IV
LA CULTURA MILITANTE
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1. Intellettuali e sinistra
Nell'individuazione dell'area culturale da cui si origina e si alimenta il «sinistrismo» degli anni sessanta gioca un ruolo decisivo la ricomposizione del sistema politico ideologico che si realizza dopo la fine del centrismo e, sul piano internazionale, della guerra fredda. Un processo composito che, scompaginando i vecchi schieramenti, ridisegna gli equilibri politici, mentre eterogenee culture si attraversano fra loro. Espressione di questa crisi, ma anche tentativo di una incompiuta risistemazione, è la fucina-laboratorio delle riviste politico culturali; in esse si congiungono, con vari gradi di avvicinamento, l'itinerario del dissenso cattolico e quello di provenienza marxista. In un quadro contrassegnato da profondi mutamenti, per entrambi saltano quei punti di autorità che avevano contraddistinto, per carisma o intima convinzione, la convivenza delle loro stesse interne diversità. I caratteri bruschi di una modernizzazione, accompagnata da nuove esplosive contraddizioni, si riflettono su un tessuto culturale su cui gravano ancora forti ipoteche tradizionalistiche, determinando un complesso di spinte centrifughe. Per la cultura di sinistra, la caduta dello stalinismo legittima e rende necessaria un'autonomia di ricerca e di sperimentazione; contemporaneamente settori della cultura cattolica rompono con il collateralismo alla Dc ed esplorano nuove dimensioni dell'impegno militante. Tendenze che entrano in risonanza con vari «terzaforzismi» di ispirazione liberal-socialista. In questa tensione alla riconquista di una identità, si logora la funzione del partito come unico garante e interprete della politica. Del resto già il caso de «II Politecnico», la rivista di Elio Vittorini, aveva emblematizzato la difficoltà di rapporto tra il Pci e gli intellettuali aprendo così una ferita non rimarginata per le sue implicazioni e il suo valore di lezione negativa. Sono i primi anni della ricostruzione: Mario Alleata e ancor più autorevolmente Togliatti ne contestano le velleità nella ricerca di un «nuovo intellettuale». La lettera di Togliatti a Vittorini, pubblicata su «II Politecnico» alla fine del '46, polemizza col carattere enciclopedico della rivista e con la sua vocazione ad una «ricerca astratta del nuovo, del diverso, del sorprendente» . Alcuni anni dopo, commentando le critiche del Pci al «Politecnico», Franco Fortini scriverà: «Gli scritti di Luporini, Alicata, Togliatti, hanno insomma un falso scopo — la critica al confusionarismo de "II Politecnico" settimanale — ed uno scopo reale: mettere in guardia i lettori comunisti contro i pericoli deviazionistici dell' "approfondimento" della rivista mensile; e al tempo stesso vogliono provocare una decisa autocritica del direttore della rivista. Il risultato sarà, naturalmente che le critiche alla rivista passeranno in second'ordine e il centro della discussione diverrà quello dei rapporti fra attività (o autorità) culturale e attività (o autorità) politica...» . Alla lettera di Togliatti segue la lunga replica di Vittorini che autodefinendosi un «compagno di strada» rivendica la funzione di una ricerca «oltre e fuori il marxismo». Il diritto di parlare a suo avviso, non deriva agli uomini dal fatto di «possedere la verità», ma deriva piuttosto dal fatto che «si cerca la verità». Si rivendica dunque per l'intellettuale un ruolo attivo di conoscenza e di invenzione fuori da preclusioni ideologiche prestabilite e al tempo stesso un impegno civile che coincide con la ricerca della verità. Sarà questa la tensione e l'ansietà che ritroveremo nelle riviste culturali della nuova sinistra anni sessanta: «Forzando un po' la mano, si potrebbe addirittura arrivare a dire che certi caratteri di intervento, di settarismo ideologico, di immagine utopica della cultura nata dopo il sessantotto, hanno più di una matrice proprio nello spirito de “II Politecnico”» . Già Vittorini aveva posto il problema della non identificazione fra la ricerca degli intellettuali italiani e gli stereotipi culturali dell'Unione sovietica. Per lo scrittore siciliano essere «comunisti» non significa fare libri «comunisti», essere impegnati politicamente non significa scrivere opere politicamente impegnate. Nella sua replica a Togliatti scrive: «Lo scrittore rivoluzionario che milita nel nostro partito dovrà rifiutare le tendenze estetiche dell'Urss non solo perché sono il prodotto di un paese già in fase di costruzione socialista; [...] egli dovrà rifiutarle anche perché contengono il pericolo che contengono [...] Il marxismo contiene parole per le quali ci è dato di pensare che la nostra rivoluzione può essere divisa dalle altre e straordinarie. Può essere tale che la cultura non si fermi e che la poesia non decada ad arcadia e noi dobbiamo almeno sforzarci di fare in modo che sia tale» . La chiusura de «II Politecnico» coincide con una fase cupa della vita nazionale, è la vigilia del '48, l'anno che sancisce la rottura del quadro politico post-resistenziale, l'anno del fronte popolare e della sua sconfitta. Nella sinistra si apre con accanimento la lotta ideologica contro le degenerazioni borghesi. Rivolgendosi agli intellettuali, Togliatti dalla tribuna del VI congresso è durissimo: «Difetti dei nostri compagni intellettuali sono la tendenza ad isolarsi, il loro modo di impostare spesso alcuni problemi in modo incomprensibile per le masse, sotto l'influenza di forme degenerate della cultura borghese». Gli fanno eco nel tempo e con varia accentuazione: Alleata, Sereni, Secchia. Più prudenti e anche sconcertati, Concetto Marchesi e il filosofo Antonio Banfi, correggeranno Togliatti in pieno congresso, cercando di attenuare i toni del duro attacco. Fino al «disgelo» che segue la morte di Stalin, la linea culturale del Pci si muove fra il richiamo ai principi dello zdanovismo e l'attivismo propagandistico dell' Alleanza per la difesa della cultura. Franco Fortini, in modo caustico, ma cogliendo la sostanza della contraddizione, la definirà una linea fra Croce e Stalin. Il Pci non vuole rompere con gli intellettuali, li corteggia e li valorizza, si presenta come loro difensore contro gli autoritarismi del centrismo e le persecuzioni del clima da guerra fredda, ma è pronto a colpirli quando mettono in discussione il primato della politica. Tornando dopo molti anni sulla sostanza dell' esperienza de «II Politecnico», Vittorini scriverà autocriticamente: «Abbiamo detto i politici non ci capiscono, non possiamo andare d'accordo. Cera, cioè, in noi l'inclinazione a ritirarci. Anziché svolgere a fondo la battaglia si è preferito rompere il contatto. È prevalsa la vecchia distinzione fra cultura e politica che veniva ancora dal crocianesimo, dall'influenza delle strutture tradizionali italiane [...]. E mancato l'impegno di dire ai politici "siamo politici anche noi". Abbiamo qualcosa di politico da dire anche noi e questo qualcosa può avere importanza per quello che di politico potete dire voi» . All’indomani della polemica Vittorini-Togliatti, ma non solo per effetto di essa, si concluderà la storia de «Il Politecnico», si interrompe sul nascere una sperimentazione culturale e il suo tentativo di indipendenza nel circuito cultura-politica. L'impegno autonomo dell' operazione culturale così bruscamente compromesso dai vertici del Pci, rimane un territorio da esplorare. Ma la cultura della sinistra italiana, sfiorita la generosa tensione del post-resistenza e dei primi anni della Repubblica, corre più rapidamente della politica, intuisce e vive la crisi del marxismo, sente cadere le speranze della Liberazione, cerca la sua identità e la sua libertà oltre gli equivoci appelli crociani sull'autonomia dalla cultura. Una ricerca difficile negli anni della guerra fredda, quando si deve scegliere se stare da una parte o dall'altra, in un clima in cui il solo dubbio appare tradimento. Anni di travaglio per una cultura che deve ancora liberarsi delle ipoteche del crocianesimo, ma non ha ancora avuto tempo di assimilare il marxismo, che oscilla fra idealismo e storicismo se ne sente soffocata e guarda incuriosita ad altri orizzonti di conoscenza. Per chi cerca il suo spazio, spesso in modo del tutto ingiustificato, l'accusa è di «terzaforzismo». Alla critica così replica Norberto Bobbio nel suo Politica e cultura del '54: «per l'intellettuale non si tratta di costituire una terza forza, ma di sapersi valere con la serietà e destrezza dell'unica forza che è sua, l'intelligenza. All'uomo di cultura non spetta altro compito che quello di capire, di aiutare a capire. E, se nell'esercizio del suo compito favorisce lo spirito di compromesso, anziché quello di rissa sarà tanto di guadagnato per lo spirito della pace». Il clima muterà nella seconda metà degli anni cinquanta. Con la distensione internazionale e la destalinizzazione tutto si problematizza: il cercare strade difformi da quelle tracciate diventa un obbligo; un impegno civile il rivendicare la propria autonomia e la libertà del dissentire, l'approdare con i propri strumenti intellettuali alle forme della politica. Di fronte alla crisi del sistema socialista il distacco degli intellettuali si fa ipercriticismo e orgogliosa rivendicazione del proprio ruolo contro e oltre le ragioni di partito. Mutuando il titolo del racconto di Italo Calvino, vogliono uscire rapidamente dalla «Grande bonaccia». Scritto sulla rivista «Città aperta» è una satira pungente contro le prudenze togliattiane e il navigare del leader comunista nelle traversie del mondo socialista fra troppe reticenze e doppiezze . Negli ambienti intellettuali le «ombre» del congresso di Mosca sembrano prevalere sulle «luci». Panzieri, allora responsabile culturale del Psi, introducendo il convegno promosso a Roma su «Politica e cultura» insiste sul valore della ricerca intellettuale. Per Panzieri la crisi, apertasi nel movimento operaio, si riflette nella crisi degli «intellettuali democratici» e tuttavia solo un loro ruolo attivo può contribuire alla riscoperta delle caratteristiche moderne della lotta di classe. L'esponente socialista coglie il manifestarsi di una nuova domanda di politicità e comprende che è destinata a confliggere con la politica seguita dalle sinistre, avverte al tempo stesso il pericolo di un divorzio fra trasformazione socialista della società e valori di una democrazia astratta dalla lotta di classe. Rispondendo alle nove domande sullo stalinismo della rivista «Nuovi argomenti», sullo stesso numero in cui appare la famosa intervista a Togliatti, lo scrittore Carlo Cassola scrive: «gli avvenimenti sovietici confermano in modo luminoso che la democrazia è legata alla pluralità delle formazioni politiche» . Ma l'accusa va più nel profondo, spiegando perché non si era iscritto al Pci, sulle pagine del «Contemporaneo» argomenta: «gli intellettuali della mia generazione che sono diventati comunisti nel corso della Resistenza (e cioè appunto Lucio Lombardo Radice, gli Alicata, gli Ingrao, i Salinari, i Trombadori, etc.) provenivano tutti da una esperienza crociana. Ora a mio modo di vedere nel comunismo essi hanno portato con l'esperienza liberale (Croce è un cattivo maestro di liberalismo, come dice Bobbio) piuttosto lo storicismo assoluto, e conseguentemente una forma di totalitarismo mentale». E prosegue «la vera barriera la poneva l'intellettuale con il suo appello a ciò che unisce e a ciò che divide che in definitiva suonava appello al confusionismo (e il totalitarismo consiste precisamente in questo, nel voler coprire tutte le posizioni, quelle dell'alleato e anche di quelle dell' avversario stringendole in un abbraccio soffocatore» . Carlo Salinari, allora direttore del «Contemporaneo» titola l'articolo di Cassola, Reazioni sentimentali. È un implicito commento. L'altra faccia del XX congresso erano i fatti di Poznan del giugno '56 e di lì a poco l'invasione dell'Ungheria. Istavan Meszaros, allievo di György Lukács, scrive La rivolta degli intellettuali in Ungheria. Nel Manifesto dei cento, dopo i drammatici avvenimenti, gli intellettuali di sinistra chiedono chiarezza e verità alPci. Nello stesso anno Roberto Guiducci scrive il suo Socialismo e verità: i due termini sono conciliabili oppure «la ragion di stato e di partito finisce per offuscarli entrambi?». Caratterizzata dalla direzione di Raniero Panzieri, la rivista culturale del Psi, «Mondo operaio» assolve un ruolo decisivo come centro di un dibattito teso a ridefinire la prospettiva strategica del socialismo alla luce della nuova fase politica e sullo sfondo dell'esigenza di un'originale rilettura del marxismo. Il dilemma fra l'essere antistalinisti e antiriformisti sembra insolubile. Un dilemma che attanaglia gli intellettuali, anche se per alcuni, in concomitanza con il nuovo ciclo economico-politico interno, significherà un acritico riconoscimento del sistema capitalistico, a cui si contrappongono le reazioni avanguardistiche di chi non vuole appiattirsi nei conformismi partitici e non vuole accettare le regole di un gioco che non ha deciso. La cultura vuole essere in modo autonomo lo specchio e la coscienza di una società che cambia, non condizionata per dirla con Luciano Bianciardi, dai «vademecum per il responsabile del lavoro culturale» dei partiti . Intanto nuove forze si organizzano, discutono e fanno opinione, creano occasioni di impegno. Centro di questa tensione, secondo una tradizione della cultura italiana, le riviste. Non orbitano nell'universo dei partiti, nascono come voci dissenzienti, sono la sede in cui si incontrano gli eretici del Pci e del Psi, personalità diverse animate da un medesimo bisogno di criticità al moderno e al tradizionalismo. Nel '55 nasce a Milano «Ragionamenti», che vede fra i suoi promotori Franco Fortini. Di lì a poco uscirà «Officina» di Roversi, vi collaborano fra gli altri Pasolini, Sciascia, Calvino e lo stesso Fortini. Se «Officina» è una rivista prevalentemente letteraria e di costume, «Città aperta» nata sotto la direzione di Tommaso Chiaretti, è già espressione di un dissenso politico. Ha vita dopo i fatti di Ungheria e i fondatori sono un gruppo di intellettuali comunisti. Ben presto Chiaretti sarà radiato dal Pci. A Bologna esce «Opinione», la sua storia si conclude in solo quattro numeri, alcuni dei suoi protagonisti, Agazzi e Adelaide Salvaco li ritroveremo poi con Panzieri nella redazione dei «Quaderni rossi». Attorno a Giolitti, promossa dalla casa editrice Einaudi nasce «Passato e presente», direttore Carlo Ripa di Meana. Il suo primo editoriale è firmato da Vittorio Foa . Un gran fermento che tutto rimette in discussione: le verità sono da riscoprire e i classici da rileggere nella consapevolezza che qualcosa in cui si è creduto va reinventato.
