il valore della «politica di riforme». Un momento importante di questa riflessione sarà il convegno sulle «Tendenze del capitalismo italiano», promosso dall'Istituto Gramsci nel 1962. Se il «riformismo» socialista sopravaluta la possibilità di risolvere in modo indolore le contraddizioni strutturali del paese, per costruire sulle «cose» un nuovo schieramento politico senza ' rompere con i comunisti e collaborando con la Dc. Per i comunisti solo con un'ampia lotta di massa si può costringere il monopolismo di Stato a nuovi indirizzi economici, solo le lotte possono strappare un adeguato programma di riforme e determinare le concrete condizioni di una nuova maggioranza governativa. In questa prospettiva la lotta per le riforme deve investire le radici della struttura capitalistica e del regime monopolistico, e può assumere un valore rivoluzionario nel suo intreccio con la più generale battaglia per un mutamento complessivo della dirczione politica del paese. Nel suo rapporto al IX congresso (30 gennaio-4 febbraio 1960), Togliatti esplicita la necessità di una lotta rigorosa contro posizioni di cedimento ideologico che si manifestano all'interno del partito, contesta duramente l'illusione socialista di considerare ormai acquisiti al rispetto della democrazia i gruppi dirigenti della borghesia. Siamo nel gennaio 1960 pochi mesi ci separano dal tentativo autoritario di Tambroni. I propositi fanfaniani di una Dc maggioranza assoluta sono falliti con le elezioni del maggio '58. Risultati vani i tentativi di costruire formazioni di governo apertamente rivolte a destra, aumentano le difficoltà della democrazia cristiana, al cui interno avanzano le spinte per una inversione di rotta. Togliatti lancia un energico appello per una lotta di massa unitaria contro ogni tentativo reazionario e conservatore, per sbloccare l'inerzia della situazione politica, uscire dallo stallo e dare al governo del paese una soluzione avanzata. C'era stato De Gasperi, c'era stato Scelba, c'era stato Fanfani, poi Tambroni, ma, aggiunge Togliatti: «...quest'opera di contraffazione e compressione reazionaria della vita politica e civile non è riuscita a sopprimere il potenziale democratico e di progresso della democrazia, che parte dalla coscienza, dalle aspirazioni, dalle rivendicazioni attuali, economiche, politiche, culturali e sociali della maggioranza della popolazione» 20. Tutto questo mentre l'anticomunismo tradizionale è in crisi e avanza il processo internazionale di distensione; sul piano interno cresce in modo irreversibile il divario fra i problemi della società e la risposta delle classi dirigenti evidenzia la crisi del logoro anticomunismo. Di fronte ai pericoli di una soluzione reazionaria, il Pci propone una «nuova maggioranza» rivolta a tutte le forze democratiche, sollecitando le stesse forze cattoliche insofferenti per l'antico integralismo a superare la «discriminazione anticomunista». Una prospettiva che va costruita sviluppando il massimo di rapporti unitari fra le forze politiche; un'unità all'insegna dei grandi temi della pace, della lotta anticolonialista, della democrazia, della salvaguardia della Costituzione, delle questioni strutturali come: la scuola, la riforma agraria, la riforma industriale e l'emancipazione femminile. Il governo presieduto da Antonio Segni si dimette il 20 febbraio 1960; lo fanno cadere i liberali: loro scopo politico è ottenere dalla Dc una definizione netta del suo orientamento, riportandola nell'area di centro. Il Pli cerca di sfruttare — così — le contraddizioni di una Dc divisa fra una sinistra che avverte l'urgenza dell'apertura del dialogo con il Psi, e una destra alleata con la parte più retriva delle gerarchle ecclesiastiche. Per risolvere la crisi, l'ipotesi di Moro è un governo monocolore appoggiato dal Pri, dal Psdi e con l'astensione socialista. Aspra la controffensiva delle forze reazionarie e conservatrici presenti nel mondo laico e nel mondo cattolico. Scende in campo la Confindustria, sollecitata dalla industria elettrica privata che teme la nazionalizzazione voluta dal Psi; forti pressioni vengono dalla Coldiretti. Energica è l'opposizione dei circoli ecclesiastici, l'Azione cattolica rifiuta drasticamente ogni eventuale appoggio socialista . Le varie pressioni ottengono la rinuncia di Segni a ogni proposito di formare un nuovo governo. La proposta di Moro — che giudica inopportuno l'appoggio della destra — è un governo d'affari democristiano disposto ad accettare il contributo di tutti i partiti tranne quello comunista. Gronchi incarica Fernando Tambroni. Nel voto alla Camera dell'8 aprile del 1960, il governo riceve la fiducia: 300 voti a favore 293 contrari. Per la prima volta dalla costituzione della Repubblica, i fascisti esercitano un ruolo determinante. La sinistra democristiana si ribella a questa convergenza, inizia la catena di dimissioni dei ministri (Pastore, Sullo, Bo). L'11 aprile Tambroni presenta le dimissioni del governo. Pesanti ingerenze della Chiesa inducono Gronchi a respingere le dimissioni. È di quei giorni l'articolo non firmato, attribuito a Siri o ad Ottaviani, apparso sull'«Osservatore romano» con il titolo Principi basilari. Sostiene il diritto della Chiesa a emanare direttive politiche: «Il cattolico non può mai trascurare l'insegnamento e le istruzioni della Chiesa. In ogni occasione della sua condotta privata e pubblica sulle direttive e le istruzioni della gerarchia». Nel breve periodo della sua durata, il governo Tambroni porta avanti un tentativo autoritario a cui si oppone un largo schieramento di popolo, scendono in piazza numerosi giovani, quelli delle «magliette a strisce», un grande movimento democratico e antifascista che si riunisce attorno a quegli strumenti di lotta che furono i Consigli della Resistenza. Nel maggio 1960, anche per effetto delle correzioni operate col V congresso Cgil, aumentano le agitazioni sindacali. Forte la repressione poliziesca: incidenti a Bologna, la polizia spara a Palermo. Il Msi annuncia la decisione di svolgere il congresso nazionale a Genova, una decisione che offende e sdegna la città medaglia d'oro alla Resistenza. Il 25 giugno la forte protesta dei portuali genovesi: violenti scontri seguono al duro intervento della polizia. La Camera del lavoro proclama lo sciopero generale della città; la Cisl non dà indicazioni e lascia liberi di aderire i suoi iscritti mentre 1' Uil invita apertamente a sabotare la manifestazione. La polizia aggredisce il corteo di oltre centomila lavoratori, provocando una vera battaglia a piazza De Ferrari, Aumentano lo sdegno e la rabbia, le manifestazioni si estendono a tutto il paese. A Milano, Torino e in molte altre città è indetto lo sciopero per il giorno del congresso del Msi. La protesta crescente, ampia, unitaria, induce il prefetto di Genova a spostare la sede del congresso missino, ma permane l'orientamento reazionario del governo Tambroni e aumenta la violenza poliziesca. A Licata, in Sicilia, il 5 luglio, durante una manifestazione di popolo contro la miseria e la fame, la polizia uccide un giovane di 25 anni, molti i feriti. A Roma, la protesta antifascista è selvaggiamente travolta a Porta San Paolo dalle cariche dei carabinieri a cavallo. A Reggio Emilia, il 7 luglio, la polizia tira al bersaglio, nel corso di una manifestazione uccide 5 militanti comunisti. La Cgil proclama lo sciopero generale, la Cisl non aderisce, mentre l'Uil aderisce in qualche provincia. Ancora morti a Palermo e Catania. Il 19 luglio Tambroni è costretto alle dimissioni .
Inizia il dialogo tra socialisti e democristiani. Il «governo delle convergenze» presieduto da Fanfani, ottiene il voto del Psdi, del Pri, del Pli e l'astensione di socialisti e monarchici. Segue nel 1961, la formazione di una serie di giunte locali di centro-sinistra. Al congresso socialista di Milano (marzo 1961) le varie correnti di sinistra del Psi non riescono a unirsi nella contrapposizione alla linea di Nenni. Sandro Pertini esprime una forte preoccupazione sull'unità interna e su una malintesa autonomia dal Pci. La relazione di minoranza, svolta da Tullio Vecchietti, è un duro attacco a Nenni. Il contrasto è sul ruolo del Psi, sulla sua autonomia, sulla prospettiva unitaria della classe operaia. La lotta politica in Italia, non può ridursi — sostiene Vecchietti — allo schema che vede solo rivoluzione o collaborazione e in mezzo il nulla. In un dibattito tormentato prevale la conversione di linea prospettata da Nenni.