Lettera di Togliatti a Vittorini, «II Politecnico», n. 33/34, settembre-dicembre 1946; Cfr. N. Aiello, «Intellettuali e Pci, 1944-1958», Laterza, 1979.
«Nuovi argomenti», n. 1, aprile 1953; raccolto in «Dieci inverni», Feltrinelli, 1957
Introduzione a «II Politecnico», antologia a cura di M. Forti e S. Pautasso, Rizzoli, 1975, p. 20.
Politica e cultura, replica di Vittorini a Togliatti, «II Politecnico», n. 35, gennaio-marzo 1947.
«Menabò», n. 10, Einaudi, 1967.
I. Calvino, La grande bonaccia delle Antille, «Città aperta», n. 4/5, 1957
«Nuovi argomenti», n. 20, maggio-giugno 1956.
C. Cassola, Avevo scelto non mi sarei iscritto al Pci, ibidem.
L. Banciardi, II lavoro culturale, Feltrinelli, 1957; Cfr. Revisionismo socialista. Antologia di testi 1955-1962,«Quaderni di Mondoperaio», 1975, a cura di G. Mughini, p. 166.
Per una bibliografia sulle riviste cfr.: «Che fare», n. 6/7, 1970; Gli anni delle riviste (1955-1969), fascicolo monografico di «Classe» n. 17, giugno 1980.
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2. Il dissenso cattolico
Tra il 1953 ed il 1958 subiscono una radicale mutazione le correnti di pensiero riconducibili al «cristianesimo sociale» i cui tratti di origine risalgono alle encicliche di Leone XIII e avevano ispirato quegli elementi di «populismo» presenti sin dai primi atti costitutivi nel Partito popolare e poi confluiti in certi settori della Dc . La rivista di Dossetti «Cronache sociali» ne rappresenta il massimo punto di elaborazione, ma l'irrisolta contraddizione fra spinte progressiste e altre apertamente reazionarie porterà alla crisi e al fallimento di un'esperienza tesa ad affermare un'esigenza di giustizia sociale a metà fra l'individualismo liberale e il «collettivismo di tipo marxista». Le organizzazioni giovanili dell'Azione cattolica fra il 1953 e il 1954 pongono con forza la necessità di un «nuovo ordine sociale» corrispondente alle aspirazioni degli strati più popolari delle masse cattoliche. Non tarda a realizzarsi una rottura con i cardinali della Curia. Nella primavera del '54 il gruppo dirigente del movimento — Dorigo, Rossi, Carretto — davanti alle varie pressioni e alle diverse ingerenze, si vede costretto a rassegnare le dimissioni. Rimane a condurre questa battaglia il periodico di Don Primo Mazzolari — stampato a Cremona — «Adesso». Una battaglia dai contorni incerti che, pur mantenendo l'ispirazione originaria, è fortemente limitata da numerosi interventi repressivi e da ristrettezze di visione, come nel caso delle polemiche del giornale con Bertesaghi e Melloni espulsi dalla De per non aver condiviso la politica degasperiana. La necessità di superare il centrismo accelera la crisi dell'unanimismo sulla dottrina sociale della chiesa e implica una dislocazione più netta nella lotta interna della Democrazia cristiana. Nel 1953 si avviano le premesse per la costituzione di una vera corrente di sinistra. Il gruppo nato per iniziativa di Aristide Marchetti si nominò la Base e il suo periodico «Prospettive». Tra i collaboratori della rivista vi sono autorevoli personaggi che ritroveremo nelle vicende politiche italiane. Fra gli altri fanno parte del comitato di redazione: Luigi Granelli per le note sindacali e la politica interna; Giuseppe Chiarante per l'analisi del mondo socialista; Lucio Magri per la politica internazionale; Sergio Mariani per la storia del movimento operaio contadino e ancora Giovanni Galloni, Nicola Pistelli e Giorgio La Pira. Commentando la conclusione di questa esperienza e le diverse scelte maturate dai suoi protagonisti è stato scritto che essa «segnava la fine dell'unico gruppo che all’ interno dello schieramento cattolico ufficiale, era riuscito a comprendere la necessità di un rapporto e di un collegamento con tutta la sinistra italiana» . La storia della rivista è breve: ne escono dieci numeri; nell' estate del 1955 con l'intervento della direzione della Dc che condanna il modo di impostare il rapporto con i partiti di sinistra, si ha, una brusca sterzata. L'interpretazione della prospettiva del centro-sinistra e dell'incontro con i socialisti apporta sostanziali novità nella Dc e negli orientamenti delle correnti dentro e fuori il partito, che si richiamavano al cristianesimo sociale. La Base si riorganizza come corrente di sinistra ali' interno del partito, una riaggregazione che non riuscirà però a cementare l'insieme delle tendenze e che presto determinerà critiche nel suo seno e processi di fuoriuscita; il caso più clamoroso sarà quello di Wladimiro Dorigo, ex militante dell'Azione cattolica che lascerà nel '58 la Dc per fondare la rivista «Questitalia». Tuttavia sarà proprio la nuova collocazione della Base a rappresentare un fattore decisivo per il superamento del governo monocolore e dei suoi pesanti inquinamenti. L approdo al centro-sinistra è visto come il superamento dell' integralismo fanfaniano e post-dossettiniano, un'occasione per un rapporto originale con le masse socialiste e per impedire ogni collusione col neo-fascismo. In questa ottica che travalica il semplice discorso politico, quello che si taglia fuori è il dialogo col partito comunista, anzi, pur nella ricerca di una qualità diversa dell'intera società italiana, la Base fa sua la pregiudiziale nei confronti del Pci, quel «pericolo comunista che andava combattuto per rafforzare la democrazia e le istituzioni italiane». Attorno a questa ipotesi innovativa, ma non sufficiente ad interpretare i fenomeni che avanzano nel paese, la Democrazia cristiana guidata da Aldo Moro trova una sua unità, ma le tensioni sociali mettono rapidamente a nudo le ambiguità del progetto politico di centro-sinistra. Concorre a determinare questo iato fra esigenza di rinnovamento e soluzione politica adottata, il permanere di orientamenti retrivi e conservatori ali'interno della Chiesa. Numerosi gli esempi di intolleranza e di repressione. Tipico è il caso del volume di Don Lorenzo Milani «Esperienze Pastorali», che, pur avendo avuto consensi dalla stessa critica cattolica, viene ritirato dalle librerie cattoliche dopo un attacco congiunto de «II Borghese» e di «Civiltà cattolica». Interventi che testimoniano gli ostacoli incontrati dalle novità che si fanno strada, innovazioni di cui il messaggio di Giovanni XXIII sarà il punto più alto. In questa transizione si ridefinisce la natura dell' impegno sociale dei cattolici, si avverte con maggior certezza il bisogno intellettuale e pratico di avventurarsi per nuovi sentieri di riflessione, senza cadere sotto la repressione né delle gerarchle ecclesiastiche né degli organi dirigenti di partito. Espressione di queste tendenze sono le testate di varie riviste che nascono a sinistra della De e in contestazione alla Chiesa tradizionale: la già ricordata rivista «Questitalia», organi locali come «II Gallo» a Genova, «Testimonianze» a Firenze. Il sorgere di questa nuova pubblicistica nel mondo cattolico mette definitivamente in crisi ciò che rimane del «cristianesimo sociale». Parallelamente si conclude la vicenda di «Adesso», fondata da Don Primo Mazzolari e diretta allora da Mario Rossi. Commenta Wladimiro Dorigo: «ad “Adesso” la nostra solidarietà per l'intollerabile pressione affrontata e il nostro fraterno rimprovero per averla accettata». Il procedere verso il nuovo si realizza nell' incertezza, oscillando fra la sfiducia nell'ipotesi di centro-sinistra e le speranze di una sua possibile capacità innovativa. Le suggestioni riformiste di «Passato e presente», e il cimentarsi di «Questitalia» sul tema della programmazione sono la testimonianza di quell'illuminismo tecnologico che ripiegherà su se stesso dopo l'esito negativo della formula di centro-sinistra. L'avvicinamento della Dc al Psi, pur non risolvendo sul piano -politico la questione del rapporto col comunismo, concorre al superamento dei vecchi steccati ideologici. Al di là degli aspetti più propriamente politici l'incontro delle grandi componenti ideologiche del paese diventa una esigenza. Esse stesse per altro sono in forte rimescolamento, sottoposte a critica e verifica dall'interno e dall'esterno. Temi come la pace, la distensione, la coesistenza pacifica, mettono in risalto come le antiche divisioni siano unicamente funzionali al sistema partitocratico. Nell' area cattolica questo clima di ricomposizione trova fertile terreno nelle vicende interne alla Dc, che accompagnano il processo di formazione del centro sinistra e nel particolare ruolo esercitato in tal senso dalla segreteria Moro. Numeroso e vasto diventa l'impegno di una nuova generazione di militanti cattolici nella scuola sindacale di Firenze fondata da Pastore; intellettuali e tecnici di estrazione cattolica lavorano dentro e fuori del partito per un suo spostamento e per una diversa funzione della milizia cattolica nella società. Un valore dirompente assume il messaggio Giovanneo, in esso il dissenso cattolico trova un ulteriore impulso alla sua sperimentazione. Si è respirata aria nuova nel Concilio, si è aperta e vinta la battaglia per il rinnovamento contro il vecchio, contro il conservatorismo, si è entrati nella fase del confronto con le chiese più avanzate del mondo per accogliere il nuovo e il positivo. Si è rotto con l'intolleranza a favore del dialogo con altre confessioni. Ecco quindi la rivista del gruppo del «Gallo» che lavora a un volume collettivo, elaborato da cattolici, ortodossi, protestanti e anglicani su quelle che erano le attese del Concilio. Le encicliche di papa Giovanni guardano senza pregiudizi al mondo del lavoro, ai problemi del mondo moderno, con un'originale spiritualità, contribuiscono alla rottura dei limiti fideistici e clericali, al superamento di ogni separazione fra credenti e non credenti in una ricerca pastorale di universalità. La politica di distensione a livello internazionale, il mutato rapporto della Chiesa nei confronti del mondo comunista spingono a nuove dimensioni dell'impegno sociale dei cattolici, ad estendere il dialogo e a battere ogni schematismo. Sono i presupposti per una battaglia laica del cattolicesimo d'avanguardia italiano. I temi dell'impegno civile, che come segno dei tempi animano una certa cultura laica radicale, diventano dominanti nei gruppi dei cattolici del dissenso: superamento della scuola confessionale, denuncia del Concordato, obiezione di coscienza, libertà politica dei cattolici. Sono questi gli argomenti che troviamo negli articoli e nei dibattiti di Wladimiro Dorigo, Don Milani, Giovanni Gozzer. Singole intellettualità e gruppi tendono a superare ogni distinzione fra impegno del laico e impegno del credente, a liberarsi dai vincoli partitici per cogliere subito il dato umano esistenziale; a ricercare una dimensione «uomo» fuori dell'ideologia, per ancorarla alla giustizia sociale e ali' egualitarismo. Il Concilio Vaticano ha aperto nuovi orizzonti; sembrano cadere le vecchie barriere. La tensione ideale per una nuova condizione morale e sociale dell'uomo, nella sua universalità, è il possibile terreno d'incontro fra marxisti e cattolici, al di là delle diversità di fede e ideologia. Tramonta la cultura cattolico-liberale e si profila un nuovo tipo di intellettuale cattolico, più impegnato nel sociale e libero da ogni angusto limite fideistico e clericale. In questo clima nascono i «gruppi post-conciliari», le polemiche con le Acli e con il partito della democrazia cristiana, le contraddizioni della Fuci (Federazione unitaria cattolica italiana). Accanto alle vecchie organizzazioni se ne formano di nuove — è il caso della Gioventù studentesca (da cui originerà, dopo il '70, Comunione e liberazione), il Raggio, l'Intesa, quest'ultima particolarmente importante come sede di formazione di numerosi quadri dirigenti del movimento studentesco e poi dei gruppi extraparlamentari. Nell'Intesa (organizzazione studentesca dei cattolici) e in altre organizzazioni spontanee del variegato arcipelago del «dissenso cattolico» si fanno strada orientamenti anticapitalistici, una radicalità che investe il giudizio sull'insieme della società italiana. Tendenze che si coniugheranno al criticismo di settori giovanili provenienenti dalle file dei tradizionali partiti operai. Schematizzando al massimo la vicenda all'interno del mondo cattolico di «sinistra» abbiamo tre fondamentali direzioni: la prima che si realizza all'interno del partito, la seconda nel sindacato e nelle Acli, la terza nei gruppi del cosiddetto «dissenso» e nella milizia sociale. Queste ultime due rappresentano un'importanza decisiva per l'influsso che eserciteranno in settori diversi della gruppettistica; per esse gli anni compresi fino al '68 sono un costante mettersi in discussione per aprirsi a nuovi orientamenti; successivamente parte della loro storia politico-organizzativa confluirà nella vicenda dell'estremismo. Non si tratta di incontri organizzativi, quanto invece di percorsi intellettuali di aree culturalmente eterogenee che si uniscono nella critica anticapitalistica e in comuni aspirazioni al cambiamento, che portano nella domanda di socialismo tratti egualitaristici e bisogni di più intransigenti giustizie sociali. Il parziale punto di equilibrio che sembra realizzarsi attorno al «moroteismo» non sarà sufficiente a garantire una ricomposizione politica unitaria attorno alla Dc.
Cfr. C.F. Casula, «Cattolici-comunisti-sinistra cattolica, 1938-1945», II Mulino, 1976; «La sinistra cattolica in Italia dal dopoguerra al referendum», a cura di R. Giura Longo, De Donato, 1975.
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3. Una sinistra tutta da farsi
II luglio sessanta rappresenta una drammatica anticipazione dei rischi presenti nel centro-sinistra; la sua realizzazione e le successive involuzioni riportano bruscamente alla realtà. Cadono le illusioni di chi aveva creduto in possibili cambiamenti indolori. Accanto a una generazione di nuovi militanti, quelli di Porta San Paolo e della riscossa operaia, si forma una nuova figura di operatore intellettuale e culturale che non vuole integrarsi nel sistema, non si riconosce nei partiti, non vuole una cultura staccata dalla realtà e domanda una nuova militanza politica: è quella che Giampiero Mughini direttore di «Giovane critica» chiamerà «una militanza tutto fare». L'approdo alla politica non sarà omogeneo: se per i «Quaderni rossi» l'itinerario sin dall'origine è ben definibile per la provenienza dei suoi principali protagonisti, per le altre riviste lo spostamento sul terreno politico avverrà per tappe successive, per crescita interna e nel confronto con i fatti. Le caratteristiche e le origini delle riviste degli anni '60 sono diverse: su un terreno specificatamente culturale nascono i «Quaderni piacentini», «Giovane critica», «Quindici»; altre sono espressione di una sofferta milizia cattolica; quelle del filone marxista-leninista, dai «Quaderni Oriente» a «Vento dell'Est», divulgano l'esperienza cinese e i principi del maoismo; altre sono già strumento teorico-politico come «Classe operaia» e «Classe e Stato», sorte dalla scissione dei «Quaderni rossi». La distinzione fra le riviste nate come luogo di sperimentazione culturale e quelle più funzionali a un' ipotesi politica avrà una breve durata: comune è la tendenza alla politica come rifondazione della stessa operazione culturale. A pochi mesi di distanza dalla pubblicazione dei «Quaderni rossi», nel gennaio 1962, escono i «Quaderni piacentini». Il numero 1 e il numero 1/bis sono fogli ciclostilati, legati alle esperienze e alla condizione politico-culturale della città di Piacenza, vogliono essere una, sede di discussione e di dibattito per studiare «i problemi locali di fondo», ma la voglia è quella di uscire dall'ambito ristretto della provincia e aprirsi ali' esterno liberandosi da una cultura solenne e stereotipata: «Vogliamo che questo sia un foglio di battaglia, portata non solo ali' esterno ma anche all'interno. Ospiteremo testimonianze e opinioni anche contrastanti purché impegnate, vive, serie. E vorremmo infine provare che serietà non è necessariamente solennità e astrattezza. Si può essere seri senza essere noiosi. Con allegria». Lo spazio del confronto ricercato è quello di una sinistra «tutta in movimento, tutta da farsi». Nascono da questa convinzione, l'ampiezza dei temi affrontati dalla rivista ma anche le carenze e i limiti che si registreranno sul piano dell' organicità della ricerca. Partendo dalle molteplici tensioni che si agitano nella cultura della nuova sinistra e dalle nuove dinamiche sociali, Franco Fortini, fra i principali collaboratori dei «Quaderni piacentini», avverte che «un discorso politico serio non riformista né attendista, non settario né compromissorio, e che faccia riferimento alla tradizione marxista-leninista comincia forse a nuovamente formularsi nel nostro paese». Nel corso del 1962, mentre si sta consumando la rottura tra Cina e Urss e sul piano interno tutto congiura per un insoddisfacente approdo al centro-sinistra, la rivista accentua i suoi tratti politici. «Impariamo il cinese», suggerisce ancora Franco Fortini, e Giovanni Giudici attraverso l'analisi di Fanon dilata gli orizzonti culturali ai temi del Terzo mondo e a forme e soggetti inediti della rivoluzione. Diventano sempre più frequenti i commenti alle lotte sociali, le cronache politiche, le testimonianze di dissenso antirevisionista. Viene lanciato un ponte verso altre esperienze: appare una nota su «Classe operaia» e si annuncia, anche se non vedrà mai la luce, un'inchiesta sui «Quaderni rossi». Nel gennaio del 1964, la rivista supererà definitivamente l'ambito locale per affermarsi come strumento a cui collaborano «quasi tutti i rappresentanti della cosiddetta “sinistra critica”». La necessità di una nuova indagine culturale si intreccia alla volontà di riflessione teorico-politica. La vastità degli interessi e degli orizzonti esplorati è notevole, ma la rivista non riesce a superare il limite del collage antologico. Nella prima fase sono i problemi più specificamente culturali a formare la struttura portante dei «Quaderni piacentini». Apposite rubriche sono dedicate a questi temi, come «Cronaca italiana», «Libri da leggere e non leggere», «II franco tiratore», numerosi gli articoli di letteratura e le poesie pubblicate. Il rapporto politica-cultura anima le pagine della rivista. Impegno o disimpegno sono i poli della discussione e ancora: quale impegno, quale disimpegno? Il saggio di Asor Rosa Alcune osservazioni sulla nuova avanguardia nel numero di luglio-settembre 1964, e la pubblicazione dell'inedito Programma del Politecnico di Vittorini danno la misura del tipo di problematica a cui ci si intende collegare. Lo scritto di Asor Rosa, che costituirà l'introduzione al suo Scrittori e popolo, riflette criticamente sulla condizione di un'intellettualità alla ricerca di un diverso progetto sociale in cui reinventare il suo stesso ruolo. Senza un accordo preliminare, o «un dibattito, o una spaccatura seria su natura e funzione del fenomeno letterario ed artistico dentro la società capitalistica», si chiede l'autore, come è possibile formulare un giudizio sulle nuove avanguardie? E prosegue: «Potremmo arrivare a concludere che la natura del fenomeno letterario è tale da impedirgli una funzione diversa da quella che gli viene ormai assegnata. Sarebbe una conclusione scandalosa, ma non certo, spero, per gli scandalosi avanguardisti. In tal caso, il rifiuto di fare letteratura diventerebbe preliminare ad ogni altra forma di rifiuto — almeno per chi si occupa di queste cose. Ritornano a questo punto in gioco concetti come quelli di classe operaia, di neocapitalismo, di industria culturale, di rifiuto o di accettazione del sistema, di strategia della lotta anticapitalistica. Ma per ora possiamo limitarci alla domanda: serve ancora una letteratura nelle condizioni offerte dal sistema? Può esserci una cultura che non sia una cultura borghese? C'è modo d'opporsi al sistema senza rifiutare le sue regole del gioco? La neoavanguardia non da risposta ali'interrogativo. Noi crediamo che il discorso farà complessivamente un passo avanti se apocalittici ed integrati decideranno di fermarsi insieme su queste ragioni, che sono poi quelle stesse della loro personalità e del loro lavoro» . I «Quaderni piacentini», hanno scelto di muoversi su un terreno dove una sinistra tutta da reinventare «possa studiare e dibattere» e a chi li critica di scarsa coerenza rispondono che, in una situazione in movimento, nessuna apodittica presa di posizione può essere considerata esauriente ma solo «una proposta di verifica, un invito al dibattito, uno stimolo alla ricerca» . Per loro la sinistra non è quella che si accontenta di entrare nella stanza dei bottoni del centro-sinistra, che si accontenta di andare alle manifestazioni liturgico-celebrative della Resistenza, che liquida come «teppisti» i giovani di piazza Statuto. Chiudendo l'editoriale del numero 1 bis, dedicato alla critica del tradizionalismo antifascista, la rivista scrive «Raccomandava un ferroviere cecoslovacco, poco prima di essere ucciso nel 1944 dai nazisti: “Quando da voi si farà 'pulizia' fatela bene, così che duri per sempre”. Ahimè la “pulizia” l'hanno fatta gli “altri”, ed è “quest'altra pulizia che promette di durare per sempre”». In questa Italia costruita dagli «altri» i «Quaderni piacentini» si rivolgono a un militante di tipo nuovo ancora in cerca di identità, all'intellettuale di avanguardia, allo studente sceso in campo nelle manifestazioni di piazza, ai protagonisti del luglio '60, agli operai che a piazza Statuto si sono scagliati contro i sindacati e contro le istituzioni, e hanno espresso la loro rabbia contro ogni ordine e contro il pompierismo delle organizzazioni tradizionali. Nel loro manifestare non c'è solo la pace e la lotta all'imperialismo, c'è la «propria insofferenza nei confronti delle istituzioni da cui sono intrappolati e la coscienza di essere esclusi dal gioco» della politica dei partiti . Gli studenti non sono più quelli della «goliardia» fondata nell'immediato dopoguerra al ricco caffè Florian di Venezia. Sta cambiando velocemente l'orientamento politico delle giovani generazioni, e le organizzazioni studentesche e quelle giovanili dei partiti non riescono a rispondere ai caratteri di massa che tende ad assumere la nuova domanda politica. La vecchia nomenclatura non corrisponde più alla realtà: destra, centro, sinistra, sono categorie politico-ideologiche in consumo e reinventare le forme dell'antagonismo sociale significa fare i conti e liquidare ogni schematismo tutto a uso e consumo della «partitocrazia».