Cfr. G. Amendola, La Seconda assemblea dei comunisti delle fabbriche, rapporto al comitato centrale e alla commissione centrale di controllo (1-3 dicembre 1960), SETI, 1969.
Cfr. G. Amendola, La classe operaia nel ventennio repubblicano, «Critica marxista», n. 5/6, 1966; La classe operaia dal 1961 al 1971, «Critica marxista» n. 6, 1973.
Cfr. A. Giolitti, Riformee rivoluzione, Einaudi, 1957.
P. Togliatti, Rapporto al IX congresso, in «Opere», cit., p. 431.
Dietro ai vari pronunciamenti, eminenti personalità ecclesiastiche, in particolare Siri, presidente della commissione dei vescovi preposti allAzione cattolica; Ruffini; Ottaviani, prosegretario del Sant'Uffizio.
Per la cronologia degli avvenimenti che portano alla caduta del governo Tambroni: N. Kogan, L'Italia del dopoguerra. Storia politica dal 1945 al 1966, Laterza, 1970, pp. 205-209; «Rinascita», supplemento al n. 7/8, luglio-agosto 1960; G. Parodi, Le giornate di Genova: 30 giugno-30 luglio, dieci giorni che hanno sconvolto il paese, Editori Riuniti, 1960; «Rassegna Sindacale», n. 31/32, luglio-agosto 1960; A. Accornero, Le lotte operaie degli. anni '60, «Quaderni di Rassegna sindacale» n. 31/32, luglio-ottobre 1971.
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7. Sulle tendenze del capitalismo
In questo periodo si compie quello che rimarrà il capolavoro della pazienza politica di Aldo Moro. Il convegno di San Pellegrino (1961) ne rappresenta il supporto teorico-programmatico, l'VIII congresso della Dc (Napoli, 1962) quello politico. Nella sua relazione al convegno. Pasquale Saraceno pone come obiettivo fondamentale «l'unificazione economica del paese»: superare l'antico dualismo dell' economia italiana, gli squilibri fra Nord e Sud, tra agricoltura e industria; risolvere il nodo della disoccupazione, la carenza di infrastrutture civili per il pieno sviluppo del paese. Prospetta «una politica di piano» che, pur conservando l'economia di mercato, sia in grado di orientarla. Le condizioni per la sua realizzazione sono indicate nell' aumento della quota del reddito nazionale destinata al risparmio e agli investimenti; nella necessità di un controllo dei consumi; nella politica dei redditi, cioè la programmazione dello sviluppo dei salari e della struttura delle retribuzioni. In questa prospettiva, un ruolo decisivo spetta alle partecipazioni statali, come strumenti di contenimento antimonopolistico e di riequilibrio. E la teoria dello «stato imprenditore» esposta all'VIII congresso della Dc. Criticato 1'esperimento Tambroni e il centrismo, Moro porta avanti un disegno di trasformazione del partito e ne sollecita un diverso confronto con l'intera società nazionale: abolire ogni frattura fra democrazia laica e democrazia di ispirazione cattolica, quindi una Dc né classista né di sinistra, né statalista né dalla parte della conservazione. Sul piano economico-sociale riconosce che, nonostante il «miracolo economico» e l'aumentata capacità competitiva sul mercato internazionale, permangono profondi squilibri, il cui superamento è ritenuto possibile solo portando avanti una politica di programmazione, strumento indispensabile per uno sviluppo armonico dell' intero paese, come già indicato dal convegno di San Pellegrino. Moro coglie e utilizza al massimo le differenziazioni tra la linea del Psi e quella del Pci. Consente quest'operazione la svolta politica operata da Nenni: diverso è il modo di intendere il «potere», diversa la concezione della «libertà». Ormai i socialisti giudicano impossibile «una generale alleanza politica o una comune lotta per il potere» fra i due partiti operai. Tuttavia la critica al centrismo non è coraggiosamente approfondita; 1'«allargamento dell' area democratica» proposto da Moro non scaturisce dal fallimento storico della politica portata avanti dalla Dc, piuttosto sembra essere la conseguenza di uno stato di necessità in cui si combinano 1'inutilizzabilità della destra, la mutata situazione sociale, l'ineguale distribuzione delle forze politiche e l'urgenza di un nuovo quadro democratico. È la fase dell'appoggio esterno del Psi. Commentando il congresso di Napoli della Dc, Togliatti afferma che esso si era svolto in «un grande quadro di trasformazioni e di sviluppo, ma insieme di turbamento della vita nazionale, di contraddizioni nuove ed antiche rivendicazioni delle masse, di fallimenti della politica democristiana, tutti elementi che pesavano sui ripensamenti del gruppo dirigente della Dc» . Inoltre, denuncia i limiti del disegno economico moroteo. Lo stesso riconoscimento del ruolo dell'industria di stato e la funzione di alcune nazionalizzazioni in assenza di un'organica prospettiva di riforme risultano depotenziate e dimostrano ancora una volta che l'interclassismo della Dc non consente scelte precise e coerenti e preferisce la cauta mediazione con gli interessi dei grandi gruppi finanziari. Il superamento del centrismo ha un suo valore, occorre però aver chiari gli elementi di ambiguità di una formula di governo nata con l'intento di spostare il Psi dalle sue posizioni unitarie e isolare il Pci. Togliatti non sottovaluta gli elementi di novità, invita il partito a una valutazione attenta del centro-sinistra, critica ogni atteggiamento massimalistico che neghi valore a qualsiasi mutamento del quadro politico, ma anche ogni chimera su un' era nuova nella quale i problemi delle masse si risolvano come per incanto. Il cosiddetto governo di apertura a sinistra, con l'appoggio estemo del Psi dura dal 10 marzo 1962 al febbraio 1963, prima delle elezioni politiche. Il programma presenta molti segni innovativi: impegno al rafforzamento della democrazia; nazionalizzazione delle imprese produttive di energia elettrica; formazione di un comitato per l'elaborazione del piano di programmazione economica; attuazione dell' ordinamento regionale; sviluppo dell'agricoltura mediante l'attuazione del «Piano verde», sviluppo e democratizzazione della scuola. È il «piano capitalistico» considerato dai «Quaderni rossi», un sofisticato disegno che vuole ingabbiare il movimento operaio. Il fallimento delle roboanti proclamazioni riformiste del centro-sinistra dimostrerà l'infondatezza di un capitalismo efficiente e risolutore di tutti i problemi sociali. L'opposizione di «tipo particolare» al centro-sinistra, per dirla con Togliatti, suscita polemiche e critiche in alcuni settori della Fgci, in una «sinistra» ai confini dei partiti ufficiali; per molti sembra rappresentare il riconoscimento comunista della programmazione e di quell'ideologia dell'efficienza di cui si fanno portatori i settori più avanzati del neocapitalismo . Questi temi sono al centro del convegno sulle «Tendenze del capitalismo italiano» promosso dall'Istituto Gramsci. Nella sua relazione, Amendola caratterizza il tipo di sviluppo come «espansione monopolistica» e pone come obiettivo del Pci la lotta per una democrazia di tipo nuovo e per le riforme di struttura . L intreccio fra questi due momenti è garanzia di un ampliamento della democrazia, garanzia per far fronte alle diverse esigenze sociali del paese, condizione per l'avanzata al socialismo. Amendola insiste sulla peculiarità della situazione italiana, un paese che non ha ancora risolto i guasti creati da uno sviluppo ritardato e distorto; uno scontro su cui si innestano i modelli neocapitalistici. Un' analisi che parte da un presupposto ormai caduco per la «nuova sinistra»: la peculiarità del capitalismo italiano e la sua impossibilità a rispondere alla crisi strutturale del paese. Il dibattito non manca di voci critiche, fra le altre quella di Lucio Magri. Molti interventi insistono nell' attribuire al capitalismo italiano un carattere avanzato, capace di risolvere gli annosi squilibri regionali, le disarmonie tra settori economici e le disuguaglianze tra classi di reddito. Partendo da questi presupposti teorizzano l'interesse dello stesso capitalismo a raggiungere tali finalità per realizzare un suo ulteriore sviluppo, e in assonanza con le elaborazioni dei «Quaderni rossi», finiscono per negare l'importanza della lotta per la programmazione democratica. Il nemico occulto e temuto è la razionalità del capitalismo; contro di essa occorre lottare facendo saltare i suoi piani, inceppandone i meccanismi. Scriverà Lelio Basso nel suo La partecipazione antagonista pubblicato in Neocapitalismo e sinistra europea del 1969: «Gli interessi generali del sistema, in quanto presuppongono l'integrazione della classe operaia nel sistema stesso, richiedono che si tenga conto anche delle sue esigenze. Perciò nella sua funzione mediatrice lo stato non può ridursi al ruolo di esecutore della volontà immediata di gruppi capitalistici dominanti, ma deve tener conto di tutte le spinte e di tutte le forze sprigionate dai vari centri di potere, anche di quelli della classe operaia e degli altri ceti non capitalistici, discriminati nel paese, per contenere le opposizioni e le frizioni ali'interno del sistema. Ciò porta la macchina statale ad assolvere a una funzione di "stanza di compensazione" di energie variamente contraddirtene ...». La rete dell'integrazione si avvolge dunque attorno alla classe operaia e alle lotte sociali, uscire dalla morsa significa, — scrive ancora Leiio Basso — «distruggere la logica interna al sistema capitalistico, colpendolo sia nelle sovrastrutture ideologiche e istituzionali, sia nel suo meccanismo motore che è il profitto». Il dibattito avviato dalle Sette tesi continua lungo il corso degli anni sessanta, le elaborazioni sui caratteri del capitalismo moderno si arricchiscono delle teorie economiche di Sweezy e Baran, a cui si aggiungono la sociologia della scuola di Francoforte e il pensiero di Marcuse. Le parole chiave sono semplici: neocapitalismo-integrazione come morte della lotta di classe, anzi una lotta di classe già prevista dalla regia del capitalismo, messa nel conto e programmata; proprio per questo la fantasia deve superare la razionalità economica, il prevedibile, il piano, il possibile, il realizzabile. In questo contesto il revisionismo del Pci è visto come l'altra faccia del riformismo. Un Pci che vuole legittimarsi come forza di governo senza tuttavia mutare le regole del gioco democratico che si serve delle lotte di massa, per sfruttarle in chiave istituzionale. Un Pci che non può consentire un dissenso alla sua sinistra perché ciò significherebbe una perdita del suo ruolo di rappresentante delle masse e al tempo stesso non può spingere i conflitti sociali oltre certi limiti, pena la messa in discussione della sua immagine legalitaria.