Prova per una rivista da farsi, «Quaderni piacentini», numero unico, marzo 1962; ora in «Quaderni piacentini, Antologia, 1962-1968», Edizioni Gulliver, 1977, p. 15.
«Quaderni piacentini» n. 17/18, 1964; ora in «Quaderni piacentini, Antologia, 1962-1968», cit., p. 117 e sgg.
«Quaderni piacentini», n. 2/3, 1962; ora in «Quaderni piacentini, Antologia, 1962-1968», cit., p. 21.
G. Cerchi, Cronaca dei fatti di piazza dello Statuto attraverso la stampa, «Quaderni piacentini», n. 4/5,1962; G. Cerchi - A. Bellocchio, Appunti per un bilancio delle recenti manifestazioni di piazza, «Quaderni piacentini», n. 6, 1962; ora in «Quaderni piacentini. Antologia, 1962-1968», cit., pp. 27 e 35.
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4. La scienza operaia
Nel panorama dei primi anni '60, l'esperienza dei «Quaderni rossi», sembra testimoniare la praticabilità di nuovi e autonomi spazi di intervento politico. L'analisi del neocapitalismo è condotta dalla rivista a ridosso di concrete lotte operaie, (dalle lotte sul cottimo ai rinnovi contrattuali dei metalmeccanici), si intreccia con l'indagine sui nuovi sistemi produttivi, si cimenta col sorgere di inediti comportamenti operai. Il gruppo raccolto attorno a Panzieri, pur avendo avviato una ricerca e delineato una metodologia, non risolve la questione dello specifico politico. La stessa «inchiesta», nella sua concezione iniziale, si caratterizzava più come strumento conoscitivo che come intervento di natura politica. Rimangono aperti i problemi delle forme organizzative alternative rispetto ai tradizionali partiti della sinistra" e, più in generale, la riflessione attorno alla nozione di partito e ali'organizzazione politica. La partecipazione del gruppo alle lotte di fabbrica non supera l'ambito della conoscenza sociologica e non riesce ad affermarsi come presenza autonoma. La teoria non si è ancora incontrata con la pratica ed è proprio in questo scarto una delle ragioni dell' assunzione del maoismo da parte dell' estremismo. Con la comparsa del «libretto rosso» l'inchiesta assumerà caratteristiche molto diverse da quelle ipotizzate da Panzieri: la finalità politica sostituirà quella conoscitiva, la soggettività e il bisogno di azione prevarrà sulla oggettività della conoscenza. Sui temi del partito e dell' organizzazione, alla fine del '63, avviene la rottura del gruppo dei «Quaderni rossi». In assenza di scelte chiare sul terreno organizzativo, le divergenze sul giudizio e sulla posizione da assumere nei confronti dei partiti della sinistra e delle organizzazioni sindacali hanno il sopravvento, fino a determinare la scissione. Ne nascono due esperienze distinte: «La classe» e «Classe operaia», mentre i «Quaderni rossi» proseguono la pubblicazione fino al 1967. Attorno a «La classe» si raccolgono militanti del Pci e del Psi, di provenienza troskista, con l'obiettivo di recuperare le organizzazioni tradizionali della sinistra a una coscienza rivoluzionaria: il giornale e il gruppo servono come strumento di coinvol-gimento e di pressione. Una strategia e un'organizzazione alternativa al revisionismo è invece la discriminante posta da «Classe operaia». Dalla redazione dei «Quaderni rossi» confluiscono in quella di «Classe operaia»: Romano Alquati, Alberto Asor Rosa, Rita Di Leo, Pierluigi Gasparotto, Claudio Greppi, Toni Negri, Massimo Paci e Mario Tronti che assume la direzione della nuova rivista . L'editoriale del primo numero ha un titolo programmatico: Lenin in Inghilterra. Il problema centrale, dunque, è la rivoluzione nel cuore dell'occidente industrializzato, in una fase di radicale trasformazione tecnologico-produttiva. La rivista uscirà fino al marzo 1967, quando avverrà il cosidetto «ritorno al partito». Per alcuni si tratterà di un ritorno che passa attraverso la militanza ali' interno del Psiup, considerata come un'occasione per determinare uno spostamento dello stesso Pci. Se l'ottica per valutare la breve storia di «Classe operaia» si dovesse limitare alla sua premessa originaria, il bilancio ne risulterebbe fallimentare, un'evidente dimostrazione del divario fra il livello di analisi, e la sua concretizzazione. «Classe operaia», in particolare l'elaborazione di Mario Tronti, porta alle estreme conseguenze alcuni aspetti teorici sul ruolo del capitalismo già in luce nei «Quaderni rossi». Il suo «Operai e capitale», che uscirà nel 1966 e in cui sono raccolti numerosi dei saggi apparsi sulla rivista, sarà una pietra miliare nella teoria della nuova sinistra e, con tutti i successivi rimaneggiamenti, dell'operaismo. Scrivendo a proposito del libro, su «Giovane critica», Asor Rosa sottolinea che non si tratta, per Tronti, di una rilettura di Marx, bensì della fondazione di un «nuovo atteggiamento conoscitivo» esso consiste nel determinare un processo dialettico fra ricerca e pratica di lotta: una «scienza operaia» . Si tratta dunque di conoscere la realtà capitalistica per distruggerla, entrando cosi in rapporto diretto con la prassi rivoluzionaria del movimento operaio. Tendenzioso quindi non è il metodo proposto, ma l'intento di un approccio alla realtà di classe che tende a trasformarla in senso rivoluzionario. Di qui la critica di idealismo e di soggettivismo che da più parti sarà mossa a «Operai e capitale». Per Tronti la nozione di «scienza operaia» è inscindibile dalla particolare funzione attribuita alla classe operaia. A quest'ultima spetta il ruolo storico di «motore dinamico del capitale», da cui discende una visione dello sviluppo capitalistico come «funzione della classe operaia». Un rovesciamento che formerà la nervatura teorica dell'operaismo, nella sua riconversione nei gruppi di Potere operaio: la modifica del comportamento operaio al fine di azionare una dinamica di ritorno sul capitalismo. Riprendendo le analisi avviate nei saggi sui «Quaderni rossi», La fabbrica e la società e II piano del capitale, l'essenza del capitalismo moderno viene sintetizzata come una «macchina che la forza della classe operaia mette in moto e spinge in avanti continuamente». Per ostacolare questo processo il capitalismo tenta con ogni mezzo di ricondurre la spinta operaia in argini prestabiliti. Il capitalismo nella sua fase matura non può fare a meno dell'antagonismo operaio; e solo mediandolo in una costante controffensiva di riassorbimento riesce a evitare l'ineluttabile crisi politica e uno sbocco rivoluzionario per la classe operaia. Da questa logica, esemplifica Tronti, si arriva al paradosso di uno «stato operaio» che si fa carico dello sviluppo capitalistico. La dinamica della lotta di classe si muove tra due opposti disegni: la necessità del capitalismo di integrare la spinta operaia e il bisogno della classe di rinvigorire il suo antagonismo, facendo saltare le regole nelle quali si vorrebbe irreggimentarla. Il «rifiuto del lavoro» è il cuneo con cui agire per spezzare il tentativo di sintesi operato dal capitalismo. Con il rifiuto del lavoro come rifiuto del dominio del capitale, la classe operaia apre il processo rivoluzionario per la conquista del potere. La «classe» si libera della mercificazione cui l'ha sottoposta il capitalismo subordinandola al suo stesso sviluppo. Vi è in Tronti una grande fiducia nel grado di consapevolezza raggiunta dalla classe e nella sua autonoma capacità di porsi fuori dall'ordine capitalistico. Da questo assunto, ricava la realizzabilità del processo rivoluzionario dove la classe operaia è più forte e quindi maggiore è la sua coscienza critica.