I rinnovi contrattuali dei metalmeccanici saranno visti come conferma di questa contraddizione. «Lotta politica» commenterà «Quaderni rossi» e accuserà i sindacati di sinistra di non sfruttare la loro intrinseca conflittualità, troppo preoccupati di incanalare le lotte nel!' alveo della programmazione democratica, troppo preoccupati di una fraintesa unità, fatta di mediazioni fra i vertici e di compromessi a scapito dell'unità di base, quella del nuovo «operaio sociale».
P. Togliatti, Passare dai programmi all'azione per una effettiva svolta a sinistra, in Opere, cit., p. 603.
Togliatti nel dibattito sulla fiducia al governo di apertura a sinistra dichiara: «L'opposizione di cui questo governo ha bisogno è di tipo particolare. Deve essere una opposizione che riconosca quanto possa essere di positivo nelle ricerche e affermazioni programmatiche ...». Seduta del 5 marzo 1962, da Togliatti, Discorsi parlamentari, voi. II, Ufficio stampa e pubblicazioni, Camera dei deputati, 1984, p. 1230.
Cfr. Tendenze del capitalismo italiano, Editori Riuniti, 1962. Atti del convegno svoltosi a Roma dal 23 al 25 marzo 1962.
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8. Nelle peggiori condizioni, il peggior governo
La Dc, accentuatasi la crisi dell' interclassismo e del centrismo, è stata costretta ad affrontare in termini nuovi il suo rapporto con il movimento operaio, ma rimangono le ambiguità; per il gruppo dirigente democristiano si tratta di avviare la nuova politica senza rompere con i gruppi monopolistici più forti e con le gerarchle ecclesiastiche. Ne deriva l'ambivalenza del centrosinistra e la sua incerta definizione politico-sociale. Di fronte al grave deterioramento della situazione politica, nel paese crescono le lotte di massa per imporre una svolta a sinistra, per la pace, le riforme, la democrazia, la libertà. Nel dibattito sulla fiducia al governo del gennaio 1963, Moro dovrà definitivamente rinunciare alla cosiddetta «sfida democratica ai comunisti», una sfida che avrebbe dovuto dimostrare la capacità della Dc di portare avanti i punti più «ragionevoli» del programma proposto dai comunisti. Moro non ripropone il tradizionale anticomunismo, parla di un anticomunismo non conservatore, né sul terreno sociale né su quello politico, di un anticomunismo che non intende «trasformarsi in regime né combattere la battaglia per la libertà con mezzi che non siano quelli della libertà», nello stesso tempo però respinge ogni convergenza con i comunisti. In quest'anomalia italiana stanno la conflittualità, le contraddizioni, le gravi conseguenze dell'«amputazione democratica» del dopo Resistenza. Scrive Togliatti su «Rinascita»: «Sono vent'anni che si combatte in Italia; due forze avverse, l'una di progresso e rivoluzione, l'altra di conservazione e reazione si affrontano e si misurano in un conflitto che ha avuto le più diverse fasi, nessuna delle quali però si è conclusa in modo tale che potesse significare il sopravvento dell' uno o dell' altro dei contendenti. Quale l'origine della situazione? Essa è la conseguenza di un fatto che non può più essere cancellato. Le classi popolari sono diventate un momento decisivo della storia nazionale e della vita di questa storia. Sono le classi popolari che hanno fondato lo stato italiano odierno, e non il vecchio ceto dirigente e privilegiato, hanno organizzato e diretto la Resistenza, la guerra, la liberazione, la riconquista di un regime di democrazia e di progresso» . Il X congresso del Pci (Roma, 2-8 dicembre 1962) si svolge mentre è in carica il governo Fanfani che si avvale dell'appoggio esterno del Psi. Nella sua relazione Togliatti esprime un articolato giudizio sull’ esperienza di centro-sinistra che si va delineando: «Sorta come una cosa eterogenea, dove il positivo ed il negativo si intrecciano e confondono. Chiudere gli occhi davanti al positivo che si concretò in alcuni punti del programma governativo, sarebbe stato un serio errore che non facemmo e non faremo mai. Quei punti programmatici erano il frutto di una elaborazione collettiva ed unitaria alla quale noi avevamo avuto una parte non indifferente [...] Priva di qualsiasi fondamento è quindi tutta la campagna sul nostro sedicente imbarazzo e tentato inserimento della ultima ora, così come assurda l'accusa che ci si muove di condurre contro il governo attuale una lotta frontale solo perché gli impegni programmatici vengono rispettati ed attuati» . Il Pci non si muove in modo pregiudiziale contro l'ingresso nella maggioranza governativa del Psi, anzi precisa che questo atto politico potrebbe rappresentare un fatto positivo se avesse la capacità di avvicinare le masse di orientamento socialista a quelle cattoliche; sarebbe invece un fatto da condannare se provocasse solo una rottura nel movimento operaio finendo col subordinare una parte della classe operaia alla politica democristiana, La nuova situazione politica è la risultante di diverse spinte e tendenze che agiscono sul Psi e sugli altri partiti della maggioranza, compresa la De, nel senso di un reale rinnovamento. Permane, come dato grave, l'incapacità della sinistra De di vincere il tradizionale anticomunismo; a ciò finisce per prestarsi il Psi che pensa di sconfìggere le resistenze conservatrici della destra economica e politica della Dc senza valersi dell'apporto del Pci, anzi discriminandolo: «Finendo — afferma ancora Togliatti — quindi col perdere la forza di contrattazione rappresentata dall'appoggio delle masse di orientamento comunista e del legame con la lotta e il movimento di massa del paese». Nella preparazione e nello svolgimento del X congresso del Pci ci si sofferma a lungo sui mutamenti economico-sociali intervenuti nell'ultimo decennio. Si individuano i tratti distintivi ma anche i limiti di quello che dagli economisti del centro-sinistra viene definito «il miracolo economico»; in particolare si insiste sul distacco fra incremento dei salari e incremento della produzione con le conseguenze che ciò comporta per nuove forme di accumulazione capitalistica. Contemporaneamente si evidenzia il valore delle lotte operaie che hanno costretto i gruppi dominanti ad assumere una linea di «ammodernamento» capitalistico e di espansione produttiva con la conseguenza di un allargamento del mercato interno in difesa del tenore di vita delle masse popolari. Si arricchisce la nozione di capitalismo monopolistico di stato, tematica già affrontata nel convegno dell' Istituto Gramsci, mettendo in guardia contro possibili illusioni, presenti nello stesso partito, circa le capacità del capitalismo monopolistico di stato di risolvere problemi storici della società nazionale. Contro le teorizzazioni dello «stato imprenditore», come erano state espresse nel convegno di San Pellegrino e riprese, poi, nelI'VIII congresso Dc, la riflessione si incentra sulle questioni dello stato, del rapporto fra stato ed economia, sulle caratteristiche del processo di concentrazione monopolistica. Partendo da queste premesse teoriche, il centro politico è la lotta contro i monopoli. Lo sviluppo economico ha posto in modi diversi il ruolo delle riforme nel capitalismo moderno, esse non rappresentano una semplice razionalizzazione del sistema ma un programma di lotta decisivo per modificare condizioni e monopoli. Alla domanda se il potere dei monopoli possa essere spezzato prima della costruzione del socialismo, la risposta del X congresso è netta: le lotte per le riforme di struttura e le lotte per imporre una programmazione antimonopolistica si intrecciano e si compenetrano tra loro, nel nesso profondo che unisce democrazia e socialismo. Una dialettica permanente che impone una forte polemica contro ogni posizione tendente a sottovalutare e negare il valore delle conquiste democratiche. Nell'epoca dello sviluppo monopolistico, con il progressivo inasprimento delle diverse contraddizioni, con il concentrarsi nelle mani di pochi delle leve del potere, si ha un progressivo restringimento delle libertà individuali e la stessa società borghese non è in grado di mantenere in vita le sue conquiste. Diverse sono le forme di questa limitazione di libertà, fino a quelle apertamente fasciste e reazionarie, con un progressivo svuotamento dei principali fondamenti del regime democratico. Acquistano tutto il loro spessore strategico, quindi, la salvaguardia delle libertà democratiche, la difesa delle conquiste sancite dalla Costituzione e la lotta costante per la loro effettiva applicazione. Polemizzando coi critici dell'unità antifascista e dei caratteri che ha assunto la lotta di Liberazione in Italia, Togliatti insiste sulla funzione dell' unità democratica, non un espediente tattico di quella fase ma, la condizione essenziale per una «radicale opera di rinnovamento della vita nazionale». Nessuno è riuscito a cancellare le fondamentali conquiste della Resistenza e la prospettiva di fondazione di un nuovo stato è più che mai aperta: «Essa è la prospettiva di una lotta politica, di un movimento di massa democratico e pacifico per trasformare gli ordinamenti attuali, spingendo tutta la società nella dilezione del socialismo. Pacifico, ho detto, nel senso che vuole impedire la guerra, prima di tutto, ma anche nel senso che considera anche la guerra civile come una sciagura da evitare e ritiene che esistano oggi le condizioni che consentano di evitarla» . Ma ormai è entrata in crisi l'ideologia post-resistenziale; «la Resistenza non fa più paura» scrivono i «Quaderni piacentini» commemorando il 25 aprile del 1962. La carica innovatrice e protestataria dei giovani del luglio '60 è stata ricondotta nell' alveo democraticista di un' unità senza principi che mette insieme la sinistra con la Dc e i «vecchi inutili» e «gli antifascisti di professione» non si accorgono di andare a braccetto dei fascisti. «Coi fascisti non intendiamo i missini, bensì la solita classe dirigente» . E l'anno dei rinnovi contrattuali dei metalmeccanici: a Torino, in luglio i disordini di piazza Statuto. La stampa di sinistra e quella padronale sono d'accordo nell'interpretazione: «provocazione preordinata», «tentativi teppistici e provocatori», «giovani scalmanati», «anarchici», «internazionalisti». A ridosso del X congresso nascono ali'interno del Pci le prime forme di propaganda delle posizioni cinesi. Esse fanno capo al gruppo di Padova guidato da Wilson Duse ed al giornale «Viva il leninismo», nato come strumento di pressione per condizionare i risultati congressuali. Dopo l'esplusione dal partito, inizia l'itinerario organizzativo che porterà, nel '66, alla fondazione del Pcd'I (marxista-leninista). Già nella conferenza degli 81 Partiti comunisti e operai tenutasi a Mosca, il Partito comunista italiano aveva espresso il suo dissenso sulle posizioni del partito comunista cinese. Nel dibattito congressuale riemergono i termini del contrasto. Contro la tesi cinese dell' inevitabilità della guerra, i comunisti italiani riaffermano come prioritario l'obiettivo della «pace». Togliatti precisa che non si tratta di un mutarsi della natura dell'imperialismo, bensì di mutati rapporti fra le forze internazionali, «questo impedisce ali'imperialismo di fare ciò che vorrebbe» e, inoltre, lo stesso carattere «qualitativamente nuovo della guerra nucleare» rafforza la politica della «coesistenza pacifica». Respinge l'accusa cinese di revisionismo e di opportunismo, al contrario esalta la coesistenza pacifica come momento essenziale nelle condizioni del mondo moderno, della stessa strategia per il socialismo. Un'avanzata verso il socialismo in cui le lotte di liberazione dei popoli oppressi dal colonialismo e le varie vie nazionali rappresentano un processo composito e ricco; per cui il Partito comunista italiano pur riconoscendo la necessità di un coordinamento, condanna ogni concezione da partito guida o, come sosteneva il Partito comunista cinese, una preminenza dei popoli del Terzo Mondo e delle zone sottosviluppate fra le forze mondiali della rivoluzione socialista. Alle critiche del Pci il rappresentante del Partito comunista cinese replica in pieno congresso anticipando la risposta più organica che verrà coi due opuscoli Sulle divergenze fra noi e il compagno Togliatti e Ancora sulle divergenze fra noi e Togliatti. L'accusa è netta: Togliatti ha abbandonato il marxismo-leninismo, la dittatura del proletariato, la lotta di classe; ha scelto la via della collaborazione col capitalismo. I due opuscoli offrono l'inventario completo degli argomenti che saranno usati dagli emmellisti, su quei temi ridotti a schema dai cinesi si formerà una generazione di militanti cresciuti fuori dai «partiti» ufficiali, quelli che discuteranno e si scontreranno coi servizi d'ordine del Pci e dei sindacati nelle manifestazioni antimperialistiche, quelli che saranno i protagonisti delle lotte sessantottesche. Inizia un'intensa campagna di propaganda da parte dei gruppetti filocinesi, sulle riviste si discute del fenomeno cinese, sui «Quaderni rossi» si parla di modello di società socialista. Divide ancora lo stalinismo; le ambivalenze interpretative attorno alla rivoluzione culturale scioglieranno i dubbi e le riserve; il maoismo, sia pure con molte differenziazioni, sarà uno dei principali terreni di unificazione dell'antirevi-sionismo e dell'anticomunismo. Nelle organizzazioni giovanili di sinistra e in quelle cattoliche si avvertono i segni di un forte disagio, si contesta nei contenuti e nei metodi il partito di appartenenza, si cerca un nuovo socialismo e una qualità nuova dell' impegno cattolico. Nella società dei consumi piena di un americanismo importato, che si estende a tutte le sfere comportamentali, crescono le lotte operaie e sociali, nasce una domanda di società diversa, esigenza che diventa elemento dinamico della condizione giovanile. A Milano, il 27 ottobre 1962, nel corso di una manifestazione il ventunenne Giovanni Ardizzone, iscritto alla Fgci, è travolto e ucciso da una camionetta della polizia. Gli studenti stanno per concludere il tirocinio avviato davanti alle fabbriche, nei picchetti davanti alla Fiat, a sostegno di Cuba, contro il franchismo e l'imperialismo Usa. Diverso è il loro peso nelle manifestazioni in piazza; lo prova la stessa violenza dell'intervento della polizia. Non si tratta di «ragazzate», lo Stato ha capito e la polizia riserva un trattamento comune a studenti e operai; «li picchia senza misericordia per terrorizzarli, cerca di lasciargli i segni sulla faccia perché non si scordino più» . Ardizzone muore mentre manifesta per Cuba e per la pace, molti giovani capitano per caso alle manifestazioni, l'intervento della polizia li farà ritornare più coscienti e combattivi. Per i «Quaderni piacentini» questi giovani non sono uguali ai pacifisti inglesi, non hanno il senso del limite, sono «estremisti» e aggiungono: «C'è una ragione precisa per cui oggi coloro che manifestano per la pace sono estremisti. Si può manifestare "avendo il senso di certi limiti" quando si sa che in simili circostanze la polizia ha ucciso dal '45 ad oggi cento cittadini e ne ha feriti cinquemila?» . Difficoltà congiunturali si erano registrate già nell' autunno del 1961. Nel 1962 il tasso di incremento del reddito nazionale era stato inferiore al tasso medio dei tré anni precedenti e in particolare sensibilmente inferiore a quello del '61 . Si rileva, inoltre, una forte contrazione degli investimenti e delle esportazioni. Particolarmente grave è l'aumento