Da un'analisi tanto dirompente come si può passare, al riconoscimento della funzione di una sinistra storica ormai imbevuta della logica di mediazione del capitalismo? L'autocritica di Tronti non va nel profondo e la sua indicazione politica sconta in modo ineluttabile uno scarto perenne fra organizzazione e coscienza operaia da cui, ideologizzando l'entrismo, fa derivare un acconciarsi tattico al partito. Né convince la separazione operata fra strategia e tattica, scissione teorizzata al punto da vedere nel momento tattico-empirico la peculiarità del partito: «Quella che viene chiamata in genere la coscienza di classe è per noi nient'altro che il momento dell' organizzazione, la funzione del partito, il momento della tattica» . Ne segue un ulteriore frastagliamento di esperienze: Classe e partito a Roma, Riscossa operaia a Ravenna, Potere operaio in Toscana in Emilia e a Porto Marghera. Se la banalizzazione del partito rispetto alla classe operaia e alla sua prospettiva strategica porterà Tronti al Pci, altri saranno gli itinerari dei principali collaboratori della rivista: Asor Rosa entrerà nel Psiup per confluire dopo il 1972 nel Pci, Adriano Sofri fonderà sul finire del 1968 Lotta continua, Toni Negri diventerà il leader di Potere operaio veneto-emiliano e il principale protagonista della sua precipitazione nell'Autonomia.
L'ultimo numero di «Classe operaia» del marzo 1967, quando avverrà il «ritorno al partito». Il n. 1 (gennaio 1964) è redatto da Romano Alquati, Massimo Cacciar!, Gaspare De Caro, Paolo Donati, Luciano Ferrari Bravo, Pierluigi Gasparotto, Claudio Greppi, Mario Isneghi, Manfredo Massironi, Toni Negri, Mario Tronti. Il n. 2 (febbraio 1964) da Alberto Asor Rosa, Monica Brunatto, Ken Coates, Paolo Cristofolini, Riccardo D'Este, Gianfranco Faina, Mauro Gobbini, Claudio Greppi, Silvio Lanaro, Mario Mariotti, Manfredo Massironi, M. Montagna, Paola Negri, Massimo Paci, Luciano Romagnani, Heinz Salomon, Sergio Triste, Mario Tronti. Altri collaboratori, fra cui Adriano Sofri, si aggiungeranno. Sulla storia di «Classe operaia» cfr. gli atti del convegno promosso dal Pci a Padova (26-27 novembre 1977), «Operaismo e centralità operaia». Editori Riuniti, 1978.
«Giovane critica», n. 15/16, 1967.
M. Tronti, «Operai e capitale», Einaudi, 1966, p. 251.
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5. Il congedo degli intellettuali.
Intorno al 1966 le riviste politico-culturali — fra le più note: il bimestrale «Quaderni piacentini», i trimestrali «Giovane critica» e «Nuovo impegno», il semestrale «Classe e Stato» — si trasformano in organi politico-teorici. «Giovane critica», è lo specchio del difficile rapporto tra politica e cultura, nata ali' inizio del 1964 come rivista legata al Centro universitario cinematografico di Catania e destinata a superare l'ambito della critica cinematografica militante attorno alla metà 1965, manifesta fin dai primi numeri un'accentuata critica alla tradizionale cultura di sinistra. Valgano a titolo di esempio lo scritto di Franco Fortini Mandato degli scrittori e limiti dell'antifascismo (n. 4, 1964) in cui vengono ripresi spunti e considerazioni sul ruolo della letteratura già sviluppati dai «Quaderni piacentini» e il saggio di Roberto Roversi, Una nota a proposito di due problemi: morale e moralismo, religione e marxismo (n. 7, 1965), che afferma il valore di un'ideologia della contestazione contrapposta ali' ideologia dominante «di giustificazione delle norme tradizionali». Progressivamente la scelta politica si fa più netta. In una nota redazionale Giampiero Mughini, direttore della rivista, constatato che «non e'è lavoro intellettuale oggi [...] che possa astenersi dalla messa in discussione della nozione di socialismo», afferma il privilegio della «tendenziosità politica» nella scienza e nell'arte. Nello stesso numero una lettera di Mario Cannella dal significativo titolo Di che scrivere? Per chi? riflette sull'impossibilità di una neutralità dell' arte e della scienza. Mettendo in guardia da mitici rinnovamenti culturali e dai rischi di un imprigionamento metodologico. Cannella sollecita una scelta antirevisionista, affrontando alla radice, «presi d'urto, con tutta 1' amarezza che la situazione richiede», i nodi strategici che si propongono al movimento operaio. In questa radicalità si colloca la ricerca di «Giovane critica», intenzionalmente finalizzata a «ricostruire un discorso sul movimento operaio italiano, la politica del fronte antifascista, quella culturale e no del Pci dal '45; e poi su tutto il resto, fino al contrasto russo-cinese». Non si è ancora nella fase dello schierarsi, quanto in quella dello smontaggio teorico-analitico della tradizionale cultura d'opposizione, il luogo prescelto per questa operazione di distacco è la rubrica «Epistolario». Articoli e saggi esaminano criticamente i contenuti della politica culturale della sinistra ufficiale in campo cinematografico e teatrale, ambito originario della rivista. Fra i contributi più importanti: II cinema del fronte popolare in Francia di Goffredo Fofì, Ideologia e ipotesi nella critica del realismo di Mario Cannella (n. 11), Politica culturale e cultura di sinistra (n. 9), Teatro, politica culturale pubblica, (n. 10 e 11) Mass media e -politica culturale (n. 12) di Pio Baldelli. Sarà l'inchiesta sui gruppi minoritari promossa da «Nuovo impegno» a sollecitare un ulteriore e definitivo spostamento di «Giovane critica»: con il saggio di Federico Stame La. pratica sociale e attraverso la rubrica «Classe, partito, teoria», la rivista appoggia l'iniziativa ed entra nel vivo del dibattito sulle organizzazioni della nuova sinistra. Anche per «Nuovo impegno» il primo campo esplorativo è quello culturale. La rivista nasce a Pisa nel dicembre 1965 come «periodico bimestrale di letteratura» promotori Romano Luperini, Gianfranco Ciabatti, Franco Petroni. Dall' analisi sulla politica culturale del Pci e dalla ricerca sulle nuove avanguardie letterarie si passa rapidamente a un orizzonte tutto politico. Le motivazioni all'origine della fondazione delle varie riviste sono diverse, comune è l'influenza che esse esercitano sui nuovi strati intellettuali. Sarebbe erroneo, considerarle la culla dei gruppi, tuttavia è innegabile che esse sono uno strumento essenziale della formazione dei quadri dirigenti del futuro estremismo: nel corso delle lotte studentesche le riviste saranno lette e riscoperte, in esse si cercheranno verifiche, suggerimenti, richiami per fondare una nuova teoria dell'agire politico. Alcune, nel corso di quelle lotte, muteranno funzione e collocazione, fiancheggeranno il movimento — è il caso dei «Quaderni piacentini» — o saranno parte integrante dei nascenti gruppi come «Nuovo impegno». Esaminando i materiali delle riviste si ha netta la sensazione dell' assemblaggio ideologico. Un labirinto di suggestioni, una ricerca che anela a nuovi orizzonti politici, tanto densa di curiosità quanto faziosa nel suo avanguardismo. Già Panzieri, nei suoi scritti sui «Quaderni rossi», aveva posto la questione di una rilettura di Marx. Non un semplice interesse teorico, ma reinterpretare Marx per ritrovare i fondamenti di un'analisi della società moderna e di un nuovo progetto di socialismo. Uno studio intenzionale del marxismo, dunque, nel tentativo di legittimare sperimentazioni e approcci metodologici capaci di superare ogni sua identificazione con la vicenda sovietica e con lo stalinismo. Non sistema di verità, ma conoscenza e trasformazione della realtà nella quale possano confluire altre discipline e spunti teorici liberando da vecchi integralismi il pensiero del movimento operaio; un procedimento che sarà contraddetto dalla progressiva assunzione a verità della stessa scelta metodologica, viziato in origine da presupposti che, nel fanatismo della polemica, riproporranno nuovi integralismi. Intanto nel panorama culturale italiano si innestano nuove curiosità e interessi basti pensare al ruolo dello strutturalismo e della sociologia, mentre la stessa operazione culturale oscilla fra due opposte mitologie: l'enfatizzazione tecnocratica e il primitivismo. L'operatore culturale si dimena fra le due sponde dell' impegno e del disimpegno, interrogandosi sulla sua collocazione dentro o fuori del sistema. Progresso e antiprogresso diventano i poli di una dialettica sulla natura dell'impegno civile, chiamando a radicali scelte di campo. E possibile, ci si chiede, lo sviluppo della società senza aver spezzato l'ordine-dominio del capitalismo? E, parafrasando Mao, è possibile costruire senza prima distruggere il passato? Il moralismo attribuito alla recensioni dei «Quaderni piacentini» è lo specchio di una ricerca critica che vuole affermare «una cultura militante» lasciandosi alle spalle i ritualismi dell' accademia e quelli della cultura d'opposizione ormai inoffensiva per il potere dominante. Il dissenso alla «cultura» ufficiale dei partiti, e al modo di far politica muove da più direzioni. Sulle pagine del «Mondo», Pannunzio lancia la sua serrata critica al partito politico, uno strumento d'occupazione, di tutta la società civile, senza averne gli adeguati titoli. Sulle pagine di «Questitalia», Wladimiro Dorigo affronta temi inesplorati dalla tradizione culturale sociale cattolica. In modi diversi e da punti diametralmente opposti la cultura si interroga sulla sua collocazione e sulla qualità del suo impegno. L'illuminismo tecnocratico del centro-sinistra, trova il suo apice nella costituzione della facoltà di sociologia di Trento, ma presto entra in crisi ogni sopravvalutazione della razionalità della scienza. Si estende la critica al sistema, alle sue gerarchie, alla sua autorità costituita, alla cultura paludata e ufficialmente riconosciuta. Nel suo progetto di dominio sulla società, il capitalismo non tralascia di assoggettare la cultura cercando di renderla inoffensiva la gratifica per metterla al suo servizio. I cosiddetti intellettuali progressisti sembrano piegarsi alle regole del gioco; Italo Calvino inizia la sua collaborazione al «Corriere della sera», in concomitanza con la dichiarazione di voto al Pci. I tecnocrati del centro-sinistra sono funzionali al suo disegno; l'università è nelle mani dei baroni del mondo accademico. All'intellettuale organico di gramsciana memoria, rimasto prigioniero della «ragione di partito», occorre sostituire un altro tipo di intellettuale capace di rapportarsi autonomamente alla classe operaia e alle sollecitazioni della società. Il 1963 è l'anno della rottura Cina-Urss, del centro-sinistra, Panno della scissione «Quaderni rossi», «Classe operaia», della morte di Giovanni XXIII. Equilibri più avanzati, maggioranze delimitate, convergenze parallele, la fantasia fraseologica del mo-roteismo ha partorito, dopo quasi un decennio, un «centrosinistra organico» che ha spento nella sua lunga incubazione tutte le speranze e il passaggio dalle buone intenzioni alla realtà risulta logoro e trasformistico.
Non c'è tempo da perdere con gli «appelli» agli e degli intellettuali di sinistra; per il «Franco tiratore» dei «Quaderni piacentini» è tempo di «congedo degli intellettuali».
All'inchiesta sui gruppi minoritari della sinistra «Nuovo impegno» dedica i numeri 4/5, luglio-ottobre 1966; 6/7, novembre 1966-aprile 1967; le conclusioni appariranno sul n. 8, luglio 1967.