dei prezzi, ormai tutti gli indici mettono in evidenza una forte spinta inflazionistica, le conseguenze sono la riduzione della competitivita sul mercato internazionale e una caduta negli investimenti. La causa fondamentale dell'instabilità dei prezzi viene imputata agli aumenti salariali registrati tra il 1962 e l'inizio del 1963. Il governatore della Banca d'Italia Carli indica come necessaria, per il superamento della congiuntura, una linea decisamente antipopolare basata sul contenimento della dinamica salariale e della spesa pubblica; sulla riduzione dei programmi d'investimento delle imprese pubbliche e di quelle a partecipazione statale. Le elezioni politiche del 28 aprile 1963 segnano una grande avanzata del Pci che guadagna quasi un milione di voti; secca la sconfìtta della Dc che perde circa 750.000 voti. Moro, pur ammettendo che la Dc ha perso ovunque e riconoscendo l'avanzata del Pci, ritiene assolutamente inaccettabile l'opinione di Togliatti che è venuto il momento per i comunisti di entrare in un «campo di governo». Designato a formare il nuovo governo propone la formula di centro-sinistra, nella sua accezione più chiusa e discriminatoria, vera e propria variante del centrismo. In queste condizioni Nenni, è, per il momento, costretto a dire di no a Moro. Incapace di dare al paese un governo adeguato ai risultati elettorali la Dc chiede una sorta di «vacanza nazionale dei cervelli», così Pajetta definisce il governo d'affari presieduto da Giovanni Leone. Nel consiglio nazionale del luglio, Moro accetta tutti i condizionamenti conservatori dentro e fuori della Dc, tenta il rilancio del centro-sinistra in chiave di delimitazione anticomunista. Spetta al presidente della Repubblica Antonio Segni dirimere la soluzione della crisi. Alle dimissioni di Leone, segue l'incarico ad Aldo Moro che prospetta un programma basato su alcuni principi nettamente conservatori: un nuovo atlantismo, l'anticomunismo, il rinvio della programmazione a favore della politica anticongiunturale proposta dal governatore della Banca d'Italia e dal ministro del Tesoro Colombo (difesa della lira, politica dei redditi con il conseguente blocco dei salari). «Si è formato nelle peggiori condizioni il peggior governo di centrosinistra»: commenta il Pci. Nel dibattito alla Camera sul governo Moro, 25 deputati socialisti rifiutano di votare per il governo. E la rottura del Psi e la nascita del Psiup. Il partito di Vecchietti raccoglie la tradizione della sinistra socialista e non chiude alle nuove formazioni con cui stabilisce un lavoro comune anche in virtù di molte assonanze culturali. Lo stesso entrismo nel Psiup sarà vissuto come pressione per spostare il Pci. Per altro il Psiup non riuscirà a trovare una composizione fra le diverse anime della sinistra socialista, rimanendo sempre diviso fra riavvicinamento e autonomia conflittuale col Pci, da ciò deriva la sua permeabilità alle spinte della gruppettistica in formazione. Contro la politica dei redditi di Colombo e del governatore della Banca d'Italia il Pci si batte per imporre la programmazione democratica. Scrive Togliatti in un suo editoriale del 1964: «Una programmazione democratica, quale rivendichiamo, è quindi cosa ben diversa da una politica dei redditi. E cosa opposta, ripetiamo. Essa tende infatti con misure di controllo e con misure di intervento nella sfera delle decisioni economiche, non già ad impedire l'azione con la quale le forze del lavoro si sforzano di contestare le leggi del profitto capitalistico, ma anzi a contestare e limitare essa stessa il dominio di queste leggi, a distruggere posizioni di sopraprofitto, di speculazioni e di rendita, a passare gradualmente alla collettività il potere di decisione relativo ai più grossi problemi che angustiano la vita del paese» 34. Il programma del governo Moro è articolato nei «due tempi» divenuti poi tristemente famosi: il primo, di risanamento della congiuntura e il secondo, di avvio alla politica di piano. Il Pci pur affermando il suo impegno a far sì che la classe operaia, nella sua attività rivendicativa, adegui le proprie richieste agli orientamenti e agli obiettivi della politica economica — se questi saranno corrispondenti ai suoi interessi e a quelli dell' intera collettività nazionale — rifiuta in modo netto ogni proposta di tregua salariale. Nonostante e contro le condizioni diffìcili, il calo occupazionale, l'attacco padronale, i tentativi perseguiti dal governo e dai gruppi monopolistici di addossare la responsabilità della crisi economica ed imporre una tregua salariale alle classi lavoratrici, le lotte operaie e contadine avanzano. Si sperimentano nuove forme di agitazione, si precisano sempre più gli obiettivi, nella costruzione laboriosa di nuovi livelli unitari e di nuove alleanze sociali e politiche. Un processo non lineare, con battute d'arresto e difficoltà, che si svolgerà ininterrottamente fino alla grande stagione delle lotte contrattuali del 1968-69. All'ombra di questa situazione complessa, sul piano politico e sul piano economico maturano tentativi apertamente reazionari che verranno alla luce qualche anno dopo. Nel luglio 1964 il generale De Lorenzo, capo del Sifar che otto anni dopo verrà eletto deputato del Msi, progetta un piano eversivo, un colpo di stato ai danni della democrazia italiana: si prevedono l'occupazione dei centri Rai-Tv, delle prefetture e di tutti i punti nevralgici dello stato. Il 13 agosto del 1964, Palmiro Togliatti è colpito da emorragia cerebrale mentre presenzia a una manifestazione della gioventù comunista sovietica nel campo pionieri di Artek. Rapidissima la notizia si diffonde in tutto il mondo; apprensione e sgomento di milioni di comunisti, di lavoratori democratici. La morte sopraggiunge il 21 agosto. Il viaggio di Togliatti in Urss doveva coincidere con una serie di incontri con i sovietici, in preparazione della Conferenza Internazionale dei partiti comunisti. Per tali incontri Togliatti aveva steso alcuni appunti, saranno il suo testamento politico: il Memoriale di Yalta. Uno scritto denso di problematicità, animato dall'esigenza di rigore e di riflessione e dalla necessità di maturare appieno il significato storico del XX congresso, superando ogni dogmatismo, ogni concezione acritica di fronte a ciò che avviene nel mondo socialista: «Avere molto coraggio politico, superare ogni forma di dogmatismo, affrontare e risolvere in modo nuovo problemi nuovi, usare metodi di lavoro adatti ad un ambiente politico e sociale nel quale si compiono continue e rapide trasformazioni» . È presente al leader comunista l'ampiezza della crisi del sistema capitalistico monopolistico di stato, l'incapacità delle tradizionali classi dirigenti a risolvere i nuovi problemi che hanno di fronte. La centralizzazione della dirczione economica è questione all'ordine del giorno in tutto l'occidente. Rispetto a questo tema il movimento operaio e democratico non può essere indifferente, è un terreno nuovo di lotta. Rivendicazioni immediate e proposte più generali di riforma di struttura debbono essere coordinate fra loro in un piano di sviluppo capace di contrapporsi alla programmazione capitalistica. Non sarà un «piano socialista» ma un nuovo inizio di lotta per «avanzare verso il socialismo».
I funerali di Togliatti si svolgono a Roma: un grande fatto di popolo; sono presenti i massimi dirigenti del movimento operaio internazionale. Il corteo sfila per ore, lo seguono militanti venuti da tutte le città, da tutte le regioni. Insieme ai comunisti, democratici, antifascisti, la testimonianza commossa del prestigio, del valore, della stima, dell'affetto popolare per un grande dirigente del partito comunista e dell' intero movimento operaio.
P. Togliatti, Per una Italia nuova, «Rinascita», n. 5, maggio 1962.
P. Togliatti, Rapporto alX congresso del Pci, in Opere, cit., p. 673. Ibidem.
«Quaderni piacentini» n. I/bis, aprile 1962; 25 aprile 1962; ora in «Quaderni piacentini, Antologia, 1962-1968», Edizioni Gulliver, 1977, p. 17.
G. Cerchi - A. Bellocchio, Appunti per un bilancio delle recenti manifestazioni di piazza, «Quaderni piacentini», n. 6, dicembre 1962; ora in «Quaderni piacentini, Antologia», 1962-1968, cit., pp. 35-37.
Cfr. E. Peggio, Aspetti della politica economica italiana dal 1961 ad oggi, «Critica marxista» n. 4/5, luglio-ottobre 1964.
P. Togliatti, Programmazione o politica dei redditi?, «Rinascita» n. 24, 1 giugno 1964.
P. Togliatti, Memoriale di Yalta, in «Opere», cit., pp. 823-833.
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9. La generazione del Vietnam
Dopo la morte di Togliatti, estesi settori della Fgci, «entri-sti» di varia matrice accarezzano l'idea di una svolta: il ritorno a posizioni più dure, una linea più decisamente anti-democristiana, una diversa posizione rispetto alla Cina. Si cercano differenziazioni nel gruppo dirigente, la polemica Ingrao-Amendola viene amplificata, presentata come la lotta fra due linee. La scelta di Luigi Longo a segretario è considerata un temporaneo compromesso . Colombo ha proclamato la necessità dell' arresto della dinamica salariale. Moro ha fissato un tetto agli aumenti salariali; intanto l'unità sindacale è lontana a venire; Cisl e Uil giudicano le lotte portate avanti dalla Cgil come lotte contro il centrosinistra. Il 1964 vede aumentare le ore di sciopero, nello stesso tempo si ha anche un pesante calo dell'occupazione: 60.000 occupati in meno fra i tessili; 100.000 fra i metallurgici; 150.000 nel settore edilizio. Numerose le lotte difensive per mantenere il posto di lavoro e per aumentare le retribuzione. Nella Cgil si discutono i modi e le forme della lotta contro la congiuntura e per imporre un diverso tipo di programmazione. Nelle librerie va a ruba Eros e Civiltà di Marcuse; si discute sul fatto che il testo prospetti un nuovo modo di essere marxisti o se si tratti solo delle divagazioni di un filosofo borghese; un progetto di società o l'annullamento nell'utopia di un'impossibile trasformazione? Marcuse, Mao, Marxismo, diventano tré fonti a cui attingere non solo per definire una nuova teoria della rivoluzione quanto per trame coerenti comportamenti sociali. La società moderna e i suoi miti imposti dal capitalismo sono messi sotto accusa mentre si guarda a un presunto regno della libertà: libertà dalla tradizione, dalla storia, dalle regole. Anno complesso il '64. Sulla rubrica il «Franco tiratore» dei «Quaderni piacentini» si legge: «II processo Ippolito, la crisi nel Vietnam, gli scontri Rockers-Mods, gli attentati in Alto Adige, l'agonia (rientrata) di Segni, la pop-art a Venezia, Goldwater, i funerali di Togliatti... un'estate calda. Ma il colpo migliore, l'avvenimento che ha più impressionato pensiamo sia stato il topless» . Proseguendo nella satira quello che preoccupa è la «gradualità» verso un processo di nudo integrale che può sempre, per cause oggettive, bloccarsi o retrocedere. Nell'ottobre dello stesso anno muore Raniero Panzieri, «l'Unità» in un trafiletto commenta una «singolare e tormentata figura del movimento operaio». I «Quaderni rossi» entrano in una fase nuova; sempre più intenso è il lavoro di raccordo fra i vari gruppi locali; la questione della organizzazione, origine della scissione con «Classe operaia», rimane un nodo da sciogliere. Non soddisfano i «piccoli passi», un gradualismo tutto dentro il sistema; il mondo sta cambiando: nel Vietnam un piccolo popolo tiene sotto scacco il colosso imperialista; Cuba si è liberata dal giogo capitalista con la guerriglia; in America esplode la nuova sinistra, anticonformista, trasgressiva, portatrice di una radicale critica ali'intero assetto sociale . Il sindacato di fronte all'attacco padronale non trova altro che coniugare insieme «programmazione» e «obiettivi intermedi». Se qualche speranza rimaneva nella combattività del sindacato anche questa svanisce. Il capitalismo ha fatto il suo gioco; l'operaio della «seicento», delle vacanze e del sabato sera è ormai dentro il sistema: un integrato. Nella sua relazione introduttiva al VI congresso della Cgil, Agostino Novella, ribadita la responsabilità nazionale della classe operaia, pone con forza l'esigenza della programmazione democratica . Occorrono scelte prioritarie capaci di dar corso ad un diverso sviluppo economico, capaci di risolvere gli squilibri, di tagliare con il parassitismo, premessa per un diverso intervento dei poteri pubblici nella vita economica. La strategia della lotta per la programmazione democratica e per la contrattazione articolata consente l'intervento nelle diverse lotte di fabbrica. E l'apprendistato degli «operaisti». Davanti ai cancelli gli studenti dei gruppetti sono agitatori e propagandisti del «socialismo». Nascono le «avanguardie» di fabbrica, non è difficile criticare il sindacato e le logore commissioni interne. Sono proprio i limiti del localismo e di uno sperimentalismo fatto di fughe in avanti ad accrescere l'esigenza del «partito». Spetta ai marxisti-leninisti il ruolo di avanguardia nella costituzione del nuovo partito rivoluzionario. Le vicende cinesi e 1' apertura della Grande rivoluzione culturale cinese faranno il resto. Nell'ottobre '66 a Livorno nasce il Pcd'I (marxista-leninista). Più complesso è il passaggio all'organizzazione per le altre formazioni. Non vi è il mito del «partito». Un tema che non sarà mai definito con nettezza nell'universo dell' operaismo; piuttosto l'esigenza è la centralizzazione nazionale e l'unificazione delle varie esperienze a sinistra del Pci. Mentre crescono le lotte nel paese, la parola dordine dei comunisti diventa: «rovesciare il governo di centro-sinistra per una nuova maggioranza e per l'unificazione delle forze socialiste». Dunque sollecitare nuovi rapporti all'interno del movimento operaio e con il mondo cattolico. Questo è l'obiettivo politico dell'XI congresso. La polemica con i socialisti è serrata. Si tratta di battere la manovra di unificazione socialdemocratica tesa a una rottura insanabile nel movimento operaio italiano. La questione del partito unico dei lavoratori, posta prima del congresso, è riconfermata nelle tesi preparatorie: «La nostra iniziativa non si rivolge solo al Psiup e al Psi, ma si rivolge più in generale alla classe operaia ed ai lavoratori, agli intellettuali, a tutti gli uomini e a tutte le forze di orientamento democratico e socialista coerente. Noi non proponiamo una somma aritmetica di forze, ne una somma algebrica di programmi ideologici e politici, ma proponiamo di dar vita ad un processo per giungere ad un partito unificato che raccolga la parte vitale di tutte le esperienze rivoluzionarie del passato e si adegui a quelli che sono i compiti rivoluzionari di oggi per l'avanzata verso il socialismo e per la sua edificazione» 40. L'unità della sinistra è il grande tema del momento, nelle lotte di fabbrica e nella società mal si sopporta la divisione dei partiti della classe operaia, si esigono nuovi livelli unitari capaci di superare schieramenti politici e preclusioni ideologiche. E la grande stagione delle lotte per la pace, per la libertà dei popoli, per la vittoria del popolo vietnamita contro l'aggressione americana. Nelle imponenti manifestazioni antimperialiste si incontreranno democratici, progressisti, lavoratori, generazioni diverse. Una nuova generazione di militanti è chiamata alla lotta da questi ideali, da questa forte tensione verso la libertà: è la «generazione del Vietnam». Tutto spinge a cambiare e in tutti i campi: la musica, i costumi, le mode e gli influssi culturali; lo zigzagare dei comportamenti arriva per tanti rivoli alla politica, non la quotidianità burocratica del partito terzointernazionalista ma quella delle grandi occasioni, del cambiamento come «rottura» col vecchio e fondazione del nuovo. La politicizzazione avviene per tante vie: andando ai concerti rock; nelle librerie Feltrinelli in cui c'è di tutto, dai libri cubani a quelli delle