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6. Le rivoluzioni della libertà e del rifiuto
La diffusione italiana delle opere di Marcuse segue e si intreccia a una troppo frettolosa lettura di Adorno e di Horkheimer. Se la critica adorniana dell'illuminismo, come smontaggio e accusa della tradizione occidentale, rimaneva nell'ambito declaratorio-contemplativo, nell' opera marcusiana diventa emergente la condanna della società industriale, punto terminale del dominio dell' uomo sull'uomo. La scienza come settorialità della conoscenza, la sua finalizzazione al potere dell' uomo sulla natura, la divisione del lavoro come sfruttamento dell' uomo sull' uomo, sono altrettante forme repressive e strumentali del dominio realizzatesi ali' insegna di un mitico progresso. E un atto d'accusa contro la società moderna e i contenuti produttivistici e tecnologici del capitalismo avanzato. In Marcuse la critica alla società della «ragione» si proietta nella dimensione dell'utopia, un'utopia della libertà contro la repressione della realtà sociale con le sue leggi di dominio. Creatività e progetto fantastico contro la piattezza delle regole e delle leggi diventano i grimaldelli con cui scardinare i meccanismi consolidati. Non è difficile comprendere quanto la prospettiva di un regno della libertà contro gli appiattimenti e le gabbie degli stati di necessità attragga e susciti un immediato interesse. Recensendo Eros e civiltà sui «Quaderni piacentini» Augusto Vegezzi scrive: «Naturalmente nessuno pretende che le forze che hanno la possibilità e il compito storico di rovesciare il sistema della necessità siano mosse da speranze, miraggi, da utopie, da figure della redenzione, come le teorie di Marcuse. Nessuno per ora è a favore di una nuova escatologia. La dialettica delle mediazioni tra “società diveniente” e “società divenuta” attualmente costituisce il nostro problema più aperto tanto sul piano teorico che su quello pratico. Tuttavia il realismo, con gli infiniti opportunismi che ha avvalorato e i pesanti errori che ha provocato, sembra giustificare le proposte di una prospettiva più ampia, che con tutte le precauzioni si sottragga alle immediate pretese della lotta quotidiana per non naufragarvi e medi realtà e possibilità, necessità e libertà, alienazione e utopia, nella piena coscienza sì della pazienza della storia ma anche dell'impazienza della vita» . Se immediata è l'attenzione rivolta al pensiero marcusiano, la sua collocazione nell'area marxista si ha solo dopo la pubblicazione della Prefazione politica a Eros e civiltà nel 1966. Giovanni Jervis, infatti, nella presentazione alla prima edizione, considera il libro non marxista e sottolinea come, al contrario di Marx, per Marcuse la liberazione dell'uomo non avviene impadronendosi degli strumenti di produzione come liberazione del lavoro, ma come liberazione dallavoro . La Prefazione politica introdurrà una sostanziale novità nel pensiero marcusiano: l'essenzialità della rivoluzione. Non più l'ottimismo della visione di una mitica società tecnocratica in cui l'automazione della produzione dei beni e l'abolizione del bisogno consentono un rapporto di non dominio con la natura e in cui ogni lavoro è gioco ed è possibile una totale libertà dell'uomo. La critica è al capitalismo nella forma della «società opulenta». Gli ottimismi utopici sono imprigionati dalle molteplici reti di un sistema in cui la «manipolazione dei bisogni» è elevata a «fattore vitale» della sua stessa riproduzione. La democrazia di massa consente agli oppressi di scegliere i loro oppressori e a questi ultimi di «nascondersi dietro il velo tecnologico dell'apparato produttivo che controllano». Dietro questa maschera di falsa democrazia, la società opulenta e tecnocratica congiunge libertà e servitù, sopprimendo il fattore rivoluzionario, integra gli oppressi non «abbastanza forti per liberarsi». Se nell'occidente la rivoluzione è stata negata, riassorbita da vari e sofisticati controlli sociali, nei paesi sottosviluppati del Terzo Mondo la rivolta esplode proprio in virtù dei suoi tratti di totale estraneità al sistema. Analogamente le lotte giovanili e i movimenti di protesta dei paesi avanzati si alimentano e crescono quanto più sanno esprimere una totale ribellione alle istituzioni, alla repressione, alla guerra imperialista. Se la classe operaia è entrata nelle maglie del sistema, integrata e soggiogata dai meccanismi di controllo capitalistici, spetta agli strati marginali, ai neri dei ghetti americani, ai giovani disoccupati, agli studenti ancora non inseriti farsi protagonisti della riappropriazione della rivoluzione negata. Si tratta di far esplodere tutta l'aggressività delle libertà negate contro il nemico fondamentale, il capitalismo, contro la società dell'ordine e della repressione. Proprio «coloro che nella società repressiva hanno una esperienza mutilata, una falsa coscienza e dei falsi bisogni» possono assolvere a un ruolo rivoluzionario, estrinsecando la loro carica ribellistica come forma del «bisogno vitale di liberazione» . E la tesi delle «forze sovversive in transizione»: la loro volontà di mutare il proprio stato soggettivo è il volano principale di un radicale processo di cambiamento dell'esistenza sociale. L'idea di rivoluzione subisce una trasformazione: «Oggi la lotta per la vita, la lotta per l'Eros, è la lotta politica» , una rivoluzione non levatrice di un nuovo ordine statuale, non progettuale, ma capace di liberare l'uomo e di restituire bisogni emarginati e desiderati che il sistema nega, volendo ricondurli nell'alveo dell'ordine e delle gerarchie capitalistiche. Con la sua denuncia della società repressiva e con il suo sollecitare, dal seno stesso della società opulenta, il vitalismo liberatorio, il pensiero marcusiano si incontra con le tesi dei movimenti studenteschi: la critica al sistema e alle istituzioni democratico-borghesi, la lotta contro l'autoritarismo e la repressione, il ruolo di detonatore attribuito alla lotta studentesca contrapposta all'integrazione operaia. Approdato alla rivoluzione il marcusismo entra a pieno titolo nel dibattito in corso sulla Cina, sulla lotta armata in Sud America, sui vari movimenti di liberazione, concorre a rideterminare il giudizio sulla classe operaia e sulle forze motrici della rivoluzione. In parte origina e spiega l'estensione della protesta e della ribellione studentesco-generazionale come risultante di impulsi diversi, dentro e fuori dalle matrici ideologiche e comportamentali del capitalismo stesso che, in quanto repressi o negati, reclamano il loro riconoscimento. Si unificano nella protesta l'adesione ideale ai grandi temi internazionalisti e la volontà di lotte più incisive contro una società rifiutata non solo nei suoi meccanismi produttivi, ma come assetto morale e istituzionale. Dall'esplosione delle stesse artificiose costruzioni del capitalismo, col suo consumismo, con le sue massificazioni, con i suoi miti, nasce il bisogno di lotte capaci di scardinare l’ordine tradizionale come strumento di integrazione e di razionalizzazione di ogni conflittualità. Da ciò l'originalità e le contraddizioni interne del futuro movimento studentesco il cui approdo a una dimensione politica e di classe sarà tutto da ricomporre e ricostruire nel confronto-scontro con l'esperienza concreta di un movimento operaio ormai considerato parte del sistema. Marcusismo, teoria del partito, cronache delle lotte del Terzo Mondo, Cina e rivoluzione culturale, documenti dei movimenti studenteschi acquistano sempre più peso nel dibattito delle riviste. La «Tricontinentale» pubblica i documenti delle lotte del Sud America, e la casa editrice Feltrinelli divulga su vasta scala i discorsi e gli scritti di Castro, di Che Guevara e degli altri leader rivoluzionari dell'America Latina. Nel maggio 1967, edito dalla Libreria Editrice Fiorentina, esce «Lettera a una professoressa», frutto del lavoro collettivo promosso da Don Milani alla scuola di Barbiana. Elvio Fachinelli, nella sua recensione su «Quaderni piacentini» lo definisce «il primo testo cinese nel nostro paese» . Lettera a una professoressa descrive e condanna i meccanismi selettivi e di classe che operano nella scuola: le differenze culturali originate dallo strato sociale di provenienza, il carattere discriminatorio dell'esame, la selezione automatica dei «nati diversi». È una denuncia molto forte e la critica non risparmia il conformismo delle forze di sinistra, anche esse prigioniere dei pregiudizi di una società divisa in classi. Nei tre interventi che appaiono sui «Quaderni piacentini» (Elvio Fachinelli, Franco Fortini, Giovanni Giudici) il libro di Don Milani è collocato nel flusso generale della contestazione alla scuola e alla cultura in un orizzonte comune, che, sia pure in modo confuso, avvicina «Berkeley a Barbiana, San Francisco e Chicago a Canton» . «Nuovo impegno» sottolinea i limiti di Lettera a una professoressa ma ne afferma l'«autentica violenza rivoluzionaria». Evitando ogni lettura isolata del caso Don Milani, vi vede la testimonianza di quel fermento presente in ampi settori del mondo cattolico che «partendo da una critica radicale alla Democrazia cristiana, si sta sempre più orientando, sia pure con molte incertezze e non poca confusione ideologica, verso posizioni politiche dichiaratamente anticapitalistiche e antimperialistiche, in qualche caso anche duramente critiche nei riguardi della involuzione riformistica dei partiti ufficiali della sinistra tradizionale» . Sarà proprio «Nuovo impegno», ad avviare subito dopo l'inchiesta sui gruppi minoritari l'indagine sulle formazioni del dissenso cattolico. Conclusasi con l'espulsione l'esperienza nel Psiup, la maggioranza del comitato di redazione di «Classe e Stato», insieme a Federico Stame, riterrà volontaristica ogni scelta organizzativa e lo studio sarà considerato l'alternativa alla «milizia all'interno dell'arco minoritario». Fin dalla sua formazione, «Classe e Stato» si muove lungo alcune direttrici di fondo: critica al revisionismo sovietico e al modello tradizionale di rivoluzione marxista, ricerca di nuovi soggetti rivoluzionari e riconoscimento del valore dell'esperienza cinese e delle lotte del Terzo Mondo. La rivoluzione culturale, con la sua dinamica interna e con il suo valore strategico, rappresenta «l'unica alternativa teorica e possibilità storica della rivoluzione mondiale» in contrapposizione al revisionismo e allo stalinismo dell'Urss e dei paesi dell'Est . «Classe e Stato», senza cadere nello schematismo dei marxisti-leninisti, esprime in modo originale l'adesione ai temi del maoismo, coniugandoli con una lettura terzomondista dello sviluppo capitalistico e della fase cui è giunto l'imperialismo. La sconvolgente esperienza della Cina è assunta come superamento del modello leninista di rivoluzione e il maoismo come «contributo» e «rinnovamento del pensiero marxista». In particolare Federico Stame, in contiguità con elementi del pensiero di Panzieri e di Tronti, riafferma la «totalità» del capitale come sistema di dominio assorbente di uno stato «capace di assolvere e risolvere in se stesso gli elementi di novità nella fenomenologia del conflitto di classe» . Fra marcusismo e spezzoni teorici mutuati dalle analisi economiche di Sweezy e Baran, si approda alle tesi dell'integrazione della classe operaia e all'individuazione di nuovi agenti del processo rivoluzionario capaci di scardinare e di sfuggire a ogni logica di riassorbimento delle dinamiche conflittuali. Con una forte accentuazione terzomondista si attribuisce unicamente ai gruppi sociali esclusi dalle regole capitalistiche, il carattere di vero soggetto rivoluzionario, disgregatore dei meccanismi più sofisticati di un sistema che manipola e integra i tradizionali gruppi di opposizione. La società neocapitalistica, assegnando alla conflittualità sociale una funzione coesiva, in quanto non pone in discussione il consenso di base e non coinvolge la struttura da cui è prodotto, rende necessario il superamento del modello rivoluzionario marxista. Scriverà Michele Salvati nella sua recensione a Monopoly Capital di Baran e Sweezy: «Il marxismo teorico è oggi in uno stato di profonda crisi come strumento di interpretazione della realtà contemporanea e quindi come guida all'azione rivoluzionaria». Preso atto che «l'ortodossia teorica» non è più adeguata alle novità del capitalismo e coincide con una prassi oggettivamente riformista, registrati i limiti di «alcuni strumenti concettuali ed alcune analisi marxiane», la conclusione è ovvia: non deve preoccupare il doverli abbandonare. Il punto più critico, sottolinea Salvati, è la ridefinizione dello studio delle classi e del loro ruolo nel processo rivoluzionario. Una tematica a cui «Classe e Stato» dedica molta attenzione, vanno in questo senso indagini come quelle di Federico Stame in Sociologia del conflitto e integrazione (n. 1, 1965) e Contraddizione e rivoluzione (n. 4, 1967), i saggi di Nicoletta Stame Divisione del lavoro o partecipazione? (n. 3, 1967) e di Saverio Caruso Utopia tecnologica e prassi rivoluzionaria (n. 4, 1967). La sfiducia sulla combattività di una classe operaia ormai integrata nel sistema neocapitalista e sulle regole della democrazia formale spingono a ricercare un modello rivoluzionario adeguato allo sviluppo dell'imperialismo e i «comportamenti pratici eversivi» fuori dalla cultura politica dell'Occidente, in aree geografiche diverse da quelle dove il processo capitalistico si è prodotto e formato. In Contraddizione e rivoluzione Federico Stame scrive: «II modello di rivoluzione da Marx delineato e l'impostazione sociologica di tale modello sono troppo direttamente fondati su una generalizzazione di processi storici eminentemente europei: la rivoluzione industriale in Inghilterra sul piano economico, la rivoluzione francese come paradigma a livello politico, istituzionale [...]. Ma sono proprio tali affermazioni e convincimenti ad essere oggi sottoposti a critica e sono due tra i maggiori economisti marxisti contemporanei, Baran e Sweezy, a contestare la validità di tali affermazioni di fronte allo sviluppo del sistema imperialistico e capitalistico, sia come tendenza del modo di produzione capitalistico ad estendersi con caratteri di omogeneità a tutto il mondo, sia come tendenza del capitalismo a produrre lo sviluppo delle forze produttive ogni volta che viene a contatto con situazioni socio-economiche dominate dall'arretratezza». Il progresso come prospettiva sociale è contestato: in esso c'è la premessa per l'inglobamento, la condizione originaria di tutte le successive integrazioni. Si rifiuta la «concezione deterministica, sostanzialmente illuministica, di un mondo in costante cammino verso un ordine sociale più progressivo che germina automaticamente dallo stesso sviluppo delle contraddizioni della società presente». Nascono così miti regressivi, primitivismi che si accompagnano all'attenzione crescente per le analisi adorniane e marcusiane.