avanguardie letterarie, dai flip-per ai poster di Marilyn, Mao Tse-Tung, James Dean e Che Guevara; comprando la «cinquecento» e portando i blue jeans. All'inizio del '66 al liceo Parini di Milano scoppia lo scandalo della «Zanzara», il giornaletto d'istituto che per aver affrontato i temi dell'educazione sessuale sarà sottoposto a una dura repressione, con tanto di processo; il 26 aprile Paolo Rossi, studente di architettura iscritto al Psi, è ucciso durante un assalto fascista alla facoltà di lettere di Roma. Le occupazioni che seguono non discutono più dell'università ma di politica: basta col vecchio antifascismo, terreno di strumentalizzazione del Pci; occorre aria nuova, gli organismi studenteschi sono in crisi, il loro rapporto coi partiti si è profondamente logorato, le loro sigle non rappresentano più nulla. Si respira il primo vento della contestazione. L'Unuri (Unione nazionale rappresentativa italiana) in cui confluivano sia l'Intesa dei cattolici, sia 1'Ugi (Unione goliardica italiana) è dentro il sistema, strumento del potere accademico; i parlamentini degli organismi rappresentativi sono la brutta copia della partitocrazia democratico-parlamentare. Nelle formazioni studentesche si riflette il dibattito più generale. Nell'Ugi la rottura si realizzerà sul ruolo da assegnare all'Unuri: i militanti del Pci e del Psi sono per una funzione istituzionale, mentre il Psiup e la sinistra radicale sono per il suo svuotamento e un collegamento più diretto delle lotte studentesche con le lotte di fabbrica e anti-imperialiste. La proposta di un sindacato degli studenti lanciata dalla Fgci, vista con diffidenza anche al suo interno, avrà fiato corto. I giovani comunisti non riescono a trovare una loro linea, divisi essi stessi fra le simpatie ingraiane e il dissenso aperto, prigionieri al tempo stesso delle voglie istituzionali. Nelle loro proposte prevale la piatta adesione al «partito», lo stesso passaggio da «Città Futura» a «Sinistra Unita», liquidato dai sinistri come «bollettino parrocchiale», finisce con l'essere una brutta copia della più ambiziosa unificazione delle sinistre. Al congresso di Rimini dell' Ugi attorno alle Tesi della Sapienza avviene la scissione. Intanto l'Intesa, attraversata al suo interno dalle tensioni per una nuova qualità dell' impegno sociale dei cattolici, si dissolverà nelle occupazioni di Facoltà e molti dei suoi militanti passeranno al gruppismo portandovi una forte componente di integralismo. La Rivoluzione è possibile! è questa la convinzione diffusa di una generazione che vede e sente attorno a sé che il mondo sta cambiando. Non si sa che tipo di rivoluzione e di socialismo, si può attingere da tante parti: c'è la Cina con la sua totale rifondazione del rapporto politica-cultura, dove le masse guidate dal pensiero di Mao Tse-Tung scendono in campo contro ogni residuo di revisionismo; c'è Cuba con il castrismo e con la scelta guerrigliera del comandante Che Guevara. Il «revisionismo» con le sue condizioni oggettive, con la sua prudenza, con il suo gradualismo e le sue tradizioni democratico-borghesi, con la sua coesistenza pacifica è l'ostacolo principale da abbattere. L'utopia della rivoluzione è l'altra faccia della paura del capitalismo. L'operaio si è integrato nel sistema, il borghese difende la sua condizione, i potenti di destra e di sinistra i loro privilegi, i partiti organizzano il consenso per lasciare tutto come prima; gli studenti-proletari in formazione, i «capelloni» che vogliono la libertà, gli hippies coi loro fiori, chi non ha mai fatto politica ma vuole liberarsi da una vecchia società: questi possono essere i nuovi protagonisti di una rivoluzione il cui desiderio è già valore. L'imperativo semplice ma chiaro è quello del presidente Fidel: «dovere di ogni rivoluzionario è fare la rivoluzione» e il comandante Che Guevara ne ha dato la conferma; ha lasciato Cuba per esportare la rivoluzione. Il giornalista e scrittore francese Regis Debray offre delle scelte del Che una tipica lettura occidentale. Motivo conduttore del suo libroRivoluzione nella rivoluzione è la concezione della guerriglia non come una semplice forma di lotta, ma uno strumento-processo per acquistare una diversa coscienza individuale, un'occasione per trasformare sé stessi, abbandonare la propria condizione «borghese», e porsi in modo totalmente nuovo e dirompente rispetto ai tradizionali rapporti operai-contadini-intellettuali, in un'unità fra tattica e strategia non più garantita da una «teoria», patrimonio del partito «rivoluzionario», ma da una «pratica» rivoluzionaria di eccezione. Una suggestività che ben si collega al dibattito in corso nella cultura occidentale sul ruolo degli intellettuali e sulla loro funzione rispetto alla lotta di classe, un tema ricorrente nelle pagine delle riviste degli anni sessanta e premessa indispensabile per la nascita del movimento degli studenti che spiega l'influsso ideologico delle rivoluzioni cubana e cinese su strati intellettuali e studenteschi al loro primo approccio con la politica. La stessa esperienza personale di Che Guevara fino alla sua morte in Bolivia, l'abbandono di ogni carica politica, le peregrinazioni nel mondo per portare a compimento un progetto rivoluzionario, animato prima ancora che da un disegno strategico da una grande carica di idealità, diviene mito e modello da seguire. Il suo slogan «creare due-tre-molti Vietnam», estendere tutti i focolai di lotta come strumento per uno scontro definitivo con l'imperialismo, assume il valore di un'indicazione tattica e strategica, valida dovunque ci sia da combattere contro l'imperialismo. Tra il '66 e il '67 le riviste politiche culturali nate ali' inizio degli anni sessanta subiscono una sorta di «rifondazione». Non basta più il tentativo di «ridefinizione» dell'intellettuale e dei termini del suo impegno sociale, si è parlato di proletarizzazione del tecnico, di mercificazione del letterato, di artista assoggettato alle leggi del consumo, vittima dell' ideologia dei mass-media, il tutto nella logica di una società capitalistica capace di assorbire e di sanare tutte le contraddizioni, un grande Moloc a cui è diffìcile sfuggire. Bisogna trame conseguenze politiche e di schieramento: «Giovane critica» e «Nuovo impegno» fiancheggeranno gli operaisti; «Quaderni piacentini» e «Quindici» il movimento. I vari marxismi critici, con le loro riletture, si combinano alle spinte egualitarie provenienti dal «cattolicesimo sociale». In bilico tra populismo e operaismo cresce la necessità di un rapporto fra strati intellettuali in formazione e classe operaia. Avanza una concezione avanguardistica del «lavoro esterno» alle fabbriche. Il rapporto che si cerca, per lo più in modo astratto, risulta viziato dall' attribuire alla classe operaia un tendenziale adeguamento al «sistema» e una perdita di «volontà rivoluzionaria», che invece viene assegnata, un riflesso della propria soggettività, a «gruppi intellettuali» e alla «categoria» degli studenti. Essere rivoluzionari significa essere fuori dai canoni, dalle norme, dalle regole codificate, significa essere «apocalittici» e rifiutare di essere «integrati», parafrasando il titolo di un noto libro di Umberto Eco di quegli anni. Lo stesso consenso che Pci e sindacato (leggi Cgil) mantengono fra i lavoratori è interpretato come rinuncia a quella lotta rivoluzionaria di cui al contrario si intravvedono i segni nelle manifestazioni spontanee e nella protesta, fino a teorizzare la lotta degli studenti come «detonatore» nei confronti della stessa classe operaia. Comuni alla «gruppettistica» divengono due procedimenti fra loro contraddittori; entrambi nascondono la consapevolezza della propria condizione minoritaria: da un lato lo sperimentalismo politico, dall' altro un processo di composizione teorica «dai libri ai libri». In entrambi i casi si parte da una purezza astratta di pensiero e su questa si cercano di modellare forme organizzative e indicazioni strategiche, per lo più sovrapposte e avulse dalla reale pratica politica del proletariato italiano. Spesso la critica al «revisionismo» rimane generica e ideologizzante, sospesa fra l'allontanamento dai testi classici del «marxismo-leninismo» e la messa in discussione del ruolo del «partito». In questa «operazione politica» si misconoscono, in omaggio a una bordighista «purezza rivoluzionaria», le tappe principali della stessa storia politica italiana — la Resistenza, la svolta di Salerno, la ricostruzione — considerate in blocco come esempi dei cedimenti tattici del revisionismo togliattiano. Più ricca e articolata la critica che nasce all'interno delle federazioni giovanili, ai margini dei tradizionali partiti operai, nel nuovo associazionismo cattolico. In questi militanti, intellettualizzati e per lo più giovani, lo sperimentare, il sentirsi costruttori in proprio di una linea, rompere con l'autorità impersonata dal partito, è una grande quanto corrosiva esigenza. Un misto di crisi e di affermazione di valori, un rifiuto della storia, ma anche il suo presentarsi come un vasto repertorio tutto indistintamente praticabile; l'affannosa ricerca di altro dal «realismo» della politica tradizionale. Siamo quindi di fronte a un processo intellettuale e sociale che estende la politicizzazione da una cerchia ristretta di intellettuali formati nei partiti operai o vicini ad essi — è il caso dei «Quaderni rossi» o di «Classe operaia» — agli autodidatti della politica. Paradossalmente nella società dei consumi e dell effimero benessere accanto al desiderio si massificano i luoghi comuni della «rivoluzione». Con l'inchiesta promossa da «Nuovo impegno» sui vari «gruppi» (fine del '67 e gli inizi del '68) appare chiaro il tentativo di porre la «autorità» del pensiero di Mao Tse-tung ed il concetto di «pratica sociale» a base di un virtuale processo di unificazione. Spesso, senza un rigoroso approfondimento i temi della rivoluzione culturale acquistano la funzione di un «modello» a cui ricondurre le varie sperimentazioni in atto e la stessa prospettiva di una nuova era rivoluzionaria. Le sue caratteristiche antiburocratiche, gli elementi di populismo, la rottura con la tradizione, l'immagine di una lotta di massa al revisionismo sono alcuni dei molteplici motivi che conferiscono ali' esperienza cinese un «alone» e una forza attrattiva per numerosi giovani, intellettuali in cerca di una loro identità. Principi come «servire il popolo», «milizia politica», «pratica sociale» formano un nuovo sistema d'autorità ideale per semplificare e riportare a sintesi l'ampiezza del dibattito delle riviste, sulla costruzione di una nuova tattica e strategia alternativa al Pci ed al movimento operaio organizzato. L'accelerazione di questo affanno culturale e di una nuova organizzazione non è solo indotta dal crescere della ricerca teorico-politica, ma è un riflesso del fallimento dell' operazione centro-sinistra, e di un dilatarsi della domanda di cambiamento che evidenzia così i limiti del quadro politico e spinge a una «fretta» trasformatrice. Per la «gruppettistica», il movimento degli studenti del 1968 segna una svolta: alla vigilia delle lotte universitarie la presenza delle formazioni minoritarie è ancora qualcosa di ristretto a poche «avanguardie politicizzate», quasi sempre militanti provenienti dai partiti operai tradizionali e dal sindacato; esiste il lavoro degli operaisti davanti ad alcune delle fabbriche più importanti; il Pcd'I (marxista-leninista) è il dogmatico evocatore di una tradizione «rivoluzionaria» ma con scarsi legami di massa. L'anno degli studenti segna il completamento di un itinerario e insieme l'apertura di una fase nuova nella società italiana, nel mondo giovanile e nella storia dell' estremismo. Per oltre un decennio processi eterogenei hanno convissuto fra loro; i figli del '56 si sono incontrati con i giovani degli anni sessanta, esperienze e storie diverse si sono intrecciate fra loro. Il vitalismo sessantottesco, incerto nella prospettiva ma dinamico nella volontà, riuscirà a comporre l'ansia di un' intellettualità attratta e insieme respinta dall'ideologia consumistica, permeabile a tutte le mode avanguardistiche e le speranze di una gioventù che, scesa in campo per la libertà, si è avvicinata al socialismo ma non si ritrova nella tradizione operaia e contesta il cauto conformismo della sinistra «revisionista». Tutto ciò mentre, fallite le sue presunte illusioni riformiste, si sono definitivamente logorate le premesse del centro-sinistra; la divisione nel mondo socialista è una dura e insanabile realtà. E impossibile coabitare in una sinistra «revisionista» e al tempo stesso ancora «stalinista» nella sua organizzazione interna; la logica dei «poli esterni» si è dimostrata inefficace; parziale e limitata l'esperienza dei gruppi locali; ormai è tempo di percorrere altre strade. La scelta del «ritorno al partito» di «Classe e Stato», con cui si conclude una ricerca iniziata nel '63, è solo un entrismo ritardato, stare nel Psiup per spostare il Pci. Altro è l'obiettivo di «Nuovo impegno»: unificare la nuova sinistra, superando la frammentarietà dello sperimentalismo locale e avviare le condizioni per una unificazione fuori del «revisionismo». Il '67 è l'anno delle espulsioni dal Pci e dal Psiup; i pisani che sono passati per i «Quaderni rossi», fondano nel febbraio il «Potere operaio» e lanciano a Rimini le Tesi della Sapienza. Il Black Power anche se non convince dimostra, l'impossibilità della «non violenza» come modo della lotta di classe. A giugno a Praga appare il manifesto delle 2.000 parole e in tutto il mondo esplodono i movimenti studenteschi. Sono passati meno di tre anni dalla rivolta di Berkeley. Dagli Stati socialisti al Sud America, dal cuore dell'imperialismo alla lontana Cina è tutto un «fuoco» rivoluzionario. Nella primavera le occupazioni di facoltà: Pisa, Venezia, Trento, Torino sono le premesse del Sessantotto. Il movimento degli studenti diventa il laboratorio del futuro estremismo, i gruppi con una storia già sedimentata si cimentano con una platea pronta a essere coinvolta e a fornire nuovi militanti. Al tempo stesso una gran massa di studenti inventa un modo diverso di far politica e trasforma nel profondo una gruppettistica cresciuta su se stessa e con scarsi collegamenti esterni. Una generazione riflette sulla sua storia mentre una nuova acquista consapevolezza del proprio ruolo. Vuole essere soggetto di cambiamento, sente che nel passato troppo poco si è cambiato, e rivendica un'accelerazione. Salta ogni apprendistato, 1'antirevisionismo è sinonimo di lotta all'autoritarismo, l'occupazione e poi lo scontro con la polizia, altrettante occasioni per la formazione della coscienza di classe. È un complesso di linee-forza; non esiste una teoria unificante ma tanti segmenti teorici e comportamentali che confluiscono, si intrecciano contaminandosi reciprocamente. La crisi del marxista si incontra con la crisi del cattolico, la spontaneità col nuovo stalinismo, il militante della Fgci deluso con lo studente che non ha mai fatto politica. Per moltissimi nelle lotte studentesche avverrà il primo impatto con la politica come scena, come azione, come un vissuto totalizzante. Una rivoluzione vissuta come desiderio che coinvolge non solo i diretti protagonisti, i più politicizzati, ma trascina una molteplicità di soggetti ricchi di suggestioni, di curiosità di vita, bisognosi di affermare nuovi valori su uno scenario e una cronaca politica considerata troppo piatta e incapace di interpretare il desiderio di rinnovamento.
La rifondazione della sinistra auspicata da Panzieri non si è avverata, al contrario si è accentuata la separazione fra il movimento operaio tradizionale e un composito sinistrismo ricco di fermenti e tensioni ma pur tuttavia incerto nel suo sviluppo come dimostreranno i suoi successivi itinerari.
Luigi Longo è eletto segretario del Pci nella seduta del comitato centrale del 26 agosto 1964.
«Quaderni piacentini», n. 17/18, luglio-settembre 1964.
Cfr. R. Solmi, La nuova sinistra americana, «Quaderni piacentini», n. 25, dicembre 1965; ora in «Quaderni piacentini, Antologia, 1962-1968», cit., pp. 191-207.
II VII congresso nazionale della Cgil si svolge dal 31 marzo al 5 aprile 1965.
«Progetto di tesi XI congresso Pci», opuscolo della sezione Stampa e propaganda della dirczione del Pci, 1965, p. 59.
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