In questo quadro si spiegano le semplificazioni del processo rivoluzionario possibile, il ruolo catartico che assumono le «forme» della rivoluzione: il partito, il mito della guerriglia e della violenza, che diventano di per sé progetti della liberazione contro le regole della società capitalistica. E spiega il valore attribuito alla rivoluzione culturale cinese: non solo una demistificazione dell'ideologia dominante dei paesi dell'Est e dell'Urss, che considerano la rivoluzione socialista ormai compiuta e la lotta di classe come un dato risolto, ma una sostanziale critica alla cultura politica e alla tradizione rivoluzionaria occidentale.
A. Vegezzi, Eros e Utopia. Lettura di Marcuse, «Quaderni piacentini», n. 17/18, 1964; ora in «Quaderni piacentini. Antologia, 1962-1968», cit., pp. 143-144.
G. Jervis, Introduzione a «Eros e Civiltà», Einaudi, 1964, p. XXVI.
H. Marcuse, «Critica della società repressiva», Feltrinelli, 1968, p. 108.
H. Marcuse, «Saggio sulla liberazione. Dall'uomo a una dimensione all'utopia», Einaudi, 1969.
«Quaderni piacentini», n. 31, 1967.
«Nuovo impegno», n. 9/10, agosto 1967-gennaio 1968.
Cfr. La Cina: dialettica della rivoluzione, «Classe e Stato», n. 3, 1967; Praga: la dialettica della restaurazione,«Classe e Stato», n. 5, 1968.
F. Stame, Sociologia del conflitto e integrazione, «Classe e Stato», n. 1, 1965.
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7. Inchiesta e pratica sociale
Una nuova generazione di militanti si sta formando, si avvicina alla politica e all'impegno nelle grandi manifestazioni antimperialistiche, nelle veglie con le canzoni di protesta di Ivan Della Mea, Giovanna Marini e Paolo Pietrangeli, nelle polemiche e negli scontri col servizio d'ordine dei sindacati e del Pci. Molti aspetti del dibattito interno alle riviste e delle divergenze fra i vari gruppi non sono chiaramente decifrabili, passano sulla loro testa, tuttavia non si riconoscono nelle organizzazioni tradizionali, vogliono qualcosa di più per sentirsi nel flusso generale di un processo rivoluzionario di cui non si avvertono appieno i contorni e gli esiti, ma che li attrae come grande speranza di libertà e di trasformazione. Non basta più la babele di una ricerca che, in assenza di una sintesi unitaria, rischia costantemente l'astrattezza o l'antagonismo. Scorrendo le pagine delle riviste si avverte la pressante volontà di dare ordine alle diverse tematiche e suggestioni, di organizzarle in un'unica prospettiva. Il successivo passaggio politico si realizza attorno al concetto di «pratica sociale» e al pensiero di Mao, il tutto enfatizzato dall'esplosione del movimento studentesco, che con la sua eccezionaiità scompagina gli ambiti e le premesse da cui è nato il primo estremismo. Un'ulteriore radicalizzazione nell orientamento delle riviste si determina con l'iniziativa, promossa da «Nuovo impegno» nel luglio 1966, dell'inchiesta sui gruppi minoritari della sinistra marxista. Accompagnano l'inchiesta numerosi incontri che si svolgono negli ultimi mesi del 1966 a Perugia, Pisa e Bologna fra le redazioni di «Giovane critica», «Classe e Stato», «Quaderni piacentini», «Bollettino di contro informazione» e «Rendiconti». Federico Stame nell'articolo La pratica sociale, che appare su «Giovane critica» (n. 14, 1967), tracciando un bilancio degli incontri esprime la consapevolezza di essere ormai a una fase di trapasso, un'implicita critica al lavoro, di cui egli stesso è stato il principale protagonista, di «Classe e Stato». Ricerca e teoria non sono più sufficienti, lo spostamento deve realizzarsi tutto verso l'agire politico. Tuttavia il gruppo di «orientamento marxista», come si definisce «Classe e Stato», dopo la parziale convergenza con il Psiup nel 1967, non confluirà organicamente nell'impegno militante dei gruppi. Anche al suo interno ci sarà la spaccatura. Federico Stame, dopo l'ondata sessantottesca, continuerà la pubblicazione della rivista, mentre Luca Meldolesi e Nicoletta Stame, passati per la prova del Centro antimperialista Che Guevara di Roma, saranno fra i fondatori dell'Unione dei comunisti italiani. Particolarmente attiva nel sostenere l'inchiesta sui gruppi minoritari è «Giovane critica» che, con la rubrica «Classe-partito-teoria», apre il dibattito «a tutte le voci del dissenso marxista», per approfondire i problemi che «la crisi attuale del movimento operaio pone ad ogni militante». Il confronto proseguirà fino all'inverno 1968, spostandosi sempre più sul tema dell'orga-nizzazione, fino alla discussione-scontro fra Luciano Della Mea e Adriano Sofri che porterà «Giovane critica» a convergere con le posizioni raggiunte da «Nuovo impegno» . L'inchiesta di «Nuovo impegno» è un inventario delle varie posizioni, e non riesce a favorire alcun avvicinamento unitario, scontrandosi con l'accanimento di piccoli gruppi ognuno convinto della propria verità. Rispondono al questionario della rivista Alberto Asor Rosa per «Classe operaia», Massimo Cacciari per «Angelus novus», Giampiero Mughini per «Giovane Critica», Walter Peruzzi per il «Bollettino del centro di contro informazione», L. Leon per il Centro Franz Fanon, Federico Stame per «Classe e Stato», L. Amedio per il «Corpo», Vittorio Rieser per «Quaderni rossi», l'organo del Partito comunista internazionalista «Battaglia comunista», Cesare Bermani per le Edizioni del Gallo, Livio Maitan per «Bandiera rossa», quindicinale della Quarta Internazionale, Stefano Merli per la «Rivista storica del socialismo». Polemica con l'iniziativa è la redazione di «Classe operaia». Nel suo intervento Asor Rosa pone sotto accusa le finalità dell'inchiesta e svolge una puntuale critica della pratica e della fenomenologia del «gruppismo». Ne denuncia le astrattezze, il suo esasperato soggettivismo e la trionfalistica smania di prestigio. Il suo è anche un ragionamento autocritico sull'esperienza di «Classe operaia», una severa requisitoria contro un «sinistrismo» autoproclamato e manieristico, incapace di verifìcarsi con la pratica e la strategia del movimento operaio. Meno netta la posizione del Psiup che si dimostra interessato all'inchiesta e dedica all'argomento la rubrica «Gruppi minoritari e partiti» che appare su «Mondo nuovo» dal gennaio al luglio 1967. Il Psiup ha presente il fallimento di «Classe operaia» e il conseguente «ritorno al partito» e cerca di candidarsi come potenziale interlocutore del dissenso a sinistra. Scioglieranno l'equivoco le espulsioni di alcuni redattori di «Classe e Stato» a Bologna nel febbraio, così come le espulsioni dalla Fgci e dalle cellule universitarie nella primavera-estate decreteranno nei fatti la fine dell'entrismo nel Pci. L'anno universitario 1966-67 registra, sin dall'inizio, un deciso salto di qualità delle agitazioni studentesche. Scrive Luigi Bobbio sui «Quaderni piacentini»: «Non si è trattato questa volta di una battaglia di settore come erano state le importanti occupazioni di architettura del '63 e neppure di un' ennesima ripetizione delle "manifestazioni nazionali per l'università" proposte dall'alto delle organizzazioni studentesche; è stato invece un movimento carico di spontaneismo, che ha investito quasi tutte le principali sedi universitarie del Nord e del Sud (Milano, Torino, Padova, Pavia, Bologna, Pisa, Firenze, Cagliari, Napoli e Bari) e che è ricorso dappertutto allo strumento più duro di lotta cioè alla occupazione». Al teach-in organizzato il 15 aprile a Roma dai Goliardi autonomi, l'organizzazione studentesca romana della sinistra, contro l'aggressione americana del Vietnam, autorevoli dirigenti della sinistra, Natoli, Basso, Pestalozza, sono fischiati e contestati. Con la manifestazione antimperialista di Firenze del 23 aprile 1967 le contraddizioni con il Pci e la sinistra tradizionale diventano insanabili: il Vietnam divide. Poco dopo, al congresso di Rimini, è la spaccatura dell'Ugi, l'organizzazione nazionale degli studenti universitari di sinistra. «Nuovo impegno», in parallelo con l'inchiesta sui gruppi minoritari, pubblica sul n. 6/7 il Progetto di tesi del sindacato studentesco (prime Tesi della Sapienza) e sul n. 8 le tesi del gruppo pisano e la mozione di sinistra del congresso di Rimini (seconde Tesi della Sapienza). Anima il dibattito promosso da «Nuovo impegno» l'esigenza di una nuova e diversa organizzazione della sinistra e la necessità ormai inderogabile di superare ogni ipotesi entrista. Il solco fra i partiti della sinistra tradizionale e le organizzazioni minoritarie è stato tracciato: sparisce ogni residua convinzione di possibili recuperi dei quadri critici che militano nel Pci e nel Psiup. Il tentativo portato avanti in tal senso dal gennaio 1966 al dicembre 1967 dal mensile «La sinistra» diretto da Lucio Colletti avrà vita breve e si trasformerà radicalmente nei primi mesi del 1968 sotto la direzione di Silverio Corvisieri, Augusto Illuminati e Giulio Savelli. Il dissenso nel Pci non è esploso, l'ingraismo è stato solo un espediente, la Fgci è rientrata nei ranghi. La Rivoluzione culturale «bombarda» il quartier generale, spazza via il vecchio e fa i conti alla radice con le tradizioni e col revisionismo; il Che muore nel tentativo di esportare la guerriglia cubana; i fuochi rivoluzionari esplodono in tutte le università europee; in America si ribellano i neri dei ghetti e i giovani bruciano le cartoline precetto alle manifestazioni dei reduci dal Vietnam. Il politicantismo dei piccoli passi, della tattica e del «fare i conti con le condizioni oggettive» sa di vecchio e di stantio: la politica va ridefinita nelle forme, nei metodi, nei contenuti. «Una sinistra da reinventare» avevano scritto i «Quaderni piacentini» al momento della loro fondazione e questo significava liberarsi dalle tradizionali etichettature, spaziando senza pregiudizi nell'arca marxista e nel dissenso cattolico. Don Milani e le sue esperienze non sono un caso isolato: nel Sud America ampi settori cattolici si schierano a fianco della rivoluzione, seguendo l'esempio di padre Camilo Torres, mentre in Italia, davanti alle fabbriche, a parlare di egualitarismo e di un socialismo fatto di giustizia sociale, non ci sono solo i gruppi operaisti e i marxisti-leninisti ma anche numerosi militanti del dissenso cattolico. Dopo l'indagine sul minoritarismo di sinistra, alla fine del 1967 «Nuovo impegno» lancia la già ricordata inchiesta sulla sinistra cattolica. L'obiettivo non è solo conoscitivo, ma punta direttamente a un esito politico, partendo dal presupposto che «certi settori di estrazione e di ispirazione cattolica già oggi collaborano con i giovani marxisti di estrema sinistra non solo nella battaglia universitaria ma anche in quella operaia, e i teologi di “Frères du monde” accettano la lezione di Marx, il concetto di lotta di classe e la violenza rivoluzionaria, indicando nel messaggio di Guevara la linea strategica da seguire» . Il questionario, inviato ai gruppi operanti in Italia e in Francia, è articolato in cinque domande chiave. Inizia con la richiesta di ricostruire la «storia politica» e informare sugli strumenti di intervento del gruppo. Seguono: il giudizio sull'imperialismo in rapporto alla politica di coesistenza pacifica; quale posizione si assume di fronte alle lotte dei popoli del Terzo Mondo e alle forme di guerriglia e di violenza; partendo dal rapporto fra imperialismo e capitalismo italiano come ci si colloca rispetto alle forze politiche italiane. Infine la domanda chiave: «Siete favorevoli ad una trasformazione socialista della società?». Articolando ulteriormente quest'ultima domanda, si chiede quali forme deve assumere la lotta anticapitalistica e antimperialista e un pronunciamento «sulle diverse forme di azione violenta» I gruppi che rispondono all'inchiesta esprimono gradi differenziati di analisi del quadro internazionale e delle prospettive della lotta politica in Italia, tuttavia risulta netta la rottura con la De e una forte volontà di unità a sinistra, accompagnata da numerose critiche ai tradizionali partiti operai e in particolare al ruolo del Pci. Anima le risposte un'idea di socialismo egualitario e antiburocratico, attratta dal terzomondismo e dall'esperienza della Rivoluzione culturale. Pur nella varietà delle argomentazioni permane una sostanziale fiducia nel quadro istituzionale e nella possibilità di un approccio democratico alla rivoluzione, prospettiva a cui ha lavorato tenacemente il gruppo orbitante attorno a «Questitalia». «Nuovo impegno» nelle Considerazioni sui risultati dell'inchiesta, prende atto che ci si trova di fronte a una ricerca e a posizioni ancora non definitive, e giudica i gruppi cattolici «una componente di quel revisionismo che conserva o assume una fraseologia rivoluzionaria per poi tradurla in pacifici obiettivi di convivenza, di coesistenza o comunque di illusioni democratiche». Per questi gruppi, prosegue la rivista, la lotta politica non si manifesta «in una ricerca, fra le masse dei poveri e dei diseredati, di una strategia rivoluzionaria, ma in una ricerca di alleanze, a livello parlamentare e partitico, o di tavole rotonde fra direttori di riviste e deputati, col Pci, col Psiup o magari col Mis» . Mentre polemizza aspramente col rifiuto della violenza espresso da «Vita sociale», sottolinea positivamente la posizione antisocialdemocratica e antiriformista di «Alternativa» e l'analisi del capitalismo e dell'imperialismo di «Frères du monde». Del gruppo francese riprende con grande risalto la legittimazione della violenza, una scelta discriminante per sciogliere ambiguità e tentennamenti verso un autentico progetto rivoluzionario. Nell'inverno 1967 si entra nel vivo dell'esplosione delle lotte studentesche. Le riviste hanno ormai definito la loro collocazione o stanno per riciclarsi schierandosi a fianco del movimento. Alcune concluderanno la loro esperienza di lì a breve, altre prolungheranno la loro vita oltre il riflusso e dentro i gruppi seguendone gli effimeri trionfalismi e le brusche cadute. «Nuovo impegno» e «Giovane critica» si incontreranno e si scontreranno nel crocevia Potere operaio-Lotta continua e mentre il primo diventerà l'organo ufficiale della Lega dei comunisti la seconda si distaccherà dal gruppismo tra il 1971 e il 1972 compiendo un'interessante autocritica. «Quaderni piacentini» si identificherà con la complessità multiforme del movimento e vivrà per intero la stagione del nuovo estremismo fino ai giorni nostri, con adesione prima, con distacco poi, quando la rottura con il movimento operaio diventerà rischio al confine con il terrorismo. «Lavoro politico» rimarrà prigioniero delle lotte interne al Pcd'I, mentre i suoi redattori Renato Curcio e Margherita Cagol diventeranno noti come i primi seminatori della gramigna del terrorismo. «Classe e Stato» proseguirà la sua ricerca fino alle soglie degli anni '70, lasciando frammenti della sua elaborazione in varie direzioni: nel populismo terzomondista dell'Unione dei comunisti italiani (m-1), nell'operaismo totalizzante di Potere operaio e nello spontaneismo sociologico di Lotta continua. «Quindici», il giornale d'avanguardia degli intellettuali che si erano raccolti attorno al Gruppo '63, sarà il manifesto delle prime ore delle occupazioni per poi disperdersi in molti rivoli secondo le scelte dei suoi protagonisti. L'edizione italiana della «Monthly Review» curata da Enzo Modugno, che pubblica i contributi di Baran, Sweezy, Huberman, farà da sfondo cosmopolita all'utopia della rivoluzione nei giorni magici del movimento, impolverandosi negli scaffali delle librerie Feltrinelli nel momento del riflusso. Alla fine del 1968 gli ex di «Classe operaia», Asor Rosa, Tronti e Cacciari, fonderanno il quadrimestrale «Contropiano» ma la rivista risulterà nettamente in ritardo rispetto alla fase di centralizzazione ormai avviata, cesserà le pubblicazioni nel 1972. Le riviste del decennio rappresentano il laboratorio politico e teorico del Sessantotto, sedimentano la cultura e le tensioni che lo preparano. Sono la storia di avanguardie intellettuali che, misurandosi con un movimento di portata eccezionale, muteranno la loro stessa configurazione, e diverranno i nuclei fondamentali dell'organizzazione su scala nazionale dei «partiti» dell'estremismo.
Riflettendo autocriticamente sull'esperienza di «Giovane critica». Mughini scriverà nell'autunno '72: «Uno specchio obliquo che rinfrange le idee, le tensioni, le speranze di una generazione intellettuale. Una sorta di sintesi, culturalmente parlando, tra "Lacerba" e le riviste gobettiane, un pasticciaccio vitale, genuino, perché in quel modo lo vivemmo fin dal fondo delle nostre scelte personali. In politica eravamo operaisti; chi perché abitava a un tiro di schioppo dalla Fiat, chi perché aveva letto Mario Tronti... La concezione generale della società, della storia, i fini ultimi ci straripavano da tutti i pori... Eravamo figli del '56. Muovemmo i primi passi in un rifiuto furibondo dell'esperienza staliniana. Ci parve dover tornare a Marx, alle fonti, come sempre accade quando una cultura ne aggredisce un'altra. E noi aggredimmo il "realismo" all'italiana, lo storicismo, Mario Alicata e la politica culturale da lui interpretata, il centro-sinistra che ci parve divisione vigliacca del movimento operaio, il comitato centrale del Pci, le "vie nazionali" (di cui non capivamo nulla), le riforme. E ciò in un contesto politico dove solo a proporla, una riforma, i governi cadevano a picco. La transustanzazione di quelle nostre idee non fu poi quale ce l'eravamo proposta» .
La rubrica «Classe-partito-teoria» esce sul n. 15/16, 1967, subito dopo l'espulsione dal Psiup del gruppo di «Classe e Stato» e contestualmente all'espulsione dei dissidenti dalla Fgci e dalle cellule universitarie del Pci. Vi vengono pubblicati: sul n. 15/16, Per una definizione del concetto di classe di G.M. Cazzaniga, Crisi del marxismo tradizionaledi M. Macciò, Su «Operai e Capitale» di M. Tronti di A. Asor Rosa; sul n. 17, 1967, II rapporto masse-organizzazionedi V. Rieser, Organizzare la lotta contro la proletarizzazione di G. Mottura, La nuova sintesi: dentro e contro di M. Tronti, I giovani hegeliani del capitale collettivo di G.M. Cazzaniga; sul n. 18/1968, Sui problemi della ricerca consiliare nel movimento operaio italiano di S. Merli; sul n. 19 68/69, Dalla spontaneità al partito, articolo con cui P. Leotta e E. Maretta, redattori di «Giovane critica», motivano la loro adesione al Pcd'I e II dibattito di Potere operaio sull'organizzazione su cui intervengono L. Della Mea, R. Luperini e A. Sofri. Una nota redazionale commenta negativamente la scelta di Leotta e Maretta e dichiara la convergenza della rivista con le posizioni espresse dall'editoriale del n. 12/13 di «Nuovo impegno».
L. Bobbio, Le lotte dell'Università. L'esempio di Torino, «Quaderni piacentini», n. 30, 1967; ora in «Quaderni piacentini, Antologia, 1962-1968», cit., p. 366.
«Nuovo impegno», n. 9/10, agosto 1967-gennaio 1968.
G. Mughini, Dieci anni di milizia intellettuale, «Giovane critica», n. 31/32, 1972